Un modello pragmatico dei generi musical
4. Un modello pragmatico
4.2. A che cosa servono i generi musicali?
Simon Frith (1996, pp. 75 e sgg.) ha riconosciuto tre funzioni delle «etichette di genere». In primo luogo, organizzare il processo di vendita nel sistema dell’industria musicale. In secondo luogo, organizzare la performance: questa funzione avrebbe un ruolo particolare nelle pratiche della popular music, perché i musicisti sono soliti usare etichette come abbreviazione per descrivere determinati suoni (p. 87). Infine, le etichette di genere servono per organizzare il processo di ascolto, sono cioè strumenti dei critici (e si può certamente chiosare che non è necessario essere dei critici di professione per utilizzare le etichette di genere in questo modo). Queste tre funzioni rendono conto dell’uso dei generi come principio di organizzazione di diverse pratiche musicali, ma devono essere spiegate in un quadro interpretativo più ampio.
Lasciando per un istante da parte la questione delle categorie private – cioè le «categorie soggettive» (Goodenough 2001) o idiosincratiche – un genere è una categoria «oggettivata», e può essere usato solo in quanto etichetta condivisa (ovvero, come significante). Dunque, deve essere frutto di un accordo sociale di qualche tipo: deve essere, appunto, «definito da una comunità». Una comunità deve, al minimo, contenere due persone per essere tale.29 Per usare
ancora i termini di Eco: possiamo sicuramente avere «tipi cognitivi» (ovvero quell’insieme privato di istruzioni per cui riconosciamo un’esperienza percettiva come occorrenza di un tipo) anche per i «casi culturali» (cioè per concetti non empirici, come i generi), e sicuramente possono esistere tipi cognitivi comuni. 30 Tuttavia, quello che viene condiviso a livello sociale non è il
tipo cognitivo (che è, appunto, privato) ma il «contenuto nucleare», e cioè «il modo in cui intersoggettivamente cerchiamo di chiarire quali tratti compongono un tipo cognitivo» (Eco 1997, p. 91).
La parola chiave è «intersoggettivamente»: sebbene Eco si occupi quasi esclusivamente dei casi empirici, e non approfondisca particolarmente il tema
29 Come si è affermato precedentemente, possono «esistere» categorie private e
idiosincratiche, ma non funzionano come generi: il genere «esiste» solo se è comprensibile e utilizzabile da una comunità, in virtù di un qualche accordo.
30 Il concetto di «tipo cognitivo» si applica più ragionevolmente alle «opere» (Fabbri
dei casi culturali,31 il concetto di «riferimento felice» che introduce per spiegare
il processo che porta da tipo cognitivo privato a contenuto nucleare colloca nel linguaggio la formazione dei contenuti nucleari. Il «nominare» è il primo «atto sociale» che ci convince che stiamo «[riconoscendo] svariati individui, in momenti diversi, come occorrenze dello stesso tipo» (Eco 1997). Di tutte le convenzioni che definiscono un genere quelle che regolano il nominarlo meritano allora attenzione speciale (Fabbri 2012a, p. 14).
Ci si può allora chiedere se possano esistere generi senza etichetta di genere, «generi senza nome». In molti casi, «alcune delle convenzioni più rilevanti che definiscono un genere tendono a operare prima che esista un accordo sul nome da attribuire al genere», e «sebbene un nome possa essere una condizione sufficiente per definire un genere», i generi senza nome possono esistere, secondo Fabbri (2012a, p. 187). I «generi senza nome» possono riguardare due casi. Nel primo, una comunità può non avere, o non aver ancora, trovato un accordo sul nome da attribuire a un insieme di fatti musicali: in tal caso però l’insieme dei fatti musicali può comunque essere associato ad altre etichette. Ad esempio, nel caso dei cantautori italiani, una serie di etichette alternative e in parte contraddittorie anticipa l’affermazione di «cantautore» (Tomatis 2010, e CAPITOLO 7.2). Alcune convenzioni del futuro genere dei
«cantautori» erano certo attive già da prima: il nome interviene allora come sanzione che risponde a un uso pratico (la necessità di intendersi fra parlanti), ma allo stesso tempo ridefinisce le convenzioni preesistenti, e ne crea di nuove. Dinamiche simili sembrano riguardare molti generi nella storia della popular music. Tuttavia, i generi vanno intesi diacronicamente: queste convenzioni su cui esisterebbe un accordo non ancora sanzionato dal nome, non sono piuttosto rese coerenti a posteriori? Cioè, pensate (teleologicamente) come fase preparatoria di un genere che si codificherà di lì a poco? Le comunità coinvolte nella definizione di un nuovo insieme di fatti musicali ancora non nominato possono certamente essere d’accordo su alcune convenzioni senza che esse debbano essere verbalizzate, ma un qualche tipo di comunicazione intorno a questi fatti deve esistere: deve cioè esserci un qualche significante per un
31 Nello specifico, Eco sostiene che il riconoscimento per i casi empirici procederebbe
da tipo cognitivo a contenuto nucleare, e a ritroso (da contenuto nucleare pubblico a tipo cognitivo), ma afferma anche che «le cose non sono così facili» (Eco 1997).
significato condiviso. Al minimo, i membri della comunità concorderanno che si tratta di «musica», e ragionevolmente della «loro» musica.
Nel secondo caso, una comunità attribuisce coerenza a un insieme di fatti musicali, e sceglie di non attribuire loro un nome: Fabbri (2012a) fa l’esempio del festival AngelicA di Bologna, luogo di incontri di avanguardie musicali «a cavallo dei generi» da molti anni. È un caso limite che, però, si spiega con un posizionamento ideologico/estetico che interpreta il genere come vincolo e lo rifiuta, e che è stato già affrontato. Comunque, anche in questo caso, esiste un accordo linguistico sul non nominare il genere: la «musica che non appartiene a nessun genere» è, davvero, un genere di per sé.
L’«esistenza» dei generi nella società è allora inscindibile dalla circolazione sociale di etichette di genere. Un genere che non ha (o non ha ancora) nome, se pure può esistere, è molto poco utile. Il fatto che un’etichetta sia usata da qualcuno risponde a un principio puramente pragmatico: le etichette di genere «esistono» e «nascono» in quanto hanno un’utilità di qualche tipo nell’organizzare pratiche musicali.
I generi dunque non appartengono all’industria, o alla critica, o ai musicisti. «Gli esseri umani [e fino a prova contraria, tali solo anche critici e discografici] usano i generi per parlare di musica» (Fabbri 2012a, p. 182). Ogni uso pratico dei generi presuppone il loro esistere interdiscorsivamente, oltre che intersoggettivamente. Allora, in prima battuta e senza differenziazioni di stile, di uso, di finalità: i generi servono a parlare di musica, a organizzare la musica attraverso discorsi.