questioni metodologiche e font
1. Quali oggetti per la storiografia musicale?
1.1. Generi musicali in «crisi d’identità»
Qual è l’oggetto della storiografia musicale? La domanda è meno oziosa di quanto possa sembrare. La risposta più ovvia – «la musica» – è solo in parte soddisfacente, se si accetta che la musica non sia una «qualcosa che c’è», ma piuttosto un insieme di pratiche, azioni, aspettative. Si è proposto qui di fare storia con i generi musicali, in quanto pratiche e discorsi sulla musica. Se si sposa questa visione ci si trova ad avere a che fare con oggetti più sfuggenti, per loro definizione instabili, contingenti, «immaginati». Come superare questa impasse, che sembra indirizzare la ricerca verso il «pantano» del postmoderno?
Jean-Jacques Nattiez si diceva sconcertato dall’abuso del termine «immaginazione» nella storiografia proposta dalla New Musicology – e con buone ragioni senz’altro, viste le aporìe del discorso che la postmodernità sembrava aver lasciato in dote alla musicologia (Nattiez 2001, p. 79; CAPITOLO 2.4.4). Tuttavia, il riconoscimento della natura immaginata di
molte delle strutture di pensiero che quotidianamente usiamo, e che governano l’organizzazione del nostro mondo, non deve essere necessariamente un freno alla loro comprensione più profonda, o un alibi per indulgere in narrazioni «deboli»: la storiografia e le sue risposte metodologiche possono offrire l’esempio necessario a rompere il circolo vizioso di quel «“talk about talk”», il «metadiscorso» sulla musica (Hooper 2006, p. 1), e per non rinunciare a una necessaria pars construens, che deve essere obiettivo ultimo di ogni ricerca.
La storia generale non è passata immune attraverso la «svolta postmoderna», al punto che, nelle posizioni più radicali, la stessa «veridicità» del discorso storico è stata messa in discussione. Tuttavia, le reazioni contro questo «scetticismo radicalmente antipositivista che attacca la referenzialità dei testi in quanto tali» (Ginzburg 2006, p. 10) sono state molte, e compatte. Soprattutto perché le argomentazioni che riducono la storiografia a una specie di narrativa con regole diverse (White 1975) – e che sono peraltro valide per ogni disciplina scienze «dure comprese» (Ginzburg 2006, p. 10) – erano già state almeno in parte superate dalla storiografia post-Annales: dal suo ripensamento sul ruolo dello storico, dalla sua riflessione sulle fonti e sugli oggetti della storiografia; dall’idea, che è di Bloch ([1950] 2009) in particolare, che «scavando dentro i testi, contro le intenzioni di chi li ha prodotti, si possono far emergere voci incontrollate» (Ginzburg 2006, p. 10): questa è la «storia delle mentalità», o la «storia culturale» (e non è data storia generale che non sia storica culturale, oggi). Dunque, non deve esserci dubbio: «ciò che gli storici indagano è reale» (Hobsbawn 1997, p. 8). La storiografia ha un metodo, e il «punto di partenza» dello storico («per quanto possa essere lontano da quello d’arrivo») è «la distinzione fondamentale […] tra i fatti accertati e la finzione, tra le affermazioni storiche basate su prove e soggette a verifica e quelle che tali non sono» (ibidem).
Se elegge i discorsi sulla musica a suo oggetto privilegiato, lo storico della musica sta indagando la realtà? Sì, se considera i discorsi sulla musica in quanto
pratiche musicali, come si propone qui di fare. I «generi musicali» (come la «musica», del resto), in verità, «esistono» e sono «reali» esattamente come esistono e sono reali le nazioni, gli stati e le religioni. Le persone usano i generi per fare cose molto reali e pratiche, come parlare del concerto che hanno appena ascoltato, organizzare una performance musicale, mettere in ordine la propria discoteca, né le «comunità» di genere – per quanto «immaginate» o «costellate» possano essere – sono formate da altro se non da persone vere. Al contrario, allora, proprio in quanto discorsi sulla musica – e pratiche musicali reali, agite quotidianamente da persone reali – i generi sono una eccellente porta d’accesso allo studio della storia della musica.
Alcuni spunti particolarmente efficaci giungono dal saggio di Rick Altman Silent Film Sound (Altman 2004b), oltre che da considerazioni analoghe che si possono trovare in altri lavori firmati dallo storico del cinema (Altman 1992). Con Silent Film Sound, dedicato allo studio del suono nel cinema prima dell’avvento del sonoro, Altman ambisce a farsi portavoce di una storia del cinema con «nuovi oggetti e nuovi progetti», una «nuova storia del cinema americano riconfigurata attraverso il suono», più che una semplice «storia del suono nel cinema americano» (Altman 2004b, p. 7).
Lo studioso si pone su una linea epistemologica che fa idealmente risalire alla scuola delle Annales, per come suggerisce di porre l’attenzione agli aspetti «più banali» dell’oggetto indagato, e per come denuncia, in partenza, le contraddizioni sottese a una pratica storiografica che si basi su un corpus di opere «preso a prestito dall’arena dell’estetica» (p. 6) – un tema ben noto alla storiografia della musica, specie quella di ispirazione dahlhausiana. Per avviare quella che Altman non ha scrupoli a definire una «rivoluzione», lo storico dei media dovrà osservare il maggior numero possibile di oggetti, «con l’intenzione di mettere in dubbio i loro stessi nomi e le loro stesse identità, insieme al contesto nel quale abbiamo imparato a comprenderli» (ibidem). Gli «oggetti» della ricerca di Altman non sono allora «tecnologie» o «eventi», ma piuttosto «segni culturali complessi» (p. 15). Uno storico dei media che si occupi di televisione si occupa in realtà di una «concezione particolare, storica e culturale, della categoria etichettata come “televisione”». La categoria di «televisione» (ovvero, la televisione come la intendiamo qui e ora) è il prodotto
di una cultura, non un «fatto permanente della vita», né una «entità naturale» (p. 16), e intenderla come tale fa venir meno gli obiettivi della ricerca.
the assumption of a single stable object of study hides the very problem that history is designed to study and explain. (Ibidem)
Sarebbe a dire, con Stanley Fish, che «tutti gli oggetti sono fatti e non trovati» (1984, p. 172), e che il loro significato è costruito attraverso processi culturali di mediazione fra diversi fruitori, che operano diacronicamente. Questo è particolarmente evidente se si osservano i significanti, le etichette associate ai «segni culturali complessi», il nome che diamo alle cose: un processo «apparentemente innocuo», che è in realtà «una delle più potenti forme di appropriazione che una cultura ha a disposizione» (Altman 2004b, p. 16).
Once named, an object or a technology seems to be naturally associated with that name. Not only is it impossible today to confuse television with radio, but we assume that the distinction is based on real differences. In distinguishing between a “television” and a “radio”, we voluntarily ignore the fact that every television includes a radio. In fact, a television is in one sense just a radio with images. Indeed, the object that we know as a “television” could have been called an “enhanced radio” or an “image radio” or a “screen radio” or even simply a “radio”. (Ibidem)
Ogni nuova tecnologia nasce, secondo Altman, associata a nomi multipli (nell’esempio qui sopra si parla della «scissione» fra radio e televisione). Lo storico, dunque, non si trova a avere a che fare con la «nascita» di qualcosa (p. 19) – metafora biologica che è caratteristica anche di molti discorsi sul genere – ma piuttosto con una «crisi d’identità che si riflette in ogni aspetto dell’esistenza, socialmente definita, della nuova tecnologia». In questo senso quella di Altman è una «crisis historiography», una «storiografia della crisi» che indaga in quelle zone grigie di significato che sembrano talvolta negare l’evidenza delle categorie concettuali dello storico.
Altman stesso suggerisce che un trattamento analogo a quello da lui proposto per gli «oggetti» della storia dei media possa essere riservato a una «vasta tipologia di fenomeni culturali», essendo in grado di rivelare «relazioni
non ancora riconosciute [e] aiutando non solo a spiegare la storia dell’oggetto o del medium sotto analisi, ma anche ad organizzare la grande quantità che quell’analisi richiede» (p. 22). È particolarmente efficace dedicarsi allo studio dei generi con questo approccio: i generi, coerentemente con il modello che è stato proposto nel capitolo precedente, non sono categorie statiche da usare acriticamente, «singoli oggetti stabili» ma – appunto – «segni culturali complessi», ed è il loro funzionamento, la loro coerenza in un dato momento del passato e il loro mutamento diacronico, a essere oggetto dell’indagine storica.