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Storia e storie della popular music

5. Prime conclusioni: organizzare la storia della popular music

5.2. Fare storia con i gener

Tutto dipende, naturalmente, da cosa si intende per «genere». I generi musicali – usiamo per il momento il termine senza definirlo – sembrano in effetti essere fondamentali nel mettere ordine nel passato musicale, almeno quanto lo sono

per ordinare il presente: basta sfogliare l’indice di buona parte delle storie della popular music per rendersene conto.20 L’organizzazione della storia per generi

ha riscontri anche nella storia dell’arte, e nella storiografia musicale convenzionale, in quello che Georg Knepler ha definito «ordinamento per stili epocali» (in quel caso, il barocco, il rinascimento, e così via). Un’organizzazione della storia per «stili epocali» è funzionale perché «permette di non dover ascrivere i risultati della storia dell’arte soltanto all’“invenzione”, al genio, allo sforzo sovraumano dei singoli» (Knepler 1989), ed è quindi efficace nello studio della popular music, dove la concezione tradizionale di autorialità non è particolarmente utile.

Una storia articolata per generi, o la storia di un singolo genere, può portare a due modi di organizzare il materiale musicale. In primo luogo, se un singolo genere è messo al centro del discorso, lo sviluppo storico sarà spiegato in termini di «prima» e «dopo». Ciò che precede cronologicamente il genere è allora descritto come «radici», ciò che segue in termini di «sviluppo» (o, spesso, di «decadenza»). Basta dare un’occhiata all’indice di una delle molte edizioni del classico Rock Music Styles: A History (Charlton 2007) per rendersi conto delle conseguenze pratiche di questa concezione sull’organizzazione del materiale storico.

Capitolo 1: Ragtime, Tin Pan Alley, and Jazz Roots of Rock; Capitolo 2: The Blues and Rhythm and Blues Roots of Rock; Capitolo 3: Gospel and Country Roots of Rock;

Capitolo 4: Early Rock and Roll.

Capitolo 11: Country and Jazz-Styled Rock

Capitolo 19: Alienated and Back to the Roots Rock. (corsivi miei)

In secondo luogo, la centralità attribuita a un genere in un dato momento storico può favorire una periodizzazione attraverso i generi. Concetti come «swing era», «età del rock», «jazz age» hanno contribuito a creare una sorta di «ordinamento per generi epocali» della storia della popular music. In generale, come si può notare dall’esempio precedente, i diversi «stili» o «sottogeneri» costituiscono di fatto una periodizzazione, identificano cioè, oltre che un

20 Esemplare, da questo punto di vista, Borthwick & Moy 2004, ma moltissime storie a

dispense, raccolte di cd, documentari o altro offrono una storia per generi della popular music.

insieme di fatti musicali, anche l’arco di tempo in cui questi fatti avvengono. Come conseguenza, un genere può diventare la sineddoche di un periodo storico: gli anni novanta sono allora «gli anni del grunge», la fine dei settanta quelli della «disco music», e così via. Al contrario, un decennio, o un gruppo di anni, può diventare sineddoche di genere: «musica anni sessanta» si può riferire a un certo tipo di suono e di repertorio di quel decennio, che include sicuramente i Beatles, i Rolling Stones, gli Who e magari l’Equipe 84, ma che molto probabilmente esclude – per motivi molto diversi – A Love Supreme di John Coltrane (1965), «Dio, come ti amo» di Modugno (1966) e Hymnen di Stockhausen (1966-67).

Le storie per generi di questo tipo si basano su un concetto essenzializzato di genere come categoria metastorica, assoluta e autonoma, e danno luogo a narrazioni totalizzanti. Ogni storia che essenzializzi un genere musicale e ne faccia il fulcro della propria organizzazione interna opera una forzatura. Se si pongono a priori dei «pattern» di funzionamento – «ciclici, dialettici, evolutivi» – si compie qualcosa di «metodologicamente sospetto e intellettualmente non congeniale» (Meyer 1983, p. 517), e si sceglie in partenza di tralasciare qualcosa. Le storie organizzate per generi sono cioè esclusive: si basano su un canone e lasciano ai margini della storia gli altri generi, o i musicisti che non fanno parte del genere in quel momento egemone. I generi, in queste storie, sono strumenti del potere del critico o dello storico.

L’articolazione di questa visione storiografica, e di questo modo di intendere le categorie musicali, dà vita ad un modello «ad albero genealogico», o a «linea del tempo», della storia, che è dominante nel discorso non specialistico sulla stessa (si pensi ancora alla Music Timeline). Questo modello ha un ruolo centrale nel modo in cui razionalizziamo tanto la storia, quanto i generi musicali. Le visualizzazioni spaziali della musica sono spesso incentrate su questa nozione di «genere musicale», e spesso sono organizzate diacronicamente, per «genealogia» (FIGURE 2.1 e 2.2).21

21 Si veda Marino 2013a, che offre anche una breve tipologia. Un esempio lampante,

FIGURA 2.1. Reebee Garofalo, Pop Waves / The Genealogy of Pop/Rock Music.22

FIGURA 2.2. Highlights of the Jazz Story in USA.23

Per quanto possiamo aderire a visioni relativiste della storia e dei generi, questo tipo di organizzazione «topologica» della musica sembra essere in qualche modo inscritto nel modo in cui pensiamo e parliamo di musica. Per ora, basta

22 historyshots.com/products/rockmusic; accesso: 5 gennaio 2016. 23 www.123posters.com/usajazz2.htm; accesso: 5 gennaio 2016.

annotare come, almeno nel campo della popular music, sia molto difficile scindere la nozione di genere musicale da quella di storia.

All’atto pratico, naturalmente, ogni storia è un’opera di selezione e di narrazione (Nattiez 2001). Tuttavia, c’è da chiedersi che contributo ai rapporti fra storia della musica e storia culturale, politica, sociale, dei media, possa dare una storia che si costruisce su categorie arbitrarie e astoriche i cui confini dipendono in gran parte o interamente dalle scelte dello studioso (ad esempio: Nobile 2012). Una storia per generi in questi termini ricade nelle stesse trappole euristiche, e negli stessi limiti metodologici, che abbiamo riconosciuto in altri modelli di storiografia. Solo, invece di essenzializzare le opere, essenzializza i singoli generi. A dispetto della sua utilità per organizzare la storia, siamo allora costretti ad ammettere che il concetto «tradizionale» di genere mal si integra con la dimensione diacronica. Nel campo della storia del cinema, Rick Altman ha notato che «fra tutti i concetti di critica applicati al cinema, il genere è forse l’unico che sfugge alla storia» (Altman 2004a, p. 265), e l’annotazione vale certo anche per la musica.

Dunque, se si vuole fare storia con i generi musicali, bisogna partire dal presupposto che non ci si può fidare dei generi musicali per fare storia. È allora bene in prima battuta sgombrare il campo da ogni tentazione, e tornare a quando scriveva Foucault:

Bisogna rimettere in questione queste sintesi belle e pronte, quei raggruppamenti che in genere si ammettono senza il minimo esame, quei collegamenti di cui si riconosce fin dall’inizio la validità; bisogna scalzare quelle forme e forze oscure con cui si ha l’abitudine di collegare tra loro i discorsi degli uomini; bisogna scacciarle dall’ombra in cui regnano. E, piuttosto che lasciarle prosperare, accettare di avere a che fare,

per ragioni metodologiche e pregiudiziali, soltanto con una

folla di avvenimenti sparsi. (Foucault 1971, p. 30, corsivi miei)

Un’affermazione di questo tipo potrebbe far iscrivere di diritto questa ricerca nel registro delle aporie postmoderne irrisolte, e il suo autore in quello dei «relativisti-a-tutti-i-costi». Ma la ricerca storiografica di oggi, una volta dichiarati i propri limiti e presa coscienza che l’oggettività assoluta non è (più) un obiettivo ragionevole, può e deve andare oltre. «Per ragioni metodologiche e pregiudiziali» possiamo immaginare che le categorie non esistano. Così facendo,

ci si chiarirà la loro natura convenzionale, temporanea, contingente, instabile. Ma saremo anche costretti a affrontare l’impossibilità di ragionare senza di esse. Non possiamo evitare i generi musicali: essi ci servono per interpretare la realtà, per parlare di musica, per costruirne la storia – come potremmo altrimenti? Tanto varrebbe negare la lingua in quanto strumento di comunicazione. Solo, ci serve un modello teoretico adatto per poterli usare ai nostri fini.

Possiamo già identificare alcuni parametri che questo modello dovrà soddisfare per fondare una metodologia adeguata.

1) Non dovrà essere predittivo. Il concetto di genere serve alla narrazione storiografica, ma la storia deve essere scritta con i generi, e non dai generi. Come si è visto, modelli basati su generi intesi come categorie metastoriche e assolute generano narrazioni totalizzanti. Servirà allora un modello che non dia per scontato che i generi siano costrutti stabili, ma che renda conto della loro contingenza storica, sociale, culturale.

2) Se i generi sono uno strumento metodologico per parlare di musica (la storia si scrive con i generi), un modello adeguato dovrà porsi il problema delle categorie euristiche, cioè delle categorie usate dal ricercatore, e del loro rapporto con le categorie «del pubblico», «dell’industria», «della critica», e così via. I generi diventano così un insostituibile strumento di auto-riflessione metodologica.

Il prossimo capitolo si dedicherà a sviluppare questo modello teoretico dei generi musicali, tenendo conto della letteratura esistente, e provando a rifondare l’idea di genere su basi diverse.

3.

Un modello pragmatico dei