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L’invenzione della «canzone italiana»

2. Canzone, italianità musicale e pubblico nazionale

2.3. Il Fascismo, la canzone, le musiche afroamericane

2.3.1. Il jazz e il regime

Un processo di cristallizzazione di elementi musicali (un certo tipo di voce, di suono, di soggetto) come «nazionali» contribuisce naturalmente il contesto del regime: la canzone italiana è anche uno strumento di propaganda, e la sua «italianità» è funzionale alle politiche del Fascismo. In effetti, la codificazione di una «italianità» della canzone in concomitanza storica con la sua diffusione presso un pubblico radiofonico nazionale va ricercata, in prima battuta, nelle politiche culturali del regime fascista, e nei suoi tentativi di filtrare e controllare l’afflusso di musiche di origine straniera, soprattutto afroamericana. Quelli che seguono la prima guerra mondiale sono nel mondo gli «anni del jazz», in cui si assiste alla diffusione globale di alcune musiche, soprattutto da ballo, sintetizzate nel contesto di comunità diasporiche di origine africana, o che hanno comunque una forte componente «africana».

In questi anni il termine «jazz», variamente storpiato dalla stampa italiana o usato in forme variabili («(il/lo) jazz band»), ha tutto fuorché un

significato univoco, e raccoglie fatti musicali che oggi sarebbero distinti in generi diversi. Se è vero che nella seconda metà degli anni venti il «jazz» è la moda musicale, lo è «[f]orse più la parola che la musica» (Mazzoletti 2004, p. 107). «Jazz» indica per metonimia tutto un complesso di musiche afroamericane, mentre comincia ad assumere nel linguaggio degli specialisti un significato più ristretto, e più simile a quello contemporaneo (si comincia cioè a formare un canone di musicisti jazz).

La ricezione del «jazz» (o si dovrebbe dire dei «jazz») in Italia fino alla seconda guerra mondiale e le reazioni contrastanti nei suoi confronti da parte di pubblico e intellettuali sono state riccamente documentate da Adriano Mazzoletti (2004, pp. 175 e sgg.). L’atteggiamento verso queste musiche non è univoco negli anni del Fascismo. Il regime mostra nei confronti del jazz «sentimenti ancipiti» (Piazzoni 2011, p. 28) e, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il tasso di tolleranza o di accettazione è abbastanza alto in alcuni periodi, specie nella pratica. Fino al 1942, con l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, non ci sono veri e propri divieti (Ortoleva 1993, p. 459) e i primi anni dell’era fascista segnano addirittura un’inversione di tendenza in positivo rispetto al periodo precedente: il regime non si era ancora espresso sul jazz, che era considerato musica da ballo, «e il ballo era di gran moda fra i gerarchi» (Mazzoletti 2004, p. 107). Solo dal 1928 i giornali fascisti cominciano ad attaccare il jazz con più vigore. Si può citare questo noto passo:

è stupido, è ridicolo, è antifascista andare in solluchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei a ogni americanata che ci venga d’oltreoceano! Dobbiamo crearle noi le nostre forme di vita, d’arte e di bellezza, così come ci stiamo creando la nostra forma di governo, le nostre leggi e le nostre originalissime istituzioni.10

Nel 1929 esce l’aspro pamphlet Jazz Band di Anton Giulio Bragaglia (1929) – il cui successo fu comunque scarso (Mazzoletti 2004, p. 186) – e nello stesso anno Il popolo d’Italia invita alla «tutela del patrimonio musicale», a «dare un’impronta di schietta italianità oltre che alla nostra arte ai nostri costumi, ai nostri passatempi, ai nostri giochi»:

10 Carlo Ravasio, «Fascismo e tradizione», Il Popolo d’Italia, 30 marzo 1928. Citato in

Eppure oggi, in pieno Fascismo, noi che possediamo un patrimonio musicale che è fra tutti quelli dei popoli civili indubbiamente il più ricco ed il più vario (si va dall’oratorio al melodramma, dalla sinfonia, al quartetto, dalla lirica alla danza) noi ci siamo rassegnati a riconoscere, incontestato e incontrastato, il predominio della musica selvaggia dei negri.11

La propaganda fascista contro la musica «negroide» è ormai divenuta quasi un luogo comune, e viene perlopiù ricordata nei suoi elementi più aneddotici e folkloristici, come l’italianizzazione dei nomi propri e dei titoli dei brani. La diffusione di determinati termini che oggi ci paiono indice di razzismo («negro» su tutti, che rimane in uso fino almeno agli anni settanta senza connotazioni dispregiative), così come certe stilizzazioni di tratti somatici nelle rappresentazioni grafiche (si veda la copertina del citato Jazz Band, Bragaglia 1929) vanno considerate nel contesto dell’epoca, in cui non costituivano una trasgressione razzista nel senso odierno. La stessa iconografia del musicista jazz, gli stessi luoghi comuni, si ritrovano con facilità sulle pagine dei rotocalchi popolari del dopoguerra – segno di come la guerra non rappresenti un particolare momento di rottura, in tal senso.

Ciò non significa che le politiche del Fascismo non attuassero discriminazioni razziste. Questo è vero in particolare nel quadriennio che va dall’emanazione delle leggi razziali (1938) alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti (fine del 1941), e ancora negli anni della guerra. Ce lo conferma un editoriale su un Radiocorriere del 1939: l’autore – forse lo stesso direttore dell’Eiar Giulio Razzi – riporta di come l’ente abbia ridotto «la musica straniera ad una percentuale assolutamente trascurabile», e addirittura «eliminato le musiche di autori ebrei e negri».12 E tuttavia, non è tanto con il razzismo in sé

che si spiega l’atteggiamento del Fascismo nei confronti di queste musiche. Le ragioni vanno piuttosto cercate in due temi chiave dell’ideologia fascista, strettamente connessi fra loro: quello dell’autarchia produttiva, cara al regime in tutti gli ambiti dell’industria (e quella culturale non fa eccezione), e quello dello spirito nazionale, dell’«italianità» – appunto.

11 Guido Carlo Visconti, «Fuori i Barbari!», Il Popolo d’Italia, 13 settembre 1929. Citato

in Mazzoletti 2004, p. 188.

12 «Ancora della musica leggera», Radiocorriere, a. 15, n. 10, 5-11 marzo 1939, p. 5.