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Mondi, culture, industria: tendenze sociologiche

Un modello pragmatico dei generi musical

2. I generi nell’epoca della cultura di massa

2.2. Teorie dei generi della popular music

2.2.2. Mondi, culture, industria: tendenze sociologiche

Tuttavia, i generi musicali sono entrati negli studi sulla popular music soprattutto per mano dei sociologi della cultura: questa interpretazione del concetto di genere è, oggi, egemone e maggioritaria.

Simon Frith si occupa di generi, partendo dal modello di Fabbri, in Performing Rites (Frith 1996). Il suo contributo più interessante è l’introduzione del concetto di «mondi di genere» («genre worlds»), ricalcato sui «mondi dell’arte» del sociologo Howard Becker (1982), e con riferimento a Pierre Bourdieu e al concetto di «capitale culturale» (Bourdieu 1983). Per Frith, un «mondo di genere» è costruito e articolato attraverso un fitto «interplay» (metafora musicale non causale, visto che Frith mette al centro del discorso la performance) fra musicisti, ascoltatori, e «mediatori ideologici» («mediating ideologues», p. 88). I «mondi di genere» sono anche al centro del modo in cui esperiamo la musica, e organizzano aspettative, pratiche, estetiche e valori:

It is genre rules which determine how musical forms are taken to convey meaning and value, which determine the aptness of different sorts of judgment, which determine the competence of different people to make assessments. It is through genres that we experience music and musical relations, that we bring together the aesthetic and the ethical. (p. 95)

Il modo in cui i generi «lavorano», secondo Frith, è nei termini di un quotidiano e «deliberato» processo di «rule testing and bending» (p. 93). Le «norme di genere» (che sono socialmente codificate), cioè, si «piegano» e sono messe alla prova, dunque esistono, nella pratica quotidiana, dando conto del loro cambiare nel tempo.

Frith, dinamizzando le norme di genere e spiegandone lo sviluppo nel tempo, attribuisce loro un ruolo centrale. Contro l’aspetto «normativo» dei generi, e contro il carattere vincolante delle «norme», si schiera invece Keith Negus (1999; 1996, p. 146). Criticando alcuni punti della proposta di Fabbri, Negus definisce «deterministico» un modello basato su norme, e – invocando un approccio «trasformativo» al genere – introduce il concetto di «cultura di

genere» («genre culture»). L’idea che i generi esistano in quanto «culture» delinea una visione fortemente sociologica del funzionamento dei generi stessi, da intendersi non tanto come forma di codificazione di norme a livello testuale, ma come sistema di orientamenti, aspettative, strategie e convenzioni che «circolano» fra industria, testo e soggetto (p. 28). L’interesse di Negus è rivolto tuttavia soprattutto alle pratiche interne al mondo dell’industria discografica, e il ruolo centrale delle «culture di genere» nello spiegarne lo svolgimento è ben delineato. Lo stesso concetto di «culture di genere» è ripreso anche da Jason Toynbee (2000).

Un’opposizione fra un punto di vista sociologico e uno semiotico/musicologico sembra riconoscibile anche nella critica del sociologo Marco Santoro al concetto di «norma di genere», concetto che implicherebbe che «una data comunità si sia accordata su un certo insieme di norme relative al corso degli eventi musicali, che vengono da essa stessa rispettate e fatte rispettare» (Santoro 2010, pp. 27 e sgg.). Così inteso, il modello «[enfatizzerebbe] i vincoli più che le possibilità». Anche in risposta a queste critiche, Fabbri è tornato sul tema delle norme di genere sottolineando come l’esistenza di un codice, o di un insieme di norme, non implichi necessariamente l’esistenza di un accordo esplicito su di esse. Piuttosto, le «convenzioni» – che prendono ora il posto delle «norme socialmente accettate» – sono definite socialmente, quasi dialogicamente, nella pratica delle situazioni ricorrenti (Fabbri 2012a, p. 185).18

Questa interpretazione del concetto di genere in senso «strettamente normativo» (Santoro 2010, p. 29) suggerisce a Santoro di trattare piuttosto il genere (nel caso specifico, la canzone d’autore, suo oggetto di studio), anche per fini euristici, come «campo culturale» nei termini di Bourdieu; e cioè come

uno spazio di relazioni sociali e simboliche tra attori che, occupando posizioni diverse, hanno visioni diverse della canzone come oggetto culturale, e risorse diverse per imporre il proprio punto di vista, il proprio giudizio estetico (che non è mai solo estetico, ma anche morale e spesso politico). (p. 30)

L’approccio sociologico ai generi, ovvero l’insistenza sul loro essere «nella società» più che «nel testo», funziona efficacemente per spiegare certi generi, ma non sembra riuscire (né, c’è da dire, sembra essere interessato) a spiegare il funzionamento e la creazione di tassonomie musicali complesse da parte delle comunità musicali.

Proprio a tentare di colmare il «gap» fra musicologia e sociologia mirano i lavori di Fabian Holt (2003; 2007), che ambiscono a portare lo studio dei generi più vicino alla pratica e all’esperienza musicale. «Come possiamo comprendere i generi della popular music nel contesto delle culture della popular music e dei loro sistemi generici?», si chiede Holt (2003, p. 79). Lo spunto è interessante: Holt sceglie di perseguirlo non attraverso la definizione di una teoria, ma con alcune «small theories» basate su «etnografie» che, nei capitoli del libro (2007), coprono periodi diversi e impiegano metodologie molto diverse, dall’analisi dei giornali alle interviste all’osservazione delle pratiche comuni nei negozi di dischi. L’obiettivo ultimo non sarebbe, dice Holt, quello di «definire» i generi, ma piuttosto di «spiegarli».

L’assenza di un impianto teoretico si riverbera tuttavia nella fragilità di alcuni concetti, a partire da una definizione di genere piuttosto farraginosa: un genere è un

set of symbolic codes that are organized and constituted in a social network at particular moments in history, whose boundaries are negotiated in multilayered ontologies between different interpretative contexts. (Holt 2003, pp. 92-93; corsivo mio)19

Sebbene i generi si costituiscano «in un particolare momento nel corso della storia», altrove Holt riprende la distinzione di Todorov fra «generi storici» e «generi astratti». Nei primi rientrano i generi codificati storicamente: Holt ne fornisce un elenco di nove, organizzati in sottocategorie, come il blues (country blues, urban blues, Chicago West Side blues), il jazz (traditional, swing, bebop, cool jazz), o l’hip hop (old school, East Coast, West Coast, gangsta rap). Nei generi astratti invece rientrerebbero categorie come la «musica acustica» o la «musica per matrimoni». Holt oppone poi generi generi «core-boundary», cioè

generi che si definiscono in opposizione ad altri generi (il jazz vs. il rock, ad esempio) a generi «in-between», decentrati, che si collocano in mezzo ai confini di altri generi (ad esempio, lo zydeco, o il latin pop). Una categoria, quest’ultima, particolarmente problematica, perché qualunque fatto musicale minimamente eclettico potrebbe rientrarvi (come notato da alcuni commentatori: Marx 2008).

I limiti della proposta di Holt, dal punto di vista di questa ricerca, sono evidenti: intanto, gli esempi e le tipologie di genere sono tratti dalla popular music americana, e non è detto che il discorso possa valere per tutti i generi musicali in tutte le culture, né per questi stessi generi in altre culture.20 In

secondo luogo, sebbene non formalizzi il concetto di genere in senso rigido e opti per una definizione aperta, Holt sceglie «per ragioni pratiche» di distinguere fra generi e non-generi, limitando il suo interesse «alle categorie che molti [e si potrebbe obiettare: «molti» chi?] percepiscono come categorie di genere» (Holt 2007, p. 15). Così facendo, i generi «storici» sono generi, mentre altre categorie non vengono considerate tali. Non sono generi, per esempio, «mainstream popular music» o «pop music», nonostante si possa obiettare che «molti» percepiscano queste etichette come generiche. E neanche «muzak» o «new age» lo sarebbero, perché un genere sarebbe tale quando «ascrive significati e valori alla musica», e si collega alla «formazione di un canone» (p. 17). Esisterebbe dunque un’opposizione fra etichette con cui classificare la musica e generi veri e propri, forse perché nei popular music studies «gli studiosi sono semplicemente costretti ad avere a che fare con i termini disseminati dalla potente industria discografica» (Holt 2003, p. 80).

La teoria che emerge dai lavori di Holt è piuttosto limitante. Invece di fondare nell’uso delle comunità musicali le classificazioni, finisce con il riproporre posizionamenti estetici (ad esempio, nell’idea che esista musica che sfugge ai generi), un ruolo «forte» del critico, e una ineluttabilità dell’azione dell’industria, pur mascherati dietro etnografie «neutrali». Distinguere arbitrariamente fra diversi tipi di genere, poi, significa ricadere in una trappola euristica che non considera le contraddizioni connesse con la posizione del ricercatore all’interno delle comunità di genere.

Holt riconosce anche un modello di sviluppo diacronico dei generi, in tre passaggi: «disruption» (disordine, rottura, in cui i confini di un genere vengono intensificati e destabilizzati); «outreach» (estensione, il genere integra altre influenze e raggiunge un mercato più ampio); e «resistance» (resistenza, il genere si chiude intorno ad una tradizione, al revival; 2007, p. 59). Il modello è evidentemente basato sulla nascita del rock, o meglio: su una possibile interpretazione ideologica della nascita del rock. È un modello predittivo, perfettamente in linea con le interpretazioni della «rock era» (Wall 2001; Negus 1996). E, sebbene Holt lo neghi, il suo modo di trattare i generi in chiave diacronica cade talvolta nell’evoluzionismo (spie sono frasi come «quando l’hard rock si evolse in heavy metal…», p. 16).

Alcuni punti in comune con il «non-modello» di Holt ha il modello più nettamente sociologico di Jennifer Lena, esposto in un libro (Lena 2012) e un articolo (Lena & Peterson 2008). Lena sostiene, con ragione, come lo studio della musica necessiti di «thick histories» che spostino l’attenzione dai singoli attori verso le strutture sociali e l’azione collettiva (2012, p. 3). In questo senso, il libro si dedica a una classificazione socioculturale dei generi musicali, e definisce un modello per il loro sviluppo nel tempo basato sull’osservazione di quelli che Holt avrebbe definito «generi storici».

Anche Lena opera una selezione su cosa possa essere considerato come «genere», e cosa no, cadendo in una contraddizione. Da un lato, Lena ammette i limiti di una prospettiva dichiaratamente americanocentrica, in quanto afferma che «è apparso subito chiaro come la musica prodotta fuori dagli Stati Uniti, e prima dell’inizio del ventesimo secolo, si sia confrontata con circostanze drasticamente differenti durante la sua nascita e morte» (a che musiche si riferisca Lena non è del tutto chiaro), e di conseguenza ammette una «difficoltà nell’identificare stili musicali che potessero essere analizzati propriamente come genere» (p. 6). Dall’altro propone però una definizione di genere decisamente ampia:

I define musical genres as systems of orientations, expectations, and conventions that bind together industry, performers,

critics, and fans in making what they identify as a distinctive sort of music. (Ibidem)21

Dunque, «un genere esiste dove c’è un qualche consenso che uno stile di musica distintivo sia interpretato [performed]», ma esisterebbe comunque una distinzione fra stili («idiomi musicali»), come la polka o la techno, e generi veri e propri (e ci si potrebbe chiedere se i fan della techno non abbiano aspettative, e se la polka non risponda a determinate convenzioni). Inoltre, avverte Lena, nel senso che nel libro viene dato al termine «genere», «non tutta la musica commerciale può essere propriamente considerata genere» (p. 20). Musica concepita per determinati contesti, o categorie commerciali, devono essere considerate musica «senza genere» («nongenred»): Tin Pan Alley, le canzoni di Broadway, la dance music, l’easy listening, la world music, sarebbero dunque «musica senza genere».

Nel seguito del libro, Lena identifica sessanta generi americani, che classifica secondo quattro «forme di genere»: «avant-garde», «scene-based», «industry-based» e «traditional». Con queste quattro forme, la studiosa costruisce un modello di sviluppo diacronico (una «traiettoria», definita con l’acronimo «AgSIT») che ritrova nella maggior parte dei generi da lei descritti, in cui si passa dall’emergere di una nuova musica («avant-garde»), a una musica sviluppata su base locale o intorno a una scena («scene-based»), che viene poi assorbita dall’industria e diffusa («industry-based») e che assume, infine, connotazioni conservatrici («traditional»). Il modello è sovrapponibile a quello di Holt, con gli step 2 e 3 raccolti insieme. A questi quattro passaggi, Lena aggiunge una quinta tipologia svincolata dalla altre, che chiama – con sentimento pienamente americano – «government-purposed genre» («genere a scopo governativo»), in cui inserisce quei generi (ovviamente non americani) il cui sviluppo è sovvenzionato dai governi come azione di propaganda, o da movimenti e partiti politici in funzione antagonista. Fra gli esempi, la Nueva Canción cilena, la musica di propaganda cinese, l’afrobeat nigeriano…

I limiti, nell’ottica storica ed epistemologica qui adottata, sono lampanti. Intanto, Lena afferma di aver costruito questo modello sulla base dell’analisi di

21 La definizione è mutuata da quella dello studioso di cinema Steve Neale, già ripresa

da Toynbee (2000): «[genres are] systems of orientations, expectations and conventions that circulate between industry, text, ad subject» (Neale 1980, p. 19).

«diverse centinaia di storie della musica» (p. 55). Così facendo, ci starebbe soltanto dimostrando come diverse centinaia di storie della musica siano costruite su narrazioni evoluzionistiche di questo tipo, e non fornendo un modello di sviluppo dei generi. In secondo luogo, come già in Holt, la teoria di Lena riporta al centro del discorso il problema del posizionamento del critico. Il critico ha l’autorità per decidere cosa sia genere e cosa no? Per quanto Lena suggerisca già dal sottotitolo del libro l’idea che sia la «comunità che crea il genere», affermando (sulla scia di Becker e di Frith) che le comunità di genere sono «mondi dell’arte», questo principio si applica solo ad alcune categorie, di fatto quelle meno problematiche. La prova è che quello che non rientra nel modello, o ne viene escluso in quanto non-genere, o – nel caso dei «government-purposed genres» – viene inserito in categorie ad hoc (e, nel caso specifico, etnocentriche).

Questo tipo di pensiero sui generi musicali, ben rappresentato dai libri di Holt e Lena (e in parte da Negus), è oggi grandemente diffuso fra quanti se ne occupano. Fra le costanti, si possono riconoscere la centralità attribuita al ruolo dell’industria nel definire i generi; l’insistere sulle pratiche sociali connesse con i diversi generi più che su quelle più strettamente musicali (o paramusicali); la scelta di considerare come generi solo alcune delle categorie in uso per catalogare la musica (solitamente quelle più direttamente riconducibili a pratiche sociali, subculture o scene locali). La possibilità di usare uno strumento euristico «rodato» quale è il concetto di «campo di produzione artistica», e di opporlo al concetto di «genere», sembra poi giustificare affermazioni che paiono violare il senso comune a vantaggio di definizioni più maneggevoli. Un esempio eccellente di questi atteggiamenti ce lo dà la prima frase dell’abstract di un interessante articolo dedicato ai concetti di «genere», «campo» e «brand» applicati alla «world music»:

Despite the music industry’s attempts to genericise world music, it is not a genre, though it is nonetheless possible to talk about world music as a field of cultural production. (Taylor 2014, p. 159)

Vi si possono riconoscere, in sole tre righe: la riproposizione dell’idea di un’industria musicale che agisce come soggetto attivo per i propri fini

commerciali (smentita con efficacia in Negus 1999); l’adesione a un modello esclusivo di genere che contraddice l’uso («la world music non è un genere»); l’opposizione fra il concetto di «genere» e quello di «campo».

Se il nostro punto di partenza doveva essere quello di dubitare, a fini epistemologici e metodologici, delle «sintesi belle e pronte», e di «quei collegamenti di cui si riconosce fin dall’inizio la validità» (Foucault 1971, p. 30), una ricerca sui generi nella storia non può in nessun modo muovere dall’idea che al critico, in un qualunque momento, possa spettare il diritto o l’onere di decidere cosa sia e cosa non sia un genere musicale. La categoria di «world music» offre un ottimo esempio di quello che si vorrebbe qui affermare. Benché artificiale perché inventata dall’industria (e non è così anche per «rock ‘n’ roll», del resto?), benché etnocentrica e ideologica, benché disomogenea (come buona parte delle etichette di genere), la world music è un genere fintanto che qualcuno usa l’etichetta «world music» con significato generico. Ovvero, per riferirsi a un insieme di pratiche che ritiene coerenti, e per organizzare lo spazio musicale opponendo una «world music» a «qualcos’altro»: in questo senso, per quanto lo neghi, anche Taylor sta parlando della world music come fosse un genere musicale. Nella direzione di una concezione pragmatica dei generi, dunque, non ci è consentito contraddire il senso comune, né – soprattutto – l’uso comune che dei generi fanno quotidianamente le comunità musicali.