Il saggio ripercorre le tappe segnate dagli interventi della seconda e della quarta sessione della Conferenza, facendone emergere spunti, temi, riflessioni e prospettive alla luce dell’attuale contesto socio-culturale in cui la pedagogia è sempre più chiamata a intervenire.
The essay traces the steps marked by the speeches of the second and fourth sessions of the Conference, highlighting ideas, themes, reflections and perspectives in the light of the current socio-cultural context in which pedagogy is increasingly called upon to intervene.
Ho pensato di unificare in un singolo intervento scritto le riflessioni che ho avuto modo di sviluppare nel corso della giornata dedicata alla ricerca educativa, essendomi trovato nel ruolo di discussant finale di due delle quattro sessioni, la seconda, mattutina, sul tema delle “Traiettorie interdisciplinari e transdisciplinari” e la quarta e ultima, pomeridiana, dedicata a “La funzione sociale della ricerca educativa”.
18 C. Laneve (ed.), La scuola educa o istruisce,
Carrocci, Roma 2010, p. 15.
I motivi di questa scelta, oltre che squisitamente editoriali, sono legati principalmente allo stretto nesso che si è creato tra le elaborazioni dei colleghi della seconda sessione e le prospettive mostrate da quelli della sessione conclusiva, complice anche il fatto che il tema della inter- e trans-disciplinarità è stato generalmente interpretato e giocato proprio tenendo presente quale può essere il destino evolutivo, e dunque il ruolo, della ricerca educativa.
Nel seguito, dunque, i contributi dei Colleghi citati (i cui nomi compariranno tra parentesi in prossimità di loro affermazioni tratte dai loro scritti o dai miei disordinati appunti) sono riproposti in un ordine che non rispetta quello degli interventi e sono arricchiti da qualche prestito proveniente dalle altre sessioni.
E per cominciare dal titolo della seconda sessione, nel difficile gioco di distinzione tra i significati di trans-, multi-, intra- e inter- disciplinarità (intervento di M. Sibilio), emerge il problematico rapporto tra la pedagogia e le altre discipline: quanto c’è in questo rapporto che può essere considerato feconda contaminazione (interventi di L. Fabbri, P.G. Rossi), ibridazione (interventi di L. Pati, G. Spadafora), necessità di commisurare il proprio sapere con le altre scienze (intervento di P. Levrero) e quanto invece è gregaria assunzione e riproposizione di idee nate in altri contesti? Quanto è scienza del giorno dopo, che rincorre la storia senza riuscire a tenerne il passo? (intervento di G. Bonetta)
Se da un canto pensiamo per esempio a come certi spunti, suggestioni e conferme di ipotesi che possono venire dalle neuroscienze, tramite le moderne tecniche di scansione del cervello, riescono ad aiutare nell’interpretazione dei comportamenti degli adolescenti e pertanto possono informare e sostenere scelte educative, d’altro canto non possiamo nasconderci che, ancora per fare un altro esempio, le principali correnti di pensiero che hanno dominato il campo della didattica dal dopoguerra non hanno visto germogliare i propri semi nel campo della pedagogia, quanto piuttosto in quello della psicologia. La pedagogia risulta così cassa di risonanza dei risultati conseguiti da altri settori disciplinari (intervento di L. Pati).
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Da ciò derivano atteggiamenti disottovalutazione della pedagogia da parte di altri àmbiti disciplinari, che giungono a mettere in dubbio la scientificità della ricerca pedagogica. L’atteggiamento auspicato è invece quello che dice un chiaro sì al confronto con le discipline gemelle, ma un altrettanto deciso no alla soggezione (intervento di N. Paparella). Un sì, dunque, alla transdisciplinarità come attraversamento di frontiere per avvalersi di cooperazioni con una pluralità di attori eterogenei, con i quali co-costruire un sapere unitario, con un legame transattivo tra conoscenza e azione; cooperazioni non semplici da attuare, nel momento in cui emerge nelle equipe transdisciplinari il problema identitario della articolazione di gruppi che mettono insieme persone che hanno ciascuno la propria epistemologia e i propri paradigmi per l’interpretazione (intervento di T. Grange). Un sì, anche, alla ricerca come osservazione di problemi e processi da prospettive multiple (intervento di P.G. Rossi) e da molteplici punti di vista (interventi di P. Levrero, M.R. Strollo) per ottenere un’immagine nitida.
Si tratta di una sfida che può generare crescita e cambiamento (intervento di S. Calaprice) e che ha già positivamente fatto sì che i ricercatori in campo educativo abbiano cominciato a varcare le frontiere e condividere con le discipline confinanti (psicologia, sociologia) metodologie che fondano l’approccio quantitativo a quello qualitativo, rendendo più probabili ed efficaci, in termini di trasferibilità, le ricadute per lo sviluppo sociale (intervento di A. Cunti), cosa che consente di rimettere al centro l’azione (intervento di U. Margiotta) e di essere in definitiva presenti sul campo e ingaggiare un corpo a corpo con il problema (intervento di S. Colazzo). Nel fare ciò è però essenziale che il ricercatore educativo si sforzi innanzitutto di conoscere e riconoscere i risultati già raggiunti da altri pedagogisti che hanno approcciato un certo problema o applicato un certo modello (intervento di L. Pati), facendo sì che la memoria si leghi all’idea di futuro in maniera dinamica, attraverso un progetto che mobilizza i significati della memoria (intervento di S. Colazzo).
Nella cornice del rigore metodologico ha trovato spazio il discorso sull’evidence based education: l’evidenza, si è detto, deve far parte del nostro mondo (intervento di A. Calvani). Mi
viene da chiedermi se si tratti di un assunto vero per tutti e condiviso dalla comunità. Probabilmente no, se si sente il bisogno di affermarlo in questi termini. In effetti sono anche state espresse ragioni di dissenso, nel momento in cui si è affermato che non è tanto l’evidenza a contare, quanto la significatività (intervento di M. Fabbri). Io aggiungerei cautamente anche la categoria della sostenibilità: una volta che abbiamo evidenze a favore di un certo tipo di intervento didattico, non è detto che lo possiamo calare in una realtà più ampia di quella sperimentale, per motivi legati alla sua applicabilità universale, per esempio in ragione dei costi o della mancanza di formazione da parte dei professionisti interessati. Per esempio, ammesso e non concesso che l’uso generalizzato dei tablet nelle aule scolastiche possa portare qualche beneficio sugli apprendimenti, il valore aggiunto che genera vale a motivare l’ingente investimento che richiede l’inserimento dei dispositivi mobili in tutte le scuole? Siamo in grado di mantenere nel tempo le apparecchiature e le infrastrutture, una volta esauriti i fondi di attivazione di iniziative sperimentali?
La sostenibilità degli interventi ci richiama a un approccio ecologico degli interventi educativi, e dunque ci suggerisce anche di saper adattare ai contesti le risultanze evidence based (intervento di R. Trinchero) e di saper valutare il ruolo del concetto di efficacia nelle nostre ricerche (intervento di U. Margiotta). In altri termini, è stata richiamata la cosiddetta Relevance to Practice come criterio di validazione della ricerca (intervento di P.G. Rossi). E si ripone la questione della trasferibilità (intervento di A. Cunti), che, nei frequenti casi in cui la ricerca si focalizza su esperienze di difficile generalizzabilità per le diversità dei contesti, va cercata più che nelle soluzioni, nel metodo con il quale scegliere e contestualizzare processi e proposte (intervento di P.G. Rossi).
La trasferibilità delle esperienze – e il riconoscimento del valore dell’esperienza sul campo (intervento di L. Pati) - ci proietta allora verso la questione del ruolo della ricerca educativa e dei pedagogisti e sulla loro funzione sociale. Ammesso che ne abbiano e ne possano avere uno. C’è infatti chi provocatoriamente si chiede anche se la pedagogia davvero serva in questa fase dello sviluppo della nostra società o se non si sia esaurita la necessità della sua
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spinta propulsiva in passato usata ai finidell’integrazione sociale (intervento di G. Bonetta).
Si tratta in fin dei conti di un tema che è strettamente legato a quello al quale si accennava prima, dell’identità del pedagogista, che non è psicologo, né medico, né insegnante, né diagnosta, né terapeuta. Un esempio in proposito: si è da poco celebrato il Safer Internet Day (SID), un evento che si svolge ogni anno in oltre 100 Paesi del mondo per promuovere l’educazione all’uso consapevole delle risorse di Rete. Con una procedura speditiva, ma non lontana dall’approssimare risultati generalizzabili, andiamo a prendere i programmi di tre fra le principali manifestazioni italiane che quest’anno sono state programmate nel quadro del SID (in Lombardia, Lazio e alla Camera dei Deputati)1 e vediamo chi sono i relatori. Troviamo 10 dirigenti d'azienda, 7 politici, 5 giuristi, 3 psicologi, 2 rappresentanti della Polizia Postale, 2 rappresentanti dell'associazionismo, 2 tecnologi, 1 sociologo, 1 giornalista, 1 blogger la cui fama è principalmente dovuta alle sue liti pubbliche, 1 counsellor biosistemico2. Zero pedagogisti. Si tratta di un evento orientato a educare, ma non c’è traccia di esperti delle scienze dell’educazione. Tante le professioni e le discipline rappresentate. Come se l’educazione fosse davvero un fatto multidisciplinare, che si dà come epifenomeno del concorso di esperti di campi diversi. Ma senza il contributo dei pedagogisti.
Del resto, tanto per restare nel campo dell’educazione all’uso corretto e consapevole degli strumenti telematici da parte dei ragazzi delle scuole secondarie, tra i principali attori della formazione degli adolescenti c’è la Polizia Postale, che da anni effettua numerosi interventi
1 http://www.generazioniconnesse.it/site/_file/documenti /SID_2017/eventi_collaterali/Copy%20of%20Program ma%209%20febbraio%202017.pdf; http://www.generazioniconnesse.it/site/_file/documenti /SID_2017/eventi_collaterali/Copy%20of%20program ma-SID2017.pdf; http://www.generazioniconnesse.it/site/_file/documenti /SID_2017/eventi_collaterali/PLAS%20FINAS%207% 20FEBB.jpg
2 Spesso il counsellor biosistemico ha alle spalle una
laurea in psicologia; in questo caso, con una rapida indagine via Rete, si trovano una laurea in beni culturali e un master in gestione delle imprese sociali.
sul territorio, chiamata dalle scuole a spiegare agli studenti che cosa fare e soprattutto non fare con i dispositivi connessi alla Rete. Con tutto il rispetto per le competenze della Polizia Postale (tra l’altro davvero molto alte in media e con picchi ragguardevoli per alcuni suoi componenti), che la scuola deleghi alla polizia un compito educativo pare come minimo piuttosto singolare. Per non parlare poi di quando gli incontri sono tenuti da tecnici informatici o da studenti universitari di corsi di laurea scientifici, che si improvvisano educatori-conferenzieri per l’associazione genitori o l’oratorio di turno.
Eppure, in fin dei conti, si tratta di contesti educativi e problematici, nei quali le competenze dei ricercatori in campo educativo potrebbero e dovrebbero trovare applicazione: occasioni classiche nelle quali è necessario prendersi-cura-di, dove è opportuno che intervenga qualcuno che sa trovare vie d’uscita anche da situazioni inestricabili3.
In questo senso la discussione ci ha dato varie indicazioni di come l’educazione, in quanto pratica sociale, deve necessariamente avere una funzione sociale (intervento di I. Loiodice): la ricaduta sociale del nostro impegno accademico può consistere nel preparare le nuove generazioni ad una partecipazione attiva e responsabile (intervento di M.R. Strollo) alla società, alla comunità di destino a cui tutti apparteniamo, nel favorire l’integrazione sociale e la trasformazione (intervento di G. Bonetta), nel governare il cambiamento emancipativo delle persone e delle comunità sociali (intervento di I. Loiodice), fino ad arrivare a incidere indirettamente nei processi educativi in virtù del ruolo giocato dalla pedagogia nei percorsi di formazione degli insegnanti (intervento di M.R. Strollo).
Ancora a cavallo tra i due temi della transdisciplinarità e della funzione sociale, s’è detto pure di come le attività di orientamento siano oggetto di confine che richiede un approccio interdisciplinare e, come l’evidence based education, ci impongano rigore metodologico (intervento di M.R. Strollo); ma anche, aggiungerei, esse richiamano la nostra responsabilità verso la società: nel momento in cui si consiglia un allievo o una famiglia, li si indirizza verso un certo destino, che dunque riguarda anche l’intera comunità.
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S’è detto anche che il grande Maestro4 è quelloche riesce ad anticipare, liberando quel che l’altro potrebbe diventare (intervento di R. Caldin). Mi pare un’idea chiave, che si contrappone a quella citata pocanzi della pedagogia che rincorre la storia. Ci ripensavo qualche giorno fa, dopo un esame durante il quale una studentessa argomentava a favore dell’uso dei videogiochi in didattica e tratteggiava i destini dei personaggi nei termini della morfologia della fiaba di Propp. Ascoltandola, facevo di sì con la testa, ma devo confessare che mi intendo ben poco di videogiochi, a parte qualche esperienza di ricerca con action games e con memory games. M’intendo di più di Propp. Che viceversa la studentessa, esperta videogiocatrice, confessava di non avere mai letto5.
Potenza della rivoluzione tecnologica che separa la mia generazione da quella della studentessa. Quand’ero studente io, per coprire i 212 chilometri di linea ferroviaria tra Cremona e l’Università di Pisa impiegavo la bellezza di cinque ore e mezza di treno. Leggevo molto. Quando arrivavo, usavo i gettoni della SIP per avvisare la mamma da una cabina telefonica. I videogiochi all’epoca stavano nelle sale giochi. I computer in stanzoni fatti apposta per loro. Adesso il viaggio in treno che mi capita più di frequente è quello tra Bergamo e Roma, 624 chilometri e in quattro ore sono giù, non c’è passeggero che non abbia un dispositivo mobile connesso al wifi del Frecciarossa, chi per lavorare, chi per vedere un film, chi per giocare. Libri, pochi: il colonialismo digitale insidia la carta. Il mondo è un po’ cambiato. Tanto per dire, nel tratto da Milano a Bergamo in certi orari se sei parlante nativo di italiano sei in minoranza.
Ora mi chiedo chi 35 anni fa, mentre leggevo dondolato dal vagone, si sarebbe potuto immaginare uno scenario futuro in grado di approssimare la realtà contemporanea e le sue ricadute in termini pedagogici. Chi avrebbe immaginato l’Italia dei migranti, dei preadolescenti con lo smartphone, del wifi sul Frecciarossa? Chi poteva prefigurare allora gli sviluppi della pedagogia interculturale, della
4 Maiuscola dell’autore.
5 La fonte secondaria della studentessa era M. Di
Stasio, Videogiochi a scuola, in M. Faggioli (ed.),
Tecnologie per la didattica, Apogeo, Milano, 2010, pp.
176-200.
prevenzione del cyberbullismo, della formazione a distanza, dell’educazione in tutta la lunghezza e la larghezza della vita?
Molte delle emergenze socio-culturali e pedagogiche dell’oggi sono figlie anche delle nostre limitate capacità previsionali, della scarsa gittata del nostro sguardo verso il futuro.
Forse 35 anni sono una prospettiva di ampiezza eccessiva ma, comunque sia, immaginare i futuri possibili dovrebbe essere il compito di una pedagogia in grado di orientare, non solo di reagire. Non bastano salde radici nell’esperienza e nella storia, nell’ecosistema (intervento di M. Fabbri) che genera e condiziona la cultura della quale la ricerca educativa è espressione: occorre anche sapere guardare lontano, sforzarsi di immaginare che cosa si aspetta da noi il futuro, e anche viaggiare nei territori dell’invenzione, smettendo l’abito di chi fa più commento che scoperta (intervento di N. Paparella), senza lasciarsi schiacciare verso il basso dall’oggi, pur stando attenti a non porsi utopicamente troppo in alto (intervento di R. Caldin).
Come possiamo immaginarci allora il pedagogista alla ricerca di un equilibrio che non lo veda troppo schiacciato a terra e troppo pindaricamente in volo? Anni fa, a un convegno internazionale, un collega cinese schizzava il ritratto del vero ingegnere, che corrisponde a un archetipo piuttosto noto: i piedi ben saldi sul terreno, per avere il contatto con la realtà, e la testa in cielo, per vedere oltre. Ennio Flaiano, da par suo, sosteneva che un sognatore è un uomo che tiene i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole6. Il pedagogista di oggi e di domani forse avrebbe bisogno di una posizione scomoda, ma produttiva, incrociando le due precedenti: un piede al suolo, bene aderente, uno sulle nuvole, per saper sognare e prefigurare i futuri possibili, e la testa in grado di guardare alle cose in cielo e in terra, che, si sa, sono più di quante la nostra filosofia possa sognare7. In grado anche di individuare le possibilità di applicazione delle ricerche effettuate, che sono da de-situare rispetto a dove si svolgono (intervento di S. Colazzo), per trovar loro spazi di ricaduta.
6 Cfr. E. Flaiano, Diario degli errori, Rizzoli, Milano,
1976.
7 Cfr. W. Shakespeare, Hamlet, Prince of Denmark,
Gutenberg Project,
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Resta da capire che cosa, in tantocontorsionismo, si possa conoscere e come, in quanto le suggestioni che ci arrivano dal convegno sono molteplici, e ci invitano a non chiuderci in prospettive risolutive della complessità del mondo con strumenti di linearizzazione (intervento di M. Sibilio), ma piuttosto con un approccio olistico (intervento di M. Fabbri), e financo ad occuparci dell’invisibile educativo (intervento di G. Bonetta). E in prospettiva anti-riduzionistica ci arriva anche il messaggio che invoca il superamento delle posizioni e delle polarizzazioni tra scuole di pensiero (intervento di P.G. Rossi), che indica come dotata di poco senso la frammentazione della nostra comunità accademica in settori e auspica che la nostra deframmentazione cominci ad avvenire riducendo la proliferazione delle tante società di pedagogia che ci vedono unirci divisi (intervento di G. Bertagna). Una comunità di ricerca più unita può avere più opportunità di sviluppo, contare di più in rapporto alle altre aree disciplinari, avere più forza nel far valere le proprie istanze e più visibilità presso quel pubblico di portatori di interesse nei confronti dei processi educativi che oggi come oggi, come abbiamo visto nel corso di questa discussione, tende a confonderci o a non vederci addirittura, privilegiando altri attori quando invece le nostre competenze potrebbero essere quelle più indicate alle quali fare riferimento.
Marco Lazzari Università degli Studi di Bergamo
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