• Non ci sono risultati.

Che cosa sono i generi musicali?

Un modello pragmatico dei generi musical

4. Un modello pragmatico

4.1. Che cosa sono i generi musicali?

La domanda di ricerca che sta dietro a molte teorie dei generi, più o meno esplicitata, è la più ovvia: che cosa sono i generi musicali? «Classi sanzionate per convenzione» (Samson 2001), «insiemi di fatti musicali» (Fabbri 1982a, et. al.), «insiemi di codici simbolici» (Holt 2003), struttura e orizzonti d’attesa, e così via. Ma i generi sono qualcosa? È necessario stabilire che cosa siano i generi per sviluppare un modello del loro funzionamento? Molte definizioni, in realtà, suggeriscono che siano piuttosto insiemi di qualcosa. Ma di cosa? Di «testi»? Di «fatti musicali»? O piuttosto di convenzioni e codici che agiscono a livello sociale? O ancora di proprietà, tratti specifici, pattern ripetuti, informazioni e istruzioni di codificazione?

Non si può rispondere in maniera efficace alla domanda «che cosa sono i generi?» senza confrontarsi con il funzionamento del nostro cervello. Tanto le vecchie visioni «trascendenti», quanto i nuovi paradigmi proposti dalle scienze cognitive considerano la categorizzazione come il modo principale in cui concepiamo l’esperienza (Lakoff 1987, p. xi).

An understanding of how we categorize is central to any understanding of how we think and how we function, and therefore central to an understanding of what makes us human. (p. 6)

La comprensione di «come categorizziamo» è allora necessaria alla comprensione dell’esistenza dei generi, ma è materia fuori portata per gli obiettivi di questa ricerca, e – per di più – è solo una parte della questione. La tentazione di trattare i generi «dal punto di vista del nostro cervello», per così dire, può portare a dimenticare come i generi siano «casi culturali» e non «casi empirici», nella distinzione di Umberto Eco (1997): sarebbe a dire che spiegare il come li riconosciamo non risolve per intero il problema del loro funzionamento. Approcci che hanno seguito la pista cognitiva, come quello di Levitin (2006), non ci dicono in realtà molto su come si crei il significato dei generi, o su come i generi funzionino e vengano utilizzati in diversi contesti. Affermare, come fa Levitin, che «diciamo che qualcosa è heavy metal se assomiglia allo heavy metal» (p. 139), e che i generi si articolano su delle

«somiglianze di famiglia [family resemblances]», costruite intorno a «prototipi», ci spiega forse qualcosa sul nostro cervello, ma nulla sullo heavy metal, o sui generi musicali.28 Occorre affrontare la questione da un altro punto

di vista.

La risposta alla domanda «che cosa sono i generi musicali?» è strettamente legata a un’altra domanda di difficile risposta: «che cos’è la musica?». Non a caso, la definizione di quei «fatti musicali» che costituiscono in insiemi i generi, nella formulazione di Fabbri, è ricalcata su una definizione di «musica», quella di Gino Stefani («qualunque tipo di attività intorno a qualunque tipo di eventi sonori», 1985 et al.).

«Arte dei suoni», «suono umanamente organizzato», «suono esteticamente organizzato: dopo millenni di risposte tentative, le più recenti riflessioni sulla natura della musica suggeriscono di non pensarla come un «qualcosa che c’è», ma come una serie di pratiche, «qualcosa che si fa», un verbo («to music», «musicking») e non un sostantivo (Small 1998). Ma, come ha sostenuto Philip Bohlman, «la condizione metafisica della musica con cui in Occidente abbiamo più familiarità è che la musica sia un oggetto» (1999, p. 18). È proprio in quanto oggetto che essa ha dei confini, e dei nomi che possono esserle applicati rinforzando il suo statuto oggettivo. In quanto oggetto, la musica può assumere forme specifiche che possono ugualmente essere nominate, e reificate in forma di nastro, partitura, o altro. La musica tuttavia esiste come processo, dunque come forma aperta e senza confini, e non assume mai un completo stato oggettivo. Bohlman riconosce dunque delle «ontologie della musica», che non sono «quelle dei filosofi, degli esteti, o dei musicologi», ma di chi pratica la musica, perché «le ontologie della musica non sono separabili dalla [sua] pratica» (p. 19), sono «pratiche umane basilari» (p. 33). Ci sono, cioè, necessarie per pensare la musica, parlare di musica, e organizzarla. Una delle ontologie descritte da Bohlman è quella che oppone «la Musica» a «le musiche», cioè universale e locale, assoluto e relativo:

Die Musik, therefore, objectifies music, bounding it with

language because one cannot do so with individual practice or imagination. (p. 26)

Le «strategie nominaliste» attraverso cui poniamo dei confini alla «musica» sono allora un paradosso epistemologico non superabile. Come sembra suggerire Bohlman, è lo stesso linguaggio a sancire i confini delle ontologie e di quello che possiamo conoscere. I generi dunque «esistono» in funzione di ontologizzazioni della musica, sono ontologie della musica che plasmano quotidianamente il nostro mondo musicale. I generi oggettivano la musica (anzi: le musiche). Se possono essere qualcosa, sono le etichette che applichiamo al «processo musicale» per attribuirgli dei confini. È stato notato come le categorie siano «essenzialmente soggettive», e vengano «oggettivate dagli individui mediante il linguaggio ed altre forme di rappresentazione simbolica» (Goodenough 2001, p. 34). Le categorie sono dunque pensate come «ciò che viene designato dalle parole» (ibidem), ed è attraverso le parole che possiamo prendere coscienza delle categorie.

Nel processo attraverso cui nominiamo un fatto musicale sono decisive le «politiche che le ontologie musicali spesso incarnano» (Bohlman 1999, p. 25). Posizionamenti ideologici, e in definitiva estetici, sono pienamente inscritti nelle ontologie della musica, ad esempio nell’idea che una musica possa essere «mia» o «tua», o «nostra» o «loro» (due esempi di ontologie fatti da Bohlman). È l’esistenza di ontologie della musica a rendere possibile l’esistenza di tassonomie musicali. Le tassonomie sono tipici esempi di «gerarchie categoriali elaborate e oggettivate» (Goodenough 2001, p. 37).

In conclusione, gli esseri umani pensano la musica attraverso ontologie, e non sono in grado di pensarla altrimenti. Guardare «dentro» il cervello umano è fuori dalla portata di una disciplina umanistica, ma se la questione di che cosa siano le categorie riguarda il funzionamento del nostro cervello, la questione dell’esistenza e dell’uso delle categorie nel mondo riguarda piuttosto il linguaggio. Occorre allora spostare l’attenzione dal genere come «oggetto» (e oggetto di studio) alle «etichette di genere» che «esistono» nell’uso linguistico, dal piano del contenuto a quello dell’espressione, dal significato al significante, dai neuroni ai singoli parlanti. Per fare questo, si deve innanzitutto cambiare domanda: da «che cosa sono i generi?» a «a che cosa servono, i generi»?