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Interdisciplinarità e transdisciplinarità Poiché la pedagogia è una scienza rivolta allo

studio sull’uomo, la sua ricerca deve poter considerare ogni aspetto che riguardi l’umano (l’essenza dell’uomo) e l’umanità (intesa sia come il sentimento di appartenenza al genere umano sia quale percezione della propria e altrui condizione umana). Ciò conduce a istituire procedure e strategie conoscitive adeguate alla comprensione della struttura umana nella varietà, nell’unicità e nell’incommensurabilità complessiva dei suoi elementi. Accanto al paradigma empirico- sperimentale, di cui ci si serve in pedagogia laddove si intenda conseguire l’oggettività propria della sperimentazione cui quest’ultima perviene, la ricerca pedagogica percorre ulteriori direttrici euristiche, capaci di collocarla all’interno delle dimensioni storiche e testuali, interiori e spirituali, esteriori e materiali entro cui si dispone la soggettività umana. È quanto ad esempio si ripropone il paradigma interpretativo, mediante cui ci si prefigge di dare significati alle realtà indagate attraverso la Sinngebung ermeneutica.

La natura sistemica del sapere pedagogico, considerato nella propria scientificità, suggerisce di dotare la ricerca di un’intrinseca disposizione dialettica che renda la conoscenza una dimensione plurale rispettosa della molteplicità dei punti di vista. Se ciò deve accadere entro gli apparati della pedagogia secondo un’ottica intradisciplinare, essa necessita di commisurare il proprio sapere con le altre scienze. Attraverso legami interdisciplinari la pedagogia trova la possibilità di approfondire il problema formativo, educativo e istruzionale stabilendone i quadri epistemologici. Vi è poi una ulteriore prospettazione di natura transdisciplinare: essa si situa oltre i confini delle singole scienze per giungere a una visione più congrua dei problemi studiati. In primo luogo, infatti, vi sono i problemi – come ha sostenuto Karl Popper5. Questi sono di per sé transdisciplinari, dunque muovono “oltre” le discipline. In tal senso può svilupparsi un dialogo fra scienze che alla luce dei problemi si interrogano su di essi. In  

5 Cfr. K. Popper, Scienza e filosofia. Problemi e scopi

della scienza, tr.it., Einaudi, Torino 1969.

pedagogia, ciò conduce a porre la ricerca al di là delle provincie consuete, istituendo legami che giungano a comprendere anche le bioscienze, le neuroscienze e le tecnoscienze. Ciò senza trascurare di continuare a prendere in considerazione l’antica ma non per questo superata tradizione delle Geisteswissenschaften.

Paolo Levrero Università di Genova Ulteriori riferimenti bibliografici

W. Brezinka, Metatheorie der Erziehung. Eine Einführung in die Grundlagen der Erziehungswissenschaft, der Philosophie der Erziehung und der Praktischen Pädagogik, Ernst Reinhardt Verlag, München-Basel (1978), tr.it., Metateoria dell’educazione. Introduzione ai fondamenti della scienza dell’educazione, della filosofia dell’educazione e della pedagogia pratica, Armando Roma, 1980.

M. Gennari, Pedagogia e semiotica, La Scuola, Brescia 1984.

M. Gennari, Interpretare l’educazione. Pedagogia, semiotica, ermeneutica, La Scuola, Brescia 1992.

M. Gennari – A. Kaiser, Prolegomeni alla Pedagogia Generale, Bompiani, Milano 2000. C. Metelli di Lallo, Analisi del discorso pedagogico, Marsilio, Padova 1966.

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La ricerca educativa

fra invenzione,

innovazione

e…chiacchiericcio

pedagogico

 

Nicola Paparella

Nel saggio l’autore si domanda come e quando sia possibile che la ricerca produca un’intenzione educativa e possa esplicare una funzione anch’essa educativa. Secondo l’autore è necessario recuperare la rilevanza e la forza propositiva che giunge da colui che fa ricerca, per capire come nascono le domande della investigazione pedagogica e quindi come si individuano i temi che rientrano in questo territorio del sapere.

In the essay the author wondered how and when the research could produce an educational intention and could also carry out an educational function as well. According to the author, it is necessary to recover the relevance and the motivating force coming from the researcher to understand how the questions of educational investigation arise and how to identify the issues that fall within this area of knowledge.

Educare… i ricercatori

È giunto forse il momento di prendere davvero atto dell’anomalia linguistica che accompagna il costrutto “ricerca educativa”, nel quale l’aggettivo non qualifica il sostantivo che l’accompagna, ma serve a specificare l’oggetto tematico dell’azione espressa dal sostantivo. Si tratta di prenderne atto, non per correggere e meno ancora per spiegare, motivare e magari richiamare analoghe opzioni, anche in termini di indagine comparativa… Tutto questo è stato già fatto e comunque non porta molto lontano. Vogliamo invece assumere questa anomalia linguistica, quasi come una utile provocazione e quindi chiederci se, come, quando, sia possibile che la ricerca produca una intenzione educativa e possa esplicare una funzione anch’essa educativa, traendone, conseguentemente, ogni possibile conseguenza per dar senso a delle opzioni di cui immaginiamo ci sia tanto bisogno

per orientare, discernere, qualificare e forse anche correggere il lavoro di chi oggi svolge ricerca educativa.

Abbiamo davvero bisogno di educare la ricerca, in cento modi e per cento ragioni, anche di tipo etico e deontologico, e prima di tutto per tornare a discutere il suo significato, perché l’indagine non si ripieghi su sé medesima in termini tutto sommato ruminativi e impari, invece, a viaggiare nei territori della invenzione.

Nella sua pregevole ricognizione introduttiva della nostra discussione, P.G. Rossi ha ricordato le analisi riguardanti la fine delle grandi narrazioni e la rottura del confine tra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale1, ed ha citato Autori che qualche

volta sono stati utilizzati non già per capire dove va la cultura contemporanea, ma strumentalmente, per ordinare e piegare o, addirittura, per subordinare e giudicare, obiettivi e finalità2, peggiorando la situazione e soprattutto precludendo la possibilità di capire ciò che opportunamente P. G. Rossi mette in evidenza, ossia quella mancanza di profondità e il conseguente indebolimento della storicità che sembrano essere aspetti costitutivi del post- moderno.

E questo spiega anche perché mai il territorio della ricerca educativa sia ormai quasi del tutto segnato dal commento anziché dalla scoperta e, nel migliore dei casi dall’innovazione, non già dalla invenzione.

È appena il caso di precisare che la parola invenzione viene qui utilizzata nel senso e nel modo indicati da S.J. Bruner, ossia come costruzione guidata da un modello accessibile3, che è cosa ben diversa dalla innovazione, che nasce, si potrebbe dire, dal secondo arco della traiettoria, ossia dal trasferimento dell’invenzione nel contesto dell’operare, là dove le necessarie mediazioni esigono un supplemento di indagine, da cui poi si ricava e si capisce l’espressione: ricerca applica.

 

1 Cfr. In questo dossier, P.G. Rossi, Linee di ricerca.

Problemi e pratiche, sessione II, pp. 53-59.

2 Ci riferiamo a come siano state a volte utilizzate le

pagine di J.F. Lyotard, Z. Bauman, F. Jameson, G. Lipovetsky, quasi in termini di obbligato tributo per una citazione meramente calligrafica.

3 S. J. Bruner, Il significato dell’educazione, tr. it.,

Armando, Roma 1973, pp. 112-113. Si veda poi: N. Paparella, Sviluppo del bambino e crescita della

 

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Ecco, il primo fattore di criticità, per la ricerca educativa, è proprio questo: l’aver inteso, e il continuare ad intendere - questo segmento della ricerca pedagogica - sempre e soltanto e necessariamente come ricerca applicata.

Qui non sono in gioco primati o rivendicazioni di ruoli e di funzioni, non si tratta di rivendicare una qualità più elevata rispetto a quella della ricerca applica, anche perché ci si imbatterebbe in complicazioni di tipo epistemologico che è meglio evitare. Ciò che qui è in gioco è il rischio permanente di un modus operandi che induce alla perdita di un’autentica vis ermeneutica con il conseguente progressivo inaridirsi di ogni sforzo investigativo.

Ed allora, sì, educhiamo la ricerca, perché non perda fecondità euristica.

Educhiamo la ricerca, ovviamente, è una espressione elegante per non dire educhiamo i ricercatori perché essi, nel loro lavoro, sappiano porre al primo posto le domande di senso, lo scavo ermeneutico, la curiosità che spinge a guardare lontano, il gusto di misurarsi con la novità.

Sembra infatti che nella ricerca educativa si sia intrufolato il germe dell’efficientismo e quindi la premura (a volte: l’ansia) di capire che cosa funzioni meglio e che cosa agisca più velocemente, affidando al consenso del contesto la scelta di che cosa convenga fare e di quel che conviene proporre. Trovare il senso, le ragioni, i perché, i nessi fondanti, gli schemi teorici, sono operazioni che non entusiasmano e così, quasi senza accorgersene, ci si attarda nelle stanze del commento, come avrebbe detto Th.S. Kuhn4, nelle quali, per quanto oneroso possa essere il lavoro investigativo, non si giunge mai a calpestare i campi ubertosi della creatività, della originalità, della produzione scientifica di qualità.

La scienza del commento, oltre tutto, si traduce, quasi inevitabilmente, in soggezione verso i fattori e le voci con più forte pregnanza: possono essere le voci della psicologia dell’analisi del costrutto sociale, i vincoli del dettato istituzionale, i precetti della norma legislativa, i territori delle cosiddette “discipline sorelle.

 

4 Cfr. Th.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni

scientifiche, tr. it., Einaudi, Torino 1969.

Anche in ambito scientifico, il confronto fa crescere; mentre invece la soggezione impoverisce.

E la soggezione cede il fianco alle diverse derive epistemologiche che impigriscono la ricerca e la subordinano ad altri saperi. Magari con la scusa della interdisciplinarità.

Vale allora la pena di sottolineare che la ricerca educativa è innanzi tutto scienza teorica, poi anche scienza applicata.

Parallelamente (o, forse, congiuntamente) vale la pena di capire che cosa si debba intendere quando si parla di problemi. Che l’investigazione debba nascere da un problema, è convinzione che possiamo considerare abbastanza condivisa. Se però ci chiediamo come si configura un problema e come lo si debba intendere, allora le opinioni si fanno incerte e per molti aspetti divergenti.

Molti dei problemi di cui leggiamo nei nostri saggi, non sono problemi, ma difficoltà: il problema nasce all’interno di un quadro teoretico ben definito e si configura con coordinate corrispondenti ad altrettanti paradigmi interni a quel quadro teoretico; la difficoltà invece si manifesta all’interno di una esperienza e qualche volta può anche trovare soluzione attraverso l’utilizzazione di qualcosa che già fa parte del corpus delle informazioni scientifiche consolidate.

Per dirla in altro linguaggio, ed utilizzando le acute osservazioni di Dario Antiseri 5 , potremmo dire che molto spesso i problemi di cui leggiamo nei nostri saggi, non sono problemi, ma esercizi, ossia procedure di applicazioni di proposizioni già collaudate. Il problema pone un quesito effettivo, nasce da un dubbio niente affatto retorico e disegna una traiettoria. L’esercizio punta a risolvere una difficoltà operazionale e lo fa utilizzando strumenti già noti, guidato da traiettorie già disegnate o almeno già definite (o altrove definite).

Come nascono le domande della

investigazione pedagogica

C’è allora da recuperare, e siamo al secondo punto, la rilevanza, il peso culturale e la forza  

5 Cfr. D. Antiseri, Introduzione alla metodologia della

© Nuova Secondaria - n. 9, maggio 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 79 propositiva che giunge da colui che fa ricerca e

quindi dalla sorgente effettiva della domanda investigativa. E questo vale tanto per lo spessore ermeneutico della investigazione scientifica, quanto per la sua eventuale dimensione interdisciplinare.

Non sono, infatti, le formule operative che producono la vera ed efficace interdisciplinarità e nemmeno il concorso (sempre utile) di più operatori o il guadagno di una molteplicità di prospettive (anche questo utile ed apprezzabile), ma è la natura della domanda da cui muove la ricerca. A volte ci si inganna e si organizza l’indagine per segmenti paralleli, ciascuno affidato ad una diversa competenza. Non è così che si guadagna la dimensione interdisciplinare, perché invece occorre una sensibilità ed una cura specificamente modulata, da giocare, innanzi tutto, nel luogo e nel momento della prima fase dell’indagine. Torna qui l’idea di un compito educativo: abbiamo bisogno di tornare a riflettere (ad educare, ad educarci) sulla genesi dinamica della domanda, sul costrutto stesso dell’interrogativo che fa partire l’indagine, sul groviglio di risorse che occorre chiamare a raccolta per conferire spinta e direzione all’investigazione.

Si potrà eccepire che questo vale per tutti i comparti del sapere pedagogico, ed è sicuramente vero; anzi, quel che qui sosteniamo vale per ogni territorio attraversato da indagini scientifiche. Sicuramente. Non si può mettere in dubbio. E tuttavia, nel caso della ricerca educativa diventa una esigenza più forte, anche più onerosa, perché la necessaria proiezione verso il fare predispone più facili occasioni di cedimento a favore dell’operazionale.

Talvolta, esaminando alcuni prodotti di ricerca, ci capita di prendere atto di apparati sperimentali complessi, di organizzazioni del lavoro sicuramente faticose che certamente hanno richiesto energie di non poco rilievo, e però qualche volta ci sembra che tutto questo sia stato inutile, almeno sotto il profilo della originalità e della innovazione. Saranno state energie ben spese dal punto di vista della diffusione delle competenze didattiche, apprezzabili sotto il profilo della crescita professionale delle persone coinvolte, ma scarsamente utili sotto il profilo scientifico, proprio perché prive di quel fondamento teorico senza del quale i risultati appaiono ammantati di elementi di palese ovvietà o di altrettanto

palese marginalità6, quando non servano a sterilizzare la realtà.

Il secondo punto di attenzione, allora, ci induce a preoccuparci di capire come nascono le domande della investigazione pedagogica e quindi come si individuano la trama e l’ordito dei temi che rientrano in questo territorio del sapere.

Da più parti e con diverse sensibilità si sta facendo, oggi, un lavoro di scavo che permetta di rilevare evidenze e di consolidare impianti e costrutti che vadano a disegnare gli archi portanti dell’intero edificio disciplinare. Son passati esattamente 50 anni da quando uscì l’Analisi del discorso pedagogico, della Carmela Metelli di Lallo7, un ponderoso ed eccezionale lavoro che qualcuno oggi ha voluto riprendere8 con apprezzabile impegno.

L’analisi ontologica aiuta moltissimo. Ma anche qui, occorre l’idea guida, lo spunto della invenzione, la individuazione di una traiettoria possibile. E forse ci si può arrivare anche agevolmente, se soltanto provassimo a ragionare non già per temi, ma per grappoli semantici, ossia utilizzando i nessi e le interconnessioni semantiche che legano insieme più entità previamente definite nella loro essenziale configurazione.

Vogliamo qualche esempio? Parliamo di integrazione. Prima definiamo l’oggetto, liberandolo dall’hinc e dal nunc, esaminiamolo nella sua consistenza dinamica essenziale, poi ritorniamo al contesto. E in questo pendolarismo fra la nozione decontestualizzata e poi ricontestualizzata, assistiamo ad un avvicinamento ed un allontanamento di questioni diverse fra le quali non sarà difficile distinguere ciò che può valere come semplice rinvio e ciò che invece può richiedere approfondimenti, provocare domande inconsuete, suggerire escursioni all’interno di spazi di investigazione non ancora percorsi. Se allora, proseguendo nel nostro esempio, discutiamo di integrazione, sarà anche possibile  

6 Si veda in proposito il bel lavoro di M. Ranieri, Le

insidie dell'ovvio: tecnologie educative e critica della retorica tecnocentrica, Ets, Pisa 2011.

7 C. Metelli Di Lallo, Analisi del discorso pedagogico,

Marsilio, Padova 1966.

8 Si veda, ex multis, M.G. Simone, L'analisi del

discorso pedagogico. L'attualità del pensiero di C. Metelli di Lallo, in N. Paparella, Il progetto educativo,

 

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interrogarsi, non già sulla integrazione dei soggetti in difficoltà, ma anche sulla integrazione dei bambini normali, sentendoci sufficientemente liberi dalle urgenze operazionali richieste dai bisogni educativi speciali, e così facendo, può anche accadere che ci si impegni in questo inedito tema (l’integrazione dei bambini normali) con conclusioni anche imprevedibili, con indicazioni processuali che possono rifluire nel contesto di partenza, con uno strumentario concettuale sicuramente più ricco di quello d’avvio e con possibilità di proposta, anche applicativa, del tutto diversa da quelle consuete e, probabilmente, anche più scontate.

Potremo, rimanendo sempre nell’esempio, scoprire che il primo e più importante nesso da approfondire è quello che lega insieme integrazione e differenziazione, come aveva già intuito H. Werner9, perché l’integrazione rinvia alla differenziazione e l’una e l’altra rinviano allo sviluppo, a sua volta legato alla identità, oltre che alla maturazione e all’apprendimento. Fermiamoci e riflettiamo: senza accorgercene stiamo citando nozioni, processi, concetti che in qualche modo delimitano (o possono delimitare) il campo di una possibile teoria della inclusione sociale. E con questa sì, che potremmo tornare, con efficacia ermeneutica e fecondità investigativa, anche nel campo delle mediazioni operative e risolvere, in maniera davvero innovativa - ed utile - un’ampia serie di difficoltà connesse ai processi della inclusione. I luoghi della trasversalità

C’è poi una terza questione. Nasce da una domanda che sin qui abbiamo lasciato in sottinteso. Una ricerca educativa nella quale l’aggettivo venga assunto, provocatoriamente, nella sua autentica connotazione qualificativa, mantiene - come proprio - lo stesso oggetto sin qui riconosciuto o invece considera un altro oggetto o altri aspetti dell’oggetto medesimo? Si tratta di una domanda che a ben guardare finisce con il coinvolgere l’identità stessa del ricercatore. Ovvero, per dirla in altre parole, stiamo cercando di liberare il ricercatore dal paradosso di chi parla di questioni che non  

9 Cfr. H. Werner, Psicologia comparata dello sviluppo

(1926), tr. it., Giunti-Barbera, Firenze 1970.

pratica e pratica questioni di cui non parla. A partire da un tema, quello della trasversalità. Si discute spesso di competenze trasversali, quelle che mettono in grado di trovare risposte adeguate in situazioni comportamentali nuove, complesse e in qualche modo non previste, ed è evidente il nesso fra competenze trasversali e capability.

Ci domandiamo, però, se il protagonista della ricerca educativa sia capace di esprimere adeguati livelli di trasversalità e di capability o se non debba invece impegnarsi in un perfezionamento di questa importante attitudine.

L’interrogativo trascina con sé e mette allo scoperto un’altra questione: la distanza del dire dal fare, la distanza fra ciò di cui si discute nei protocolli di ricerca e ciò che si pratica nella quotidianità dell’esperienza vissuta.

Il discorso richiederebbe lunghi percorsi dimostrativi, non compatibili con la natura di questo nostro intervento; per affidarci all’intuizione e chiudere la questione con un po’ di bonaria ironia, potremmo osservare, a mo’ d’esempio, che a giudicare dalla sua straordinaria capacità di praticare intese lungo assi trasversali, il docente universitario può essere presentato come un interprete efficace della trasversalità e però – ecco il nostro assunto - questa speciale sua attitudine resta molto distante da quel che egli scrive quando discute di competenze trasversali, di capability10, di descrittori di Dublino, ecc. Per

contro, se egli dovesse assumere la sua nozione di capability, come contrassegno effettivo di una sua risorsa personale, si ritroverebbe a gestire in modo del tutto diverso – e forse meno  

10 In altra occasione abbiamo voluto precisare che

l’attitudine che definiamo capability è qualcosa che sta “a metà strada fra capacità, funzione, competenza, condizione e tutto questo insieme”. È un rendersi

capaci, ovvero un’attitudine a “raccogliere e

concentrare le proprie risorse e le proprie energie in vista di un certo risultato”. “La capability perciò non è tanto la “capacità” quanto la qualità dell’esser capace; non è tanto una risorsa, quanto il potere di produrre un risultato; non si riferisce tanto all’essere quanto all’essere e al poter essere”, e si tratta pur sempre di “una caratteristica che chiede d’essere sviluppata”. N. Paparella, Competenze e capabilities. Transizione

verso il lavoro e formazione della persona, in S.S.

Macchietti (ed.), Titoli o competenze? Le provocazioni

dell’oggi per costruire il domani, Euroma, Roma 2014,

© Nuova Secondaria - n. 9, maggio 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 81 efficace – certi momenti speciali come possono

essere i consigli di dipartimento o la stagione delle abilitazioni o i tempi dei concorsi.

Potremmo dire, generalizzando, che se la capability implica sicuramente l’esercizio di competenze “trasversali”, è anche vero che non sempre l’esercizio della trasversalità è contrassegno di capability. E questo perché la nozione di capability include e comporta efficaci livelli di integrazione della identità personale.

Si può allora indurre che anche nel caso qui assunto come esempio può essere necessario insegnare a gestire in maniera efficace i processi di integrazione del Sé.

Il campo principe della interconnessione è l’esperienza e quindi è nella esperienza che va collocata la lente di ingrandimento per capire questo tipo di questioni. Se noi mettiamo insieme l’idea di integrazione, l’idea di esperienza e ciò che attorno ad esse si aggrega, cogliamo alcuni tratti dell’apprendimento che caratterizzano la nostra quotidianità e che

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