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Idee di genere nella pratica quotidiana: quattro esempi in forma di aneddoto

Un modello pragmatico dei generi musical

3. Verso un modello: dalla teoria alla pratica (e ritorno)

3.2. Idee di genere nella pratica quotidiana: quattro esempi in forma di aneddoto

Esiste uno scollamento fra le teorie e la pratica dei generi musicali nella «realtà» del senso comune? Sfortunatamente, sì. L’esistenza dei generi nella quotidianità dei discorsi sulla musica sembra negare molte delle nostre necessità di ricercatori e storici. Non è un elemento che possa essere ignorato, e le pratiche in apparenza contradditorie non possono essere ricondotte forzosamente a un modello adatto al nostro scopo. Senza pretese di etnografie approfondite, si proverà ora ad affrontare alcune di queste contraddizioni riguardo al modo in cui i generi sono pensati e usati nei discorsi quotidiani, e a ricondurle a un modello di funzionamento, al fine di poter trarre alcune conclusioni che permettano di implementarlo.

ESEMPIO 1.ELWOOD E LA BARISTA

Elwood: What kind of music do you usually have here?

Bar Lady: Oh, we got both kinds: we got Country and Western.

In molti riconosceranno il dialogo: è tratto da The Blues Brothers di John Landis (1980). Per quanti non ricordassero la scena, i protagonisti Jake e Elwood si trovano a suonare in un locale, il Bob’s Country Bunker, da cui – scopriremo più tardi – non sono stati veramente scritturati. Il resto della sequenza, con la band che attacca «Gimme Some Lovin’», viene bersagliata da centinaia di bottiglie di birra e si risolve rapidamente a suonare il tema della serie TV western Rawhide per evitare il linciaggio, è un magnifico esempio di come le convenzioni di genere siano talvolta percepite dalle comunità in senso decisamente normativo, e di come le reazioni alle violazioni delle stesse non riguardino necessariamente il solo livello estesico.

Ma soffermiamoci sulla battuta iniziale. Il tono preoccupato con cui Elwood si informa sul genere che viene suonato al Bob’s Country Bunker è pienamente spiegabile con l’operazione di inferenza che ha compiuto appena

entrato nel locale. Un’operazione non troppo raffinata, a partire dal nome del posto: la camera da presa ci mostra, con una panoramica, una serie di segni riconducibili al genere «country and western» (marche di birra, vestiti, arredi…), mentre la musica intradiegetica rinforza l’impressione. La comicità deriva dal fatto che «country and western» è un solo genere, mentre la barista sembra sottintendere con il suo tono («country and western») la varietà della programmazione artistica del locale. Ma proviamo a prendere «sul serio» lo scambio di battute: «country and western» è veramente un solo genere? Lo è sicuramente per Elwood, che appartiene alla comunità dei musicisti di blues, e possiede probabilmente la competenza per riconoscere il blues dal soul, il rock and roll dal boogie, e probabilmente anche una versione di «Gimme Some Lovin’» da un’altra (ad esempio quella americana da quella inglese), ma non il country dal western. È così per noi, se abbiamo riso alla battuta. Non è detto che sia così per la barista, per la cui competenza il country è una cosa, e il western un’altra. Dunque, il funzionamento della battuta si basa su un paradosso: l’incomunicabilità fra due «culture di genere» collegate a valori e stili differenti (in questo caso, quasi opposti) oltre che a repertori non tangenti fra loro. Il concetto di genere che fa sì che l’intera scena funzioni è allora molto poco contingente o relativo, ma ha il carattere di un insieme di norme rigidamente codificate, e inviolabili, al costo di prendersi una bottigliata.

ESEMPIO 2.IL GIOCO DEL «CHI SONO

Nell’esempio precedente, diverse erano le comunità, diverse le competenze connesse, ma comune fra i due interlocutori era la concezione «assoluta» di genere permetteva al dialogo di svolgersi. Ma non sempre le idee sul genere coincidono. Silvia (come da convenzioni di genere, il nome è di fantasia) è una ragazzina di tredici anni. Suona il basso e sul suo zaino ci sono toppe di gruppi come Green Day, Nirvana, U2, My Chemical Romance. È una ragazzina piuttosto tipica. La sua migliore amica Agnese (la quale condivide le passioni di Silvia) e altre persone – fra cui il sottoscritto – stanno partecipando a un gioco. Lo scopo è indovinare un personaggio famoso il cui nome è scritto su una carta incollata alla fronte del giocatore. Il giocatore deve indovinare il proprio personaggio attraverso domande a cui gli altri giocatori devono fornire una

risposta secca «sì» o«no». 25 Agnese deve indovinare «Avril Lavigne».

Attraverso una serie di domande («sono una donna?», «sono un personaggio reale?», «sono famosa?» «sono un’attrice?», e così via) è arrivata a scoprire che il suo personaggio è una cantante. Fa allora una domanda netta: «sono una cantante rock?». La risposta di chi scrive, che aderisce a una concezione relativa di genere (o che è semplicemente precisino) sarebbe qualcosa tipo «Bè, dipende cosa intendiamo come rock…», traduzione in linguaggio comune dell’assunto per cui i generi sono categorie socialmente, culturalmente e storicamente contingenti. In realtà, non c’è il tempo di formulare la risposta perché Silvia risponde immediatamente e senza esitazione con un sonoro «noooooo!».

Un modello semiotico può razionalizzare bene questa situazione: a differenza del sottoscritto, Silvia e Agnese fanno parte della stessa comunità (sono amiche, abbiamo detto) e hanno affine competenza, dunque condividono – insieme con le passioni musicali e le cuffie dell’iPod – anche le categorie e i giudizi estetici. Entrambe aderiscono a una concezione assoluta del genere musicale, una visione che sarà pure inadatta a descrivere il funzionamento del sistema dei generi, ma che sembra essere piuttosto comune, e che permette a giochi di questo tipo di funzionare nella realtà, alle «storie del rock» di essere scritte, e in generale alla comunicazione di funzionare. Molto spesso i discorsi sui generi implicano la scelta fra due o più etichette esclusive.

Le cose però sono più complicate di così. Nel gruppo c’è una terza amica – chiamiamola Paola – che dissente, affermando con decisione che Avril Lavigne è rock. La risposta di Silvia implicava un posizionamento estetico: Avril Lavigne non è «rock» perché è un’artista «pop», dunque non è «autentica» (a proposito: è un’«artista»?). Ma a Paola Avril Lavigne piace, «le crede», la cataloga come rock. Sarebbe difficile in questo caso affermare che le due amiche appartengono a comunità diverse. Diversa è – forse – la loro competenza? Il gusto? È possibile stabilire chi ha ragione? C’è davvero una risposta corretta?26

25 I cinefili riconosceranno in questo gioco quello al centro della lunga sequenza della

taverna in Inglorious Basterds di Quentin Tarantino.

26 La difficoltà che si prova nello spiegare chi sia Avril Lavigne a chi non la conoscesse

mostra perfettamente la difficoltà di imbastire discorsi sulla musica senza usare i generi: si potrebbe dire che è nata nel 1984, che ha raggiunto il successo con un singolo che si chiama «Complicated» molto amato dalla ragazzine, che dal vivo suona (o finge di suonare?) la chitarra elettrica…

Ovviamente, si possono adottare soluzioni ibride, che sembrano attenuare il carattere assoluto dei generi: Avril Lavigne è allora un’artista «pop- rock». Senza affermare che Silvia, Agnese e Paola appartengano a comunità diverse allo stesso tempo, il «fatto musicale» «Avril Lavigne» può essere spiegato tanto attraverso il «codice» del rock quanto con quello del pop, a seconda della competenza e delle ideologie in atto. In altri casi etichette ancora più elaborate, descrizioni metaforiche e vari tipi di riferimento possono essere impiegati per mediare fra diverse posizioni e interpretazioni, non necessariamente fra diversi individui, ma anche come processo idiosincratico. L’esempio tuttavia chiarisce come collegare il funzionamento dei generi a comunità rigide (come si è fatto nell’ESEMPIO 1) non riesca a spiegare che una

piccola parte del funzionamento dei generi nella pratica.

ESEMPIO 3.FRANCO E IL POLIZIOTTO

Franco suona in un gruppo. Il furgone con il quale sta andando a un concerto in Francia viene fermato da un gendarme, che, scoperto che è un musicista, gli domanda «quel genre de musique?». L’esempio vi sembra noto? Sì, è lo stesso narrato da (Franco) Fabbri in apertura di uno dei suoi primi contributi sul genere musicale (Fabbri 1982b). Fabbri usava l’esempio per proporre il suo modello di genere, partendo da una sensazione nota a molti (descritta anche nell’esempio precedente), e cioè dalla difficoltà a rispondere a quella che solo in apparenza è una domanda semplice: «che genere di musica?». L’esempio funziona perché mette insieme diversi problemi: ad esempio il fatto che il gendarme si può aspettare un certo tipo di risposta (come Elwood, potrebbe avere i suoi sospetti osservando i suoi interlocutori), e che Fabbri sa che il gendarme si aspetta un certo tipo di risposta, ma che un certo tipo di risposta porterebbe a inferenze di un certo tipo da parte del gendarme… E così via.

Non è la sola parte utile dell’aneddoto: è lo stesso Fabbri a dichiarare di non sapere che cosa rispondere. Gli ci vogliono un paio di pagine per descrivere la musica degli Stormy Six in quel momento della loro carriera, data la sua impossibilità – o incapacità – a ricondurla ad un genere «assoluto» (uno, cioè, comprensibile da gendarmi francesi, bariste di locali country, ragazzine tredicenni e storici del rock). Fabbri sta dunque descrivendo la sua musica come musica senza genere, o meglio, come musica pluri-generica.

L’impossibilità di assegnar(si) un genere univoco si può spiegare in quella linea di pensiero che valuta esteticamente la rottura dei codici invece del rispetto degli stessi. È una narrazione dei generi musicali, come abbiamo visto, molto diffusa, almeno a partire dall’idealismo, che rifiuta il paradigma essenzialista e assegna un valore estetico a concetti come «ibridazione», «(musica) di confine», «contaminazione», «mescolanza». Molto spesso, come chi si occupa di musica sa, non ci sono alternative a questo tipo di descrizioni complesse, se non cedere alla banalizzazione. Il che ci suggerisce, come già nell’esempio precedente, come i discorsi sulla musica siano strettamente connessi con la sua valutazione estetica.

Ma la parte che manca dell’aneddoto è ancora più interessante: che risposta ha ottenuto, alla sua domanda, l’anonimo flic? Necessariamente, deve essere stata una risposta essenziale: non certo «Rock in Opposition», o «Musikspektakel gegen Cocacolonisierung der Sinne», a dimostrazione di come anche i relativisti (così come i crociani e i postmoderni) debbano talvolta piegarsi alle esigenze della comunicazione, specie di fronte a un gendarme. E di come, in realtà, si possa anche mentire con i generi musicali: come Franco, che ha risposto «musique classique». Se la semiotica è la «disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire» (Eco 1975, p. 17), allora è con la semiotica che occorre approcciare i generi.

ESEMPIO 4.GLI SCAFFALI E I GIORNALI

Il problema della musica senza genere, o multigenere, ritorna anche nel quarto esempio. Nel 2008, alla prima esperienza lavorativa seria, chi scrive si trovò a progettare la struttura del nuovo “giornale della musica”. Il progetto editoriale prevedeva di coprire «tutte» le musiche che potessero interessare un ascoltatore colto (la readership di partenza veniva dalla musica classica, e a quel mondo apparteneva la maggior parte degli inserzionisti), e si decise di dividere il menabò in quattro sezioni: «Classica», «Jazz», «Pop», e «World». Era una decisione dettata da considerazioni di carattere pratico circa la pubblicità, la gestione dei collaboratori e l’editing, oltre che un modo per guidare il lettore e facilitarlo. Il problema, naturalmente, si presentò quando si trattò di mettere in pagina le musiche che non appartenevano chiaramente a nessuna sezione, o che si trovavano al confine fra di esse. Dove collocare i dischi del sassofonista

Rudresh Mahanthappa, jazzista alle prese con musiche indiane? E Max Richter – compositore di gusto minimalista che incide per l’etichetta indie rock Fat Cat – è «pop» o «classico»? Si introdusse allora una quinta sezione «trasversale», che compariva cioè in forma di rubrica in diversi punti del giornale, dedicata appunto alle musiche «oltre i generi» (che prese il nome di «Oltre»). Tuttavia, il problema rimase: come trattare il blues? (nel pop o nel jazz?). E il reggae? (nel pop o nella world music?).

Il punto è che non esisteva mai una risposta «giusta», dal momento che nessuno nella redazione aderiva a una concezione assoluta dei generi musicali e – anzi – era esteticamente predisposto a valutare in termini migliori proprio le musiche «senza genere». Tuttavia, era la struttura a esigere un pensiero di tipo assoluto: una recensione su un giornale è come un disco in un negozio di dischi. Per quanto possa essere associato a etichette multiple, nel mondo «reale» potrà essere collocato in un solo scaffale alla volta. Per molte delle operazioni che quotidianamente facciamo con i generi, servono allora generi «semplici», essenziali, per quanto questo possa contraddire le nostre opinioni su di essi.

Allo stesso tempo, uno degli usi più comuni che un critico musicale fa dei generi va nella direzione opposta, verso la loro negazione in quanto concetti assoluti, attraverso il richiamo costante di idee come «ibridazione» e «contaminazione», all’idea – appunto – di andare «oltre» ai generi. Un singolo disco, se pure deve essere collocato in una pagina e in una sola (almeno su una rivista cartacea), può però essere descritto attraverso innumerevoli etichette di genere alternative fra loro, o compresenti, o gerarchizzate a più livelli, o attraverso sottogeneri e generi «ibridi». Non è raro, in certe riviste soprattutto, leggere che un disco o un musicista mescola «no wave e tastiere world» con una «matrice rap», o che è un disco di «prog-folk», «pop-punk», o «a metà strada fra…».27

Questa pratica è particolarmente evidente nei sistemi di tagging sul web, in cui la presenza di uno spazio pluridimensionale e ipertestuale permette di superare la rigidità di struttura, e – di fatto – definire lo stesso fatto musicale

27Alcuni degli esempi citati sono tratti, del tutto a caso, da un «generatore automatico

di recensioni snob di musica indie», a riprova di quanto questo modo di parlare di musica sia comune in certi milieu. È disponibile all’indirizzo: www.polygen.org/it/grammatiche/musica_cinema_e_spettacolo/ita/recensioniindie.g rm; accesso: 14 gennaio 2016.

con più etichette di genere contemporaneamente (ovvero, mettere lo stesso disco su più di uno scaffale). Dunque, la scelta di che «tipo» di genere usare – assoluto o relativo – dipende tanto dalla «competenza» e dal posizionamento ideologico del fruitore, quanto dalle contingenze e dai limiti del medium.