Storia e storie della popular music
3. Gli storici e la popular music
4.3. Narrazioni moderne della storia della popular music
Charles Hamm, in un denso saggio breve (1995), ha riconosciuto ed elencato le principali narrazioni che si possono riconoscere dietro le storie della popular music esistenti. Le considerazioni dell’autore di Musica negli Stati Uniti (Hamm 1990) sono particolarmente interessanti per almeno due motivi: intanto, sono fra le poche riflessioni metodologiche sviluppate da uno storico della popular music. In secondo luogo, se storicizzate (Hamm scrive alla metà degli anni novanta, in un momento di generale ripensamento dei paradigmi della musicologia), aiutano a comprendere il difficile rapporto fra pratica storiografica e musicologia. La riflessione di Hamm, infatti, non sembra riuscire a superare la pars destruens da cui muove.
Hamm propone una lettura postmoderna a partire dalle considerazioni di Lyotard sulla crisi delle grandi narrazioni,16 in un momento in cui il
postmoderno e il concetto di «crisi delle grandi narrazioni» erano paradigmi già ben consolidati nell’accademia (e comunque Hamm, e i popular music studies, arrivano in ritardo rispetto – ad esempio – alla critica letteraria). In ogni modo, Hamm centra il punto quando colloca tanto l’idea di «popular music» quanto le narrazioni che vengono impiegate per descriverla nel contesto dell’era moderna.
Popular music, as we understand the term today, was a product of the modern era, extending from the late eighteenth century through the first two-thirds of the twentieth, or from the industrial revolution through late capitalism. (Hamm 1995, p. 1)
16 La versione in inglese di La condition postmoderne è uscita nel 1984, cinque anni
Dunque le narrazioni «legittimanti» e «totalizzanti» della popular music sono spiegabili come un prodotto dell’età moderna, al pari delle storie della musica eurocolta.
In the spirit of its time, much of it [the writing on popular music] attempts not only to “legitimate the rules of its own games” and “the validity of the institutions governing the social bond” but also attempts to “seek the truth,”, drawing on some “philosophy of history” to “legitimate knowledge” (p. 2).17
La prima narrazione che Hamm riconosce è quella 1) dell’autonomia della musica («narrative of musical autonomy», p. 2), secondo la quale l’essenza e il valore di un brano musicale risiedono nel testo, cioè nella «musica in sé». Fra i corollari di questa concezione c’è l’idea che la popular music sia artisticamente e moralmente inferiore alla musica «colta», e che il suo interesse sia più sociologico che musicologico: è di fatto la narrazione della «musica assoluta» alla Dahlhaus. È bene sottolineare che il concetto di «musica classica» è, al pari di quello di «popular music», un concetto moderno. La narrazione della musica assoluta è allora interpretabile nel medesimo contesto storico e culturale che è all’origine della definizione di popular music come musica «del terzo tipo», non-colta, non-tradizionale, di intrattenimento, e che per la prima volta vede l’«incorporazione della musica in un sistema di impresa capitalista» (Scott 2009, p. 3), di quel «grande scisma musicale» fra «lo stile classico e lo stile popular» (van der Merwe 1989, p. 18).
Hamm procede la sua rassegna con quella che chiama la 2) narrazione della cultura di massa («narrative of mass culture», p. 7), secondo cui la musica popular sarebbe prodotto inferiore in quanto trova la sua dimensione primaria all’interno di un sistema della comunicazione «di massa», governato da forze economiche che hanno interesse nell’offrire prodotti che si adattino alle classi inferiori, che costituiscono la maggioranza della popolazione. Il livello della cultura generale allora «affonda fino al minimo comun denominatore» (p. 7). Le narrazioni storiografiche che muovono da questa specie di distopia adorniana, dunque, tenderanno a privilegiare i repertori che sfuggono al sistema, che sono
17 Le citazioni fra virgolette sono prese da The Postmodern Condition (Lyotard 1984,
«superiori» e che appartengono alle «classi superiori» (p. 10): la musica «classica», di nuovo, ma anche certi generi popular che vengono legittimati attraverso una «distinzione», nel significato di Bourdieu (1983).
La narrazione della cultura di massa è strettamente collegata a quella che Hamm mette al numero 4) del suo elenco, e cioè la narrazione del classico della popular music classica («narrative of classic and classical popular music», Hamm 1995, p. 17). Secondo questo paradigma, la popular music (esattamente come la musica classica) può produrre capolavori individuali o interi «sotto- generi» superiori. La responsabilità di identificarli e preservarli è in carico ai critici e agli studiosi, e non al pubblico: i generi o i musicisti «salvati» entrano dunque nel museo delle cose belle, e accedono a uno spazio ibrido fra «colto» e «popular». Questa narrazione, di fatto, legittima la popular culture applicando a essa gli standard della «cultura alta», e – nel legittimare determinati repertori – legittima anche il critico e il pubblico che in questi repertori si riconosce (si veda anche Frith 1996). Quella del classico è una delle narrazioni più diffuse nella stampa musicale specializzata. È anche all’origine di quei generi musicali che si fondano su parametri estetici – come la canzone d’autore italiana – dove a essere «autenticato» non è solamente il singolo artista che sfugge al gusto volgare, ma la figura stessa dell’«autore» (Tomatis 2014c, e CAPITOLO 10). Le
storie costruite su questa narrazione, dunque, si dedicheranno a determinati generi più culturalmente accreditabili o accreditati, riprendendo un’idea di storia «positivista» come susseguirsi di grandi personalità individuali e fondandosi su un canone di artisti e generi. È interessante annotare come un aggiornamento di questa narrazione, che ha incorporato (e storicizzato) la visione postmoderna, abbia portato a creare canoni basati su estetiche popular lowbrow (il trash, il kitsch…), che vengono culturalmente legittimate per un’inversione dei «tropi» associati con l’«autenticità» (Middleton 1995; 1996).
Nel contesto di queste narrazioni, quando ci si occupa di generi musicali non legittimati culturalmente, si tenderà a trattarli in termini quantitativi, di popolarità, rafforzando l’impressione che essi seguano regole diverse dalla musica «bella» e pertengano unicamente al dominio del sociale. In questa prospettiva, è «popular» ciò che arriva ad una grande massa di persone. Tuttavia, la popolarità non è un buon criterio per fare storia della musica. I dati, ad esempio, ci dicono che nel 1964 la canzone più «popolare» in Italia fu «Una
lacrima sul viso», che vendette un milione e mezzo di copie in pochi mesi. La cifra è stata riportata da così tante fonti, giornalistiche o no, che oggi è per lo storico non più verificabile, ammesso lo sia mai stata. In ogni caso, il dato in sé non ci dice molto sulla canzone in Italia nel 1964 – anno in cui uscirono (vendendo sicuramente molto meno di Bobby Solo) sia Le canzoni della cattiva coscienza che Apocalittici e integrati, oltre che anno dello spettacolo Bella ciao a Spoleto. Queste concezioni della popular music di stampo «positivista» (Middleton 1994, p. 21), che mettono al centro delle narrazioni l’aspetto quantitativo e i «dati reali», rischiano di perdere di vista una serie di pratiche musicali, generi, aspetti estetici ed emotivi ben più interessanti del numero delle copie vendute – numero che è, peraltro, facilmente falsificabile, e difficilmente significativo se analizzato nella sola dimensione quantitativa (è il caso, ancora, della Music Timeline di Google).18
Un’altra narrazione – la numero 5) – è quella della cultura giovanile («narrative of youth culture», Hamm 1995, p. 21), che spiega la popular music – e costruisce di conseguenza la sua storia – attraverso le innovazioni sociali del dopoguerra nel mondo occidentale, con l’aumento del tempo libero, della disponibilità economica, e il conseguente emergere di una «classe giovanile» che diviene target dell’industria culturale. Uno dei limiti di questa narrazione secondo Hamm è la sua inutilizzabilità tanto per gruppi sociali in cui la differenza anagrafica sarebbe meno decisiva (ad esempio, gli afroamericani), quanto per particolari generi che apparirebbero indipendenti da queste dinamiche (il country), oltre che per ogni popular music di società non occidentali (p. 23). È comunque una narrazione decisamente anglocentrica e americanocentrica: l’emergere del protagonismo giovanile in altre democrazie dell’occidente (ad esempio, l’Italia) segue cronologie e dinamiche non del tutto sovrapponibili a quelle americane e britanniche (si veda il CAPITOLO 9). Inoltre,
tutta la popular music di prima della seconda guerra mondiale (dell’era pre- microsolco) non può essere spiegata attraverso il suo legame con la classe giovanile.
18 Un esempio dei limiti evidenti di questa impostazione, nella letteratura sociologica
sulla canzone italiana, è Nobile 2012, che costruisce un campione di dati sulla base delle classifiche di vendita, ma si vede poi costretto a integrarlo a causa di alcune mancanze riconosciute, su base totalmente arbitraria (p. 53).
Il ruolo dell’«autenticità» è citato da Hamm in due narrazioni, la 3) e la 6). La prima narrazione dell’autenticità (p. 11) mette al centro le musiche prodotte da determinati gruppi sociali – «etnici, razziali, o nazionali» – che sebbene compromesse dal contatto con il «mondo moderno», possono essere riportate a una qualche «origine». È una retorica strettamente imparentata con la letteratura sul mondo popolare (quella originata dai folkloristi del periodo romantico), e trova la sua fondazione nell’idea secondo cui ogni cultura avrebbe un proprio stile musicale primordiale, poi corrotto dai contatti con altre culture.19 Ne derivano storiografie che prediligono uno stile più «puro» e «vero»
rispetto a un altro (un filone molto florido è riconosciuto da Hamm nella storiografia sul jazz e sul ragtime), all’insegna di un «primitivismo» di matrice romantica (Middleton 1994, p. 239).
La seconda narrazione dell’autenticità (Hamm 1995, p. 23) esalta invece il ruolo delle masse popolari all’interno delle società capitaliste, e il loro ruolo nel creare prodotti culturali che diano espressione alla loro «coscienza di classe». Anche questa narrazione dà ampio spazio a repertori minoritari rispetto a un qualche mainstream identificato apocalitticamente (come già nella «narrazione della cultura di massa») come eterodiretto dal Capitale. È una visione che Hamm collega con l’origine stessa dei popular music studies nei primissimi anni ottanta, in una prospettiva «neo marxista» (p. 25). Anche il marxismo del resto – sostiene Hamm – è una «metanarrativa modernista», e non può dare senso al mondo postmoderno.
Fino a qui, Hamm ha portato avanti una pars destruens che, al netto del suo risultare oggi culturalmente situata, conferma e organizza efficacemente i problemi metodologici sin qui incontrati. Le narrazioni riconosciute da Hamm sono «gerarchiche, esclusive, e privilegiano determinati generi o repertori a scapito degli altri» (p. 2), legittimandoli attraverso una (pretesa) superiorità artistica, una (pretesa) rilevanza storica o sociale, o un’ideologia dell’autenticità. L’assunto di Hamm, secondo cui «la popular music ha una vita, una legittimità e un’ideologia sua propria» (p. 27), e l’invito a riconoscere il ruolo costruttivo – e non distruttivo – dei mass media nella cultura moderna, sono senz’altro condivisibili. Tuttavia, la pars construens di Hamm non supera le insidie
19 È un tema centrale anche nel pensiero di alcuni «padri» dell’etnomusicologia: si veda
postmoderniste, nonostante lo studioso riconosca – al numero 7) del suo elenco – alcune «altre voci» che hanno interpretato posizioni trasversali, o innovative, rispetto ai paradigmi moderni. Per di più, l’indipendenza metodologica del campo della popular music, se da un lato è necessaria allo studio e alla comprensione globale di un fenomeno complesso difficilmente riducibile ai paradigmi (o alle narrazioni) più diffusi, dall’altro sembra riproporre anche per la popular music il problema di una storiografia con regole speciali.