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L’educazione si radica nel sociale

L’educazione è una pratica sociale e quindi la ricerca educativa non può non avere funzione sociale in quanto è proprio di questo che essa si occupa. La pedagogia, in quanto scienza teorica e pratica dell’agire formativo, si connota così come sapere finalizzato a guidare, a governare il cambiamento emancipativo delle persone e delle comunità sociali nella molteplicità delle dimensioni che caratterizzano i singoli e le collettività: i primi, contrassegnati dalle variabili cognitive, emotivo-affettive, socio- relazionali, etico-valoriali, corporee e spirituali; le seconde, antropologicamente, sociologicamente, politicamente ed economicamente connotate. La ricerca educativa “apre” spazi concreti di intervento nel sociale, prefigura possibilità reali di agire in funzione formativa e tras-formativa di uomini e

donne e dei loro spazi (fisici e relazionali) di vita. Di qui l’interesse e l’impegno a “occuparsi” di temi sociali micro e macro, sul piano progettuale ed empirico così come su quello della riflessione e interpretazione epistemologicamente fondate.

La diffusività dell’educativo pone molte sfide alla ricerca in pedagogia, a partire dall’impegno a dimostrare che la pervasività della dimensione educativa richiede purtuttavia una peculiarità di ricerca-intervento da parte della disciplina specialisticamente deputata a occuparsi di questo, cioè la pedagogia, onde evitare il permanere delle incursioni delle altre discipline che spesso negano la specificità del suo statuto epistemologico. Quest’ultimo si configura specificamente come statuto teorico-prassico, che ne garantisce quindi la valenza sociale, considerando cioè che il sapere pedagogico è sempre un sapere fattuale, in azione anche se, come già detto, non è solo ricerca empirica, è anche riflessione e interpretazione “in funzione” dell’emancipazione del soggetto e del contesto, oggi ampliato in dimensione planetaria. Come ricorda Franco Cambi a proposito di uno dei maestri della pedagogia italiana, Franco Frabboni, al centro del suo impegno accademico ma anche della sua ricerca sul campo c’è la persona antropologicamente e socialmente connotata, da cui poi si diramano le altre “pedagogie:

da quella dell’ambiente a quella della città, a quella della scuola e del tempo libero, alla stessa didattica. Proprio la città è l’habitat del suo soggetto che lì trova risorse formative più ricche e esperienze culturali più articolate, da rendere più interattive e integrate. Lì si incontrano culture diverse, si vive più direttamente l’incontro, si comunica e si progetta. È il sistema-non-formale dell’educare che entra in gioco nella costruzione dell’io. E di un io sociale intensamente attivo. Che sta a contatto coi “saperi caldi” e li fa propri abitando tale “laboratorio sociale”1.

La ricerca educativa, così, si fa indagine attenta dell’universo infantile così come di quello

1 F. Cambi, La pedagogia antropologica di Franco

Frabboni, in M. Baldacci, F. Pinto Minerva, Razionalità, educazione, realtà sociale. Studi sulla pedagogia di Franco Frabboni, FrancoAngeli, Milano

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adolescenziale e giovanile e poi dell’adultità e

della vecchiaia; diventa medium privilegiato per scardinare stereotipi e pregiudizi legati ai generi e alle etnie; “entra” nei contesti di vita e di esperienza: la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, gli spazi dell’aggregazione sociale, civile, politica; riflette sulle potenzialità e sui rischi della nuove tecnologie mediali rispetto alla diffusione delle conoscenze e alle implicazioni emotive e relazionali coinvolte nella comunicazione multimediale.

In tal modo, la ricerca educativa si colora di sfumature molteplici e, proprio per la sua connotazione sociale, non si limita a indagare e parlare degli universi poc’anzi rappresentati ma interviene per agire in situazione e in direzione di cambiamento, per offrire spazi di possibilità altrimenti inesplorati. Così, da una parte «la plausibilità e la validità dei risultati e delle conclusioni raggiunti vanno ricercate nello stesso contesto e cioè nel miglioramento della pratica. Ma per valutare un miglioramento di questo tipo è necessario avere a disposizione alcuni riferimenti teorici e assiologici: quali concezioni dell’uomo e della sua educazione vengono assunte; quali convinzioni abbiamo circa l’idea di una buona pratica educativa; quale valore attribuiamo ai diversi obiettivi, contenuti e metodi coinvolti in tale pratica»2. Moltissimi sono gli ambiti specifici di intervento che si pongono in alcuni casi come vere e proprie “emergenze educative” e in quanto tali chiamano direttamente in causa la comunità dei ricercatori perché si impegni a indagare e a proporre, ad analizzare e a riflettere, a interpretare e a progettare modelli di educazione idonei ad affrontare gli eventi della contemporaneità, con tutto ciò che di positivo ma anche di perturbante essi comportano. Emergenze e, quindi, vere e proprie “sfide educative” sono, ad esempio, il lavoro e il mondo del lavoro, in continua, permanente trasformazione; le innovazioni tecnologiche e l’irruzione di media digitali che stanno radicalmente modificando il modo stesso di pensare e di abitare la terra; gli esodi migratori che stanno scompaginando l’organizzazione dei contesti, delle culture, dei sistemi relazionali, con il “carico” di conflitti che si portano dietro dai territori di provenienza e con le “barriere” di

2 G. Elia, La ricerca pedagogica come scienza della

pratica educativa, in M. Muscarà – S. Ulivieri (eds.), La ricerca pedagogica in Italia, ETS, Pisa 2016, p. 79.

diffidenza se non di vera e propria chiusura che spesso si determinano nei territori di accoglienza; la ridefinizione, ancora in atto, dei rapporti intergenere che vede le donne continuare il lungo faticoso cammino verso una reale parità tra i sessi che sappia proprio valorizzare e capitalizzare la differenza che li contraddistingue. In questo contributo, farò riferimento a due degli ambiti sopracitati.

Lavoro e luoghi di lavoro

Nel definire la società contemporanea, si utilizza in forma generalizzata il prefisso “post”: viviamo in una società post-industriale, siamo immersi in una cultura post-moderna, ci alimentiamo di post-verità. Anche se si tratta di un’epoca relativamente “giovane” (rispetto ai settemila anni della società rurale e ai duecento di quella industriale) la sua complessa morfologia non consente di darle una definizione chiara e, anzi, è proprio la sua permanente “liquidità” (termine con cui Bauman ha saputo intitolare il nostro tempo) a connotarla, individuando nella flessibilità, nell’incertezza, nella transitorietà le ragioni “prime” del disorientamento dell’uomo post- moderno, permanentemente in bilico tra rischi e possibilità. Scrive De Masi:

Rispetto alle società precedenti i vantaggi offerti dalla società post-industriale sono rappresentati dalla maggiore longevità e disponibilità di tempo libero, dall’istruzione di massa, dalla facile accessibilità delle informazioni, dalla possibilità di inventare nuovi materiali, nuovi oggetti, nuovi bisogni, nuovi piaceri, nuovi stili di vita. Gli svantaggi, invece, consistono nel maggior pericolo di manipolazione, eterodirezione, eterocontrollo, astrazione eccessiva, violazione della privacy, massificazione, emarginazione, disoccupazione,

digital divide e stress3.

Anche e soprattutto il lavoro e il mondo del lavoro sono mutati in tutti i loro aspetti, materiali e immateriali, senza però che – dice sempre De Masi ‒ sia stato elaborato un nuovo modello (anche giuridico e organizzativo) in sostituzione di quello precedente; un modello, scrive, «capace di inglobare le novità accadute e

3 D. De Masi, Mappa mundi. Modelli di vita per una

società senza orientamento, Rizzoli, Milano 2013, p.

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quelle prevedibili»4 provando ad arginare le

conseguenze negative di una radicale ridefinizione della logica e della pratica delle dinamiche e dei processi all’interno di un mercato del lavoro che non conosce più confini, né strutturali né gestionali. Era il secolo del Lavoro, scriveva ormai vent’anni fa il sociologo Accornero, sancendo il passaggio da un mercato del lavoro determinato dal prodotto a uno governato dal sapere e della conoscenza che vede, nei Paesi più avanzati, la presenza di due lavoratori su tre che svolgono attività intellettuali e, tra questi ultimi, uno su due svolge attività creative. Non è un caso che, scrive Alessandrini5, l’attuale mercato del lavoro si stia polarizzando tra fasce alte e specializzate e fasce basse e con salari minimi, con una progressiva contrazione della classe media, parallelamente al permanere di percentuali basse di soggetti con titoli di studio medio-alti (secondario e terziario) e con l’aumento dei Neet. Il lavoro, proprio perché reso più complesso e sofisticato dai media digitali, richiede professionisti altamente qualificati a gestirne i processi, pena l’esclusione dai ruoli più elevati e il “confinamento” nei mestieri più dequalificati e permanentemente in bilico.

In tale prospettiva, la ricerca educativa può e deve far sentire la propria voce in considerazione della valenza sociale – e quindi umana – che il lavoro ha rispetto alla integralità della persona, che nel lavoro vive (quantitativamente e qualitativamente) gran parte della sua esistenza, nella quale tutte le esperienze, nei differenti tempi e spazi di vita, appaiono interconnesse. In tal senso, si può dire che il lavoro fa la persona, così come la persona fa il lavoro, in una reciproc-azione che oggi più che mai si allarga in dimensione planetaria se ha modo e possibilità di capitalizzare dimensioni importanti dell’essere e dell’esistere quali la capacità e la volontà di imparare gli uni dagli altri, di non avere pregiudizi sia rispetto alle persone che ai processi di mutamento materiali e immateriali; di dare spazio alla creatività e all’immaginazione, individuando nella disponibilità ad apprendere e a formarsi per tutta la vita il dispositivo idoneo ad affrontare e

4 Ibi, p. 645.

5 G. Alessandrini, Nuovo manuale per l’esperto dei

processi formativi, Carocci, Roma 2016.

gestire i processi, non solo professionali ma globalmente esistenziali, della contemporaneità.

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