1919. Pochi mesi prima della fondazione dell’università Cattolica di Milano, padre Agostino Gemelli parlava della più antica istituzione formativa occidentale come «focolaio di attività scientifica, vero laboratorio» nel quale maestri di alto profilo morale e intellettuale e studenti collaborano «ad indagare verità e a rivedere questioni già discusse». Collaborano non a ripetere verità conosciute e a rimasticare questioni già acclarate. A cercare, invece, docenti e studenti insieme, con il docente guida morale e intellettuale di questa avventura, nuove verità, o almeno nuovi aspetti della verità, e a lumeggiare questioni ancora non chiare non a uno solo dei due interlocutori, ma a tutti e due. Insomma un luogo in cui non si finge la ricerca, ma la si pratica live per allievo e maestro; in cui la scoperta non è quella degli altri, ma la propria, di ciascuno. Una fucina generativa di attività e di autonomia allo stesso tempo
1 A. Schopenhauer, La filosofia delle università (1851), tr. it., Adelphi, Milano 1992, p. 20. 2 Ibi, p. 19.
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intellettuale e morale. Non a caso il motto di Harvard è Veritas (1843). E Oxford è stata talmente consapevole della meravigliosa bellezza di questa condizione da scomodare, dalla seconda metà del XVI secolo, il Sal 27, 1 per qualificarla, nel suo motto identificativo e programmatico, con: Dominus illuminatio mea. Talmente straordinaria, insomma, da richiamare più un insperato dono divino che un guadagno umano. Vero rilancio della scholé classica e dell’otium latino. Si capisce perché l’istituzione universitaria fondata nel medioevo, secondo Ortega y Gasset, abbia costituito «l’anima dell’Europa», perché le ha permesso di trasformare l’intelletto in istituzione, così da consentire all’uomo di testimoniare la possibilità, già ciceroniana3, di «vivere di intelligenza a partire da essa»4.
Basta entrare in qualsiasi aula universitaria dei nostri tempi per accorgersi, tuttavia, della distanza siderale oggi esistente tra questi entusiasmanti scenari e la realtà.
Docenti che invece di studiare e ricercare senza l’ossessione del tempo pur di farlo bene sono ridotti a travet amministrativi da improbabili acronimi a cui tutti devono cieca obbedienza (Anvur, Ava, Suad, Suar Asn, Cef, Fo, Fs, Rm, Cfu, Did, Ir, Ix1 e chi più ne più ne metta). Presi da compulsione dei risultati sulla base di indicatori di produttività e di equazioni o bibliometriche o riferite alle famose riviste di fascia A, gli stessi docenti adottano poi tutte le più disinvolte strategie poco nobilmente opportunistiche per poter pubblicare, avere gli scatti biennali, i fondi di ricerca e addirittura qualche altro riconoscimento amministrativo o di governance gestionale. Ma sarebbero questi i «maestri di alto profilo morale e intellettuale che collaborano con gli studenti per indagare verità e rivedere questioni già discusse»?
Sì, gli studenti. Dopo ben 13 anni di studi pre universitari (i più lunghi al mondo, con un costo statale annuo per studente pari a 8 mila euro!) e tre di studio universitario, si trovano, a 22 anni se va bene, ma, se sono in media statistica, a 24, a predisporre elaborati finali per la laurea che sono disarmanti. Testi nei quali la punteggiatura è creativamente sparsa a caso, come le virgole di Gadda senza essere Gadda; si usano i verbi ai modi e ai tempi sbagliati; si confondono le preposizioni; la sintassi delle frasi e dei periodi è stravagante; l’ortografia è casuale; i riassunti non sono la sintesi di un brano, ma di ogni periodo che lo compone; il tessuto e la movenza argomentativa non esistono; le copiature5 sono all’ordine del giorno purtroppo nemmeno facendole bene (cioè almeno pertinenti alle tesi da difendere o accusare e, soprattutto, legandole tra loro per farne un discorso coerente dotato di senso); non si capisce se, nel lavoro che dovrebbe dimostrare la loro «dottoralità», presentano ipotesi o tesi, e soprattutto perché.
Non si può tornare indietro, ma sembra che, da noi, le scelte del processo di Bologna, per il modo con cui sono state applicate, abbiano condotto ad «insegnare frantumi, cascami, spesso futilità…I manuali e i trattati di ampio respiro non sono più possibili: si usano libretti, suntini, estratti… Quanto tempo abbiamo perso per erigere queste sconsiderate costruzioni? Quanta energia si dissipa per dispensare una didattica scadente, massacrante, dispersiva?»6
L’aspetto che lascia ancor più sgomenti è, sebbene con numeri più contenuti, che le medesime deficienze si ripresentano, nei grandi numeri, più o meno pari pari, anche nelle tesi delle lauree magistrali (in media a quasi 27 anni!) e, come le cronache giornalistiche hanno annotato, perfino in quelle dottorali. Dinanzi ad una situazione del genere, non stupisce se si moltiplicano i docenti universitari che nemmeno correggono gli elaborati finali e le tesi magistrali e perfino dottorali proprio perché scritte in questo modo. Quelli che le correggono, infatti, si sottopongono ad una sterile fatica di Sisifo perché un laureando o un dottorando, se non conosce l’italiano, continuerà, comunque, a non conoscerlo. Del resto, non si può imparare a scrivere in lingua a 22 o 24 anni se non lo si è fatto prima. L’Italia ha già pochi giovani con titoli di studio superiori, viste le scelte stupide ed ideologiche perseguite dalle politiche formative dal dopoguerra in poi (eliminare ogni forma di formazione superiore non coincidente con l’università, come invece avviene dappertutto e avveniva anche nel nostro paese
3 «Vivere est cogitare» (Cicerone, Tusculanae disputationes, V, XXXVIII).
4 Ortega y Gasset, La missione dell’università (1930), tr. it., Guida, Napoli 1972, p. 34 e ss. .
5 Legge 19 aprile 1925, n. 475 tuttora vigente in ogni regolamento di ateneo all’art. 1 dice che «chiunque in esami»
prescritti per il conferimento di lauree o per il rilascio di diplomi presenti come proprie «dissertazioni o, in genere, lavori che siano opere di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno».
6 R. Simone, P. Potestio, Università, il fiasco del 3-2, in «La Stampa», 7 marzo 2004, p. 30. R. Simone, L’università dei
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fino agli anni trenta del secolo scorso)7. Siamo tra gli ultimi posti nella classifica dei Paesi Ocse. Se non si laureassero con indulgenza neanche questi giovani semianalfabeti in lingua materna avremmo percentuali inferiori di laureati anche ai peggiori paesi del cosiddetto terzo mondo.