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I «cani di Licurgo» e il ruolo della pedagogia

«Si dice che Licurgo, il legislatore di Sparta, avesse allevato due cani, tutti e due fratelli e allattati dalla stessa cagna, tenendone uno a ingrassare in cucina e abituando l'altro a correre nei campi al suono della tromba e del corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini sono come li fa l'educazione, portò i cani in piazza e mise loro vicino una minestra e una lepre: il primo si buttò sulla scodella, l'altro corse dietro alla lepre. Eppure - concluse Licurgo - sono fratelli!» 29

Giusto domandarsi che cosa c’entrino, a questo punto, i cani di Licurgo. Ma spero che la metafora sia chiara alla fine del paragrafo. Mi piacerebbe, infatti, una pedagogia e un’associazione o tante associazioni di cultori delle diverse prospettive della pedagogia e della didattica che fossero come il secondo cane: che non si accontentano della paga per il lesso, ma che rincorrono, costi quel che costi, le verità non solo da scoprire esercitando la libertà creativa di contrastare anche il pensiero comune, ma, ben di più, e anche qui costi quel che costi, da testimoniare. Testimoni, non maestri. Tanto più se in cattedra.

Parto dal principio che la pedagogia non sia e non debba essere solo teoresi critica, comunque aggettivata (sperimentale, fenomenologica, ermeneutica, analitica, personalistica … marxista…ecc.). Teoresi proprio nel senso etimologico di «vedere come stanno le cose» rispetto ad alcunché, nel nostro caso rispetto all’educazione nella scuola, nell’università, nella società.

Mi pare che sia e debba essere anche poiesi e prassi. Non mi basta, dunque, che la pedagogia veda, anche bene, come «stanno le cose» nel campo dell’educazione e dei suoi problemi, nella nostra epoca, a scuola o nell’università. A mio avviso, siamo nella pedagogia, e non nella sociologia, psicologia, antropologia o in una delle altre scienze umane, filosofia compresa, se e solo se, oltre che con una buona teoresi, anzi: proprio perché possiamo contare su una buona teoresi che non può venire mai meno anche nei momenti pratico-poietici, ci compromettiamo chiaramente sia con un giudizio su come le cose educative «dovrebbero stare per stare davvero bene», sia, a maggior ragione, con una concretizzazione morale e tecnica di questo giudizio pratico, tale da prefigurare un agire che non resti moralismo, ma che diventi e si presenti, nel sociale, come dovuta prassi educativa, sostenuta da adeguate tecniche professionali e istituzionali.

Insomma, sebbene un po’ semplificando, se si è chiari non solo con le diagnosi dei problemi che ci affliggono, ma anche con le prognosi e le cure che li possono risolvere al meglio.

                                                                                                                         

24 Aristotele, Politica 1333b-1334a.

25 Aristotele, Etica nicomachea IX, 9, 1170 b 10-14. 26 Aristotele, Politica 1252b29; 1287a32.

27 Ibi, 1280b30-35.

28 A. Genovesi, Autobiografia e lettere, Feltrinelli, Milano 1963, p. 449. 29 É. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria…, cit., pp. 82-83.

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Qualificata nella sua triplice componente teoretica, pratica e tecnico-poietica, comprendo, tuttavia, che la pedagogia si approssimi (pericolosamente?) alla politica.

Non mi riferisco, in verità, alla politica con tanto di pedagogisti militanti, che vanno orgogliosi di firmare appelli e contrappelli pro o contro scelte programmatiche e di governo di perenti maggioranze, e che scambiano (o nobilitano o dissimulano, a seconda delle tipologie) questo “combattere partigiano” per pedagogia pratico-poietica. Fino al punto di parlar bene anche di scelte politiche che non lo meritano solo perché, come ricordava Togliatti, bisogna stare comunque dalla propria parte, anche quando ha torto, quando c’è di mezzo la battaglia per la conquista del potere. No, questa politica politicante è ormai talmente squalificata e datata, pur essendo ancora molto diffusa, che non è nemmeno il caso, spero, di considerarla ai nostri fini.

Mi riferisco, invece, alla politica intesa in senso più nobile e classico. Mi riferisco, perciò, alla politica che si cruccia per il bene non solo della propria parte politica, ma per quello di tutti. E che quindi si fa carico, in un determinato tempo e con determinati equilibri di potere, anche delle ragioni e del bene degli altri, di chi sta dalla parte opposta, e che, in nome di questo valore, non pretende di imporre dispoticamente tutte le proprie ragioni e tutto quanto è ritenuto proprio bene, ma mira a identificare, in un dialogo con gli oppositori, ciò che è “comune”, per ragione e per bene, allo scopo di promuoverlo. Dunque, una pedagogia che coltivi la sua dimensione non solo teoretica, ma anche pratico-poietica avrebbe come suo compito questa ricerca del «bene comune», seguendo procedure da minimo comune multiplo o massimo comun divisore, al pari della politica? E sarebbe per questo che, in fondo, l’una o l’altra sarebbero un ridondante sovrappiù occamisticamente da elidere, o fondendosi o assorbendo in maniera un po’ imperiale l’una nell’altra?

A me pare di no. E pare di no, perché resto convinto che «pedagogia» e «politica» siano e debbano rimanere, per il reciproco bene anche epistemologico, oltre che per utili finalità, culturali, sociali e istituzionali, ben distinte. Ma dove sta la distinzione?

La risposta che reputo ancora migliore è quella di Rousseau30. A suo avviso, la pedagogia non deve proporre «un bene collegato col male esistente». Oggi diremmo, non deve proporre qualcosa di «realistico», che tiene conto del fatto che, non vivendo nel migliore dei mondi possibili, ci si deve accontentare di qualche piccolo e condiviso miglioramento dei «mali» che ci sono, ovvero delle inerzie, dei ritardi, delle ignoranze, degli interessi confessati e inconfessati che frenano ogni autentico sviluppo del «bene». E si accontenta di questi piccoli passi proprio perché se volesse altro, per esempio, mirare più in alto e volere con determinazione ciò che sarebbe davvero e pienamente «bene», il «male» esistente glielo impedirebbe e la costringerebbe a più miti consigli. La pedagogia, insomma, poco più che un pleonasmo dell’esistente, da impiegare in dosi omeopatiche nell’a volta a volta «politicamente corretto». Quella del minimo comune multiplo (o del massimo comune divisore: la logica è sempre la stessa), che elegge la mediazione a propria cifra costitutiva. Rousseau è duro con questo atteggiamento da Manuale Cencelli. Dice, infatti, che, così facendo, in realtà, «il bene si guasta mentre il male non guarisce». Guadagniamo una doppia perdita, un doppio danno: per il bene e per il male. Ecco perché sarebbe questo, per la pedagogia, il «progetto davvero chimerico». Orientarsi in questa direzione significa solo, per lui, «fare politica» (ancorché, ribadisco, buona politica, non quella politicante che, purtroppo, abbiamo, da paese anormale quale rimaniamo).

Pedagogia, invece, ad avviso del ginevrino, sarebbe proporre e dimostrare con persuasive ed intersoggettive argomentazioni ‘scientifiche’, che si può e si deve fare qualcosa che è «bene» educativo, «che sarebbe in tutti i sensi e per tante ragioni bene concretizzare», prescindendo volutamente da «ciò che si può davvero fare», oggi, nelle condizioni, nei condizionamenti e nei limiti socio-storico-culturali dati. Cioè, per dirla con l’attualità, prescindendo volutamente da ciò che si può ‘realisticamente’ fare con i sindacati che ci sono, con i politici con cui si ha a che fare, con l’economia che c’è, con le abitudini e gli interessi consolidati che ci sono, con le iniquità esistenti, con i limiti delle associazioni professionali (pedagogiche comprese) che ci sono ecc.

«Pedagogia», e non «politica», è, invece, con lucidità scientifica, temerarietà tecnica e coraggio etico, aggirare queste pur necessarie pratiche mediatorie, proporre ciò «che si deve fare», e dimostrare che,                                                                                                                          

30 G. Bertagna, Una pedagogia tra metafisica ed etica, in Aa.Vv., Il pedagogista Rousseau. Tra metafisica, etica e

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volendolo, lo si potrebbe e si può agire, sia in senso morale, sia in senso tecnico-professionale, lasciando poi alla politica le sue responsabilità.

Ecco perché la pedagogia è più vicina all’utopia che alla politica (Rousseau lo sapeva bene!), ed è così lontana, meglio dovrebbe essere così lontana, dall’ideologia. Ideologia, per ricordare il vecchio Mannheim, che, a differenza dell’utopia, è qualcosa che non si potrebbe mai realizzare del tutto, sebbene lo si volesse perché pretende di adattare la natura delle cose e dell’uomo ai propri schemi astratti, piuttosto che essere, come l’utopia, il contrario: compiuta costruzione di idee che corrispondono alla natura più autentica e profonda delle cose e dell’uomo, che se il «male» esistente impedisce di concretizzare, allo stesso tempo, però, sarebbe bene introdurre nella realtà esistenziale, sociale e istituzionale per renderla davvero migliore per ciascuno e per tutti.

Ora, a me pare che una corporazione come la nostra che non abbia fatto i conti e continui a non fare i conti a sufficienza con le dimensioni problematiche appena evidenziate si riveli più l’intendenza di progetti politici elaborati dalle mediazioni partitiche e parlamentari che un aiuto vero alla qualità della pedagogia e al suo protagonismo sociale e politico (in senso alto e non politicante).

Per questo, se si vuole davvero essere incisivi sul piano nazionale e della cultura del paese, sono convinto che i colleghi dovrebbero impegnarsi ad esprimersi con maggiore chiarezza “pedagogica” (“pedagogica” nel senso indicato) su almeno due punti che, tra i tanti possibili, considero emergenti, imposti dal dibattito in corso, per non essere anacronistici.

Il primo riguarda la pedagogia della scuola. Difficile contestare che la scuola che abbiamo sia improntata ad un modello non più spendibile per i nostri tempi, se intende restare un’esperienza educativa di apprendimenti importanti e significativi, e non una semplice agenzia custodiale o terapeutica o da loisir o, peggio ancora, da «lavori socialmente utili» per disoccupati in cerca di reddito. Discipline separate, ore separate, tempo scolastico separato (per 4 o 8 ore al giorno non cambia proprio nulla), spazio scolastico separato, docenti funzionari dello Stato unificati dal fatto di riferirsi ad un unico «comandante» o ad una «procedura codificata», cultura preconfezionata da apparato ideologico dello Stato: come pretendere di far affrontare ad ogni giovane i marosi della globalizzazione, della rete, dell’iperindustrialismo del marketing, di un’economia che brucia le conoscenze, del multiculturalismo e della multireligiosità, concependo ancora la scuola, poco più poco meno, come la si era concepita, quando va bene, con i liberalnapoleonici, circa 200 anni fa, e quando si è nella normalità, con i gentilianfascisti e con i gramsciani, circa cento anni fa?

Come non rimanere sorpresi, ad esempio, dinanzi ad una scuola dichiarata sì autonoma, e fin troppo, a parole, ma riconosciuta autonoma, di fatto, se e solo se fa ciò che non il mainstream di ogni governo politico, ma perfino dell’apparato amministrativo ministeriale le dice ogni volta di fare, con tanto di «commissioni e iniziative» centrali, e poi a seguire regionali, provinciali, locali, gerarchicamente istituite per sfornare chilometri di «istruzioni», «linee guida» e sorvegliati «coordinamenti», su temi squisitamente educativi, metodologici e didattici che dovrebbero invece contraddistinguere la sua specifica competenza professionale,?

Non è il massimo della mistificazione? Si può continuare ancora con questo schema elitario saintsimoniano, magari razionalizzandolo per renderlo un po’ più edibile? Personalmente credo, e da tempo, di no.

Discorso analogo si potrebbe fare per l’istruzione e la formazione superiore. Non dice nulla, ad esempio, che la si continui a ridurre semplicemente ad «università»? E che, tanto per restare all’esistente, Ifts, Its e apprendistato di III livello non siano al centro di una grande riflessione pubblica nazionale per costruire, nell’ottica del life long learning, un vero e proprio sistema dell’istruzione e formazione superiore in cui la necessaria diversità, per durata, contenuti, metodi e scopi, dei diversi percorsi accademici e non accademici, formali e non formali (si pensi alle Corporate University o al dottorato di ricerca industriale) non diventi pretesto per legittimare, tra di loro, impari dignità educative e culturali di stampo otto-novecentesco?

Se è così, allora, mi piacerebbero società pedagogiche che chiamiamo impegnativamente scientifiche, cioè critiche perché le più avanzate nell’elaborazione di teorie certe e affidabili sulla realtà, che non si accucciassero all’ombra dei potenti politici e amministrativi di turno, cercando riconoscimenti e concertazioni quasi sindacali su decisioni e strategie già decise in altra sede, accettando e chiamando in questo modo in piena libertà una servitù volontaria, ma società scientifiche pedagogiche che

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accogliessero la sfida anche di gridare nel deserto che è giunto il tempo di raddrizzare i sentieri storti, di riempire i burroni e di spianare i monti per non averli più troppo impervi per molti e pianeggianti per qualcuno.

Credo basti per ribadire che serve, rousseauianamente, per la pedagogia, una teoria e una pratica della scuola e dell’istruzione e formazione superiore che non è e non deve più essere «un bene collegato col male esistente», come è invece compito della politica fare, ma che occorre proporre una teoria e una pratica pedagogica della scuola con le quali si dimostri, con intersoggettive argomentazioni ‘scientifiche’, che «si può e si deve fare qualcosa che è bene», «che sarebbe in tutti i sensi e per tante ragioni bene concretizzare», senza per questo lasciarsi irretire in questa definizione da ciò che, per tante ragioni che tutti conosciamo, i partiti, i sindacati, i dirigenti ministeriali, i ministri, i colleghi ‘militanti’ nel senso ricordato da Togliatti, gli equilibri di governo, l’opinione pubblica ecc. consentono, oggi, realisticamente, dopo estenuanti trattative, di concepire e fare.

Una teoria e una pratica della scuola, dunque, pedagogicamente utopica, ma mai politicamente ideologica. E che solo da questo punto di vista, semmai, appunto quello dell’utopia pedagogica, critica sia ciò che c’è, sia quanto appare, sia quanto si propone comunemente come nuovo senza esserlo.  

Giuseppe Bertagna

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