Un modello pragmatico dei generi musical
4. Un modello pragmatico
4.4. Musica e parlare di musica: i generi come discors
Gli studi sulla musica come comunicazione hanno sovente preso in considerazione i discorsi sulla musica – cioè, come le persone parlano di musica, a diversi livelli di competenza e con diverse finalità. L’antropologia e la ricerca etnomusicologica contemplano come parte fondamentale della ricerca etnografica anche il parlare di musica, ovvero come i membri di una comunità descrivono, e spiegano, le proprie pratiche musicali. Il parlare di musica, e l’usare generi musicali per farlo, è pratica ordinaria in molte culture musicali, e ha un ruolo centrale nell’occidente industrializzato, in particolare per i repertori che rientrano fra le attività ritenute «artistiche»: sarebbe «fatale che il discorso [sulla musica] cresca di pari passo con l’autonomia dell’arte, quando cioè l’invenzione musicale prende il sopravvento sul rispecchiamento ossia sulla funzione sociale» (Stefani 1982, p. 178). Il funzionamento del sistema dei generi può essere dunque efficacemente spiegato nel contesto del funzionamento dei discorsi sulla musica, compresi quelli circa la sua «autonomia», ed è legato a posizionamenti estetici e ideologici.
Gli studi che «richiamano l’attenzione sull’onnipresenza di discorsi tecnici ed estetici sulla musica» sono parte della letteratura che indaga il rapporto fra musica e linguaggio (Feld & Fox 1994, p. 27) Steven Feld ha
argomentato in maniera convincente sul tema in un importante articolo (1984), seguendo (e, in parte, contestando) la strada tracciata da Charles Seeger (1977). Dice Seeger: per rispondere alla domanda «che cosa comunica la musica?» è necessario interrogarsi su che cosa comunichi il discorso sulla musica («speech about music»). Il problema da cui muove il musicologo, e che è croce e delizia di ogni semiotica della musica, è il non-isomorfismo dei sistemi comunicativi del linguaggio e della musica (Tarasti 2010; Nattiez 1987; 1989). Come «metalinguaggio» dal funzionamento differente, il discorso sulla musica cade in quelle che Seeger (1977) chiama «idiosincrasie operazionali del nostro strumento di studio» – cioè la parola, il linguaggio – che renderebbero impossibile uno studio della musica non viziato da posizionamenti di sorta e distorsioni. Che fare, dunque, se parlando di musica rischiamo di distorcerne il significato? Secondo Seeger, sarebbe necessario promuovere un metalinguaggio e «postulati definitori che siano ontologicamente precisi» (Feld 1984, p. 1): è più che lecito dubitare di questa possibilità, per quanto si è detto fino ad ora.
I discorsi sulla musica possono essere imprecisi, esattamente come lo è il linguaggio, ma rispondono a un principio pragmatico. Servono, cioè, a esprimere pareri, organizzare le pratiche musicali, a coordinarne lo svolgimento, a descriverle, e si differenziano in base alla comunità, alle finalità, alle competenze dei parlanti, al contesto in cui vengono prodotti, eccetera. Ogni «significato», ogni «costruzione del reale», esiste solo in funzione di una «interpretazione» che è «socialmente interattiva e intersoggettiva» (p. 2). Gli schemi interpretativi attraverso cui costruiamo il discorso sulla musica non possono essere idiosincratici, ma devono essere sociali, e quindi «condivisi in larga parte» (ibidem). Nei termini di Altman, esistono in quanto «comunicazione laterale», come mediazione fra diversi utenti.
All musical sound structures are socially structured in two senses: they exist through social construction, and they mean through social interpretation. (Feld 1984, p. 7)
I discorsi sulla musica sono in gran parte basati su metafore «lessicali o discorsive», riguardano cioè il collegare fra loro fatti musicali diversi, assimilarli, riconoscerli come uguali o diversi, e quindi classificarli. Riguardano anche il riconoscere «qualcosa» come un fatto musicale, isolandolo
dall’insieme. Distaccandosi nettamente da Seeger e da buona parte della semiotica musicale, Feld sostiene come il limitarsi a considerare il dominio referenziale del discorso sulla musica (e quindi le sue supposte «idiosincrasie operazionali») limiti le nostre possibilità di comprensione di come funzioni il discorso stesso:
I think speech about music tells us more about ways we attempt to construct metaphoric discourse in order to signify our awareness of the more fundamental metaphoric discourse that music communicates in its own right. (p. 15)
Le rappresentazioni verbali, cioè, non sono necessarie alla comunicazione musicale, che agirebbe come un «sistema modellizzante primario» con «proprietà simboliche uniche e irriducibili». La definizione è mutuata dalla semiotica lotmaniana, in cui il «sistema modellizzante primario» è il linguaggio, e «secondari» sono gli altri sistemi, fra cui la «cultura». Quello che è interessante, ai fini del ragionamento che qui si conduce, è come questo modello razionalizzi il «parlare di musica» come fase fondamentale per comprendere come interpretiamo e reagiamo a ciò che la musica comunica. Il discorso sulla musica è allora una
metaphorical expression of another order that reflects secondary interpretive awareness, recognition, or engagement. (p. 16)
I due «livelli» di comunicazione (musica e discorso sulla musica) non sono dunque traducibili l’uno nell’altro. Al contrario, sono il carattere generale e la molteplicità di messaggi e interpretazioni possibili propri della comunicazione musicale a generare «un certo tipo di attività emotiva [«feelingful»] e di coinvolgimento da parte dell’ascoltatore» (p. 14). Feld sembra considerare il parlar di musica come una naturale conseguenza di questo «coinvolgimento». Il «parlare di musica» è allora una pratica basilare nel nostro rapporto con la musica stessa, nell’attribuirgli significati. Come si è sostenuto precedentemente, è il linguaggio a permettere l’esistenza di «ontologie» attraverso cui concepire la musica.
Come ha affermato Small, il significato della musica non sta «negli oggetti, o nelle opere musicali, ma nell’azione, in ciò che la gente fa» (1998, p. 8), e solo comprendendo quello che le persone fanno quando prendono parte in una attività musicale si può comprendere la funzione che il fare musica (il musicking) svolge all’interno della vita delle persone. Small invita a porre attenzione all’azione musicale nella sua totalità, considerando come le persone vi partecipino insieme con attività diverse che non sono solo quelle (classiche) del compositore e dell’esecutore, ma anche quelle di chi balla, stacca i biglietti, sposta il pianoforte, pulisce la sala da concerto:
To music is to take part, in any capacity, in a musical performance. (p. 9)32
È allora in quest’ottica che va considerato il «parlare di musica»: come attività indispensabile, su più livelli, a «fare musica». Chi parla di musica sta prendendo parte a una performance musicale.
Se nel musicking rientrano i discorsi che la gente fa intorno all’attività musicale – per coordinarla, ricordarla, definirla, spiegarla, catalogarla – e se i generi sono una parte più specializzata e codificata di questi discorsi, allora vale la medesima avvertenza fatta da Small circa la natura della musica: non dobbiamo pensare che il pensiero astratto, il dare un nome a quella che pare l’essenza di un’azione e reificarla, sia più vero della realtà che rappresenta. Esattamente come non c’è una cosa come la musica, allora non ci sono cose come i generi musicali. È qualcosa più di un invito a non oggettivare le categorie, a non pensarle cioè come «reali». Significa affermare che i generi significano non in quanto insiemi di eventi musicali, ma in quanto attività intorno ad essi. I generi sono cioè l’atto di ordinare, di spiegare, di definire la musica, e sono meglio comprensibili come attività discorsive, performance a tutti gli effetti. Essi operano a un livello secondario, metadiscorsivo, rispetto al discorso musicale, e il loro significato si forma interdiscorsivamente attraverso comunicazioni laterali fra diversi utenti, raggruppati in comunità.
32 La concezione di Small è perfettamente compatibile con l’idea di «musica» come
I generi quindi sono operazioni che i parlanti fanno con la loro lingua, innanzitutto, sono discorsi sulla musica. Ognuno può usare le etichette come meglio crede (ovvero, in base alle proprie competenze, convinzioni, valori…) ed esistono – come si è detto – categorie idiosincratiche private. Al fine di una comunicazione ben riuscita, tuttavia, il sistema linguistico tenderà ad auto- regolarsi riducendo il rumore e ottimizzando le etichette. È una visione non priva di un aspetto evoluzionistico, perché lo stesso linguaggio «evolve» nell’uso. Tuttavia è difficile banalizzare questi processi come lineari: le attribuzioni discordanti sopravvivono come espressioni di diverse comunità, o addirittura all’interno di una stessa comunità come espressione di diverse competenze o di diverse gerarchie di valori, e fanno parte del sistema stesso.