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Carattere contestuale della giustificazione epistemica

CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

1. Le condizioni della deferenza epistemica

1.3. Carattere contestuale della giustificazione epistemica

Sembrerebbe dunque che, nell’ambito giuridico, la giustificazione epistemica sia in qualche modo sovrascritta dalla giustificazione che è il diritto, caso per caso, a prevedere. La giustificazione che legittima il giudice a servirsi di una certa credenza per prendere una certa decisione non è infatti necessariamente la stessa giustificazione che fa contare quella credenza come “conoscenza”.

A questo discorso si potrebbe obiettare che, anche se il diritto prevede criteri di giustificazione propri, questi criteri comunque per forza richiamano criteri epistemologici, che non dipendono dal diritto. L’obiettivo della conoscenza perciò non è indifferente al processo. Per una ragione ovvia: il legislatore nel fissare i criteri di ammissibilità e gli standard di prova, e il giudice e le parti nell’interpretarli, non possono essere indifferenti all’obiettivo di accertare la verità. Le norme giuridiche prevedono diritti, obblighi, oneri, sanzioni sempre sul presupposto della verità di certe proposizioni. La giustificazione giuridica della decisione deve per forza dipendere almeno in parte dalla giustificazione epistemica, perché lo scopo istituzionale del processo è sempre l’accertamento della verità.

88 Non sempre le cose però stanno così. In ambito civile, per esempio, il giudice può emettere dei provvedimenti cautelari

ogniqualvolta il ritardo nella decisione necessario per un vaglio più approfondito della pretesa rischia di arrecare un danno irreparabile al ricorrente nell’ipotesi in cui la pretesa fosse fondata. Sul presupposto di questo pericolo nel ritardo (il

periculum in mora), lo standard di prova richiesto per l’emissione del provvedimento non è imparziale come sarebbe in

un normale giudizio di cognizione ma si sbilancia a favore del soggetto che avanza la pretesa: perché il provvedimento sia emesso è sufficiente che la parte richiedente presenti elementi che diano una parvenza di buon diritto (fumus boni

iuris). Un’opinione diffusa in dottrina è che maggiore è il periculum in mora, minore sarà il grado di giustificazione in

fatto circa l’esistenza del diritto necessario per integrare il requisito del fumus [Recchioni, 2015, p. 508]. In questo caso e al limitato fine di questa decisione provvisoria, il diritto preferisce un errore giudiziario positivo a un errore giudiziario negativo. In ambito penale, analogamente, ci sono casi in cui il diritto, anziché preferire errori giudiziari negativi (vantaggiosi per chi secondo il diritto sostanziale avrebbe dovuto subire gli effetti del provvedimento) preferisce errori giudiziari positivi (svantaggiosi per chi ingiustamente si trova a subire gli effetti del provvedimento). Nel sequestro preventivo, ad esempio, il fumus commissi delicti richiesto per l’emissione del provvedimento corrisponde secondo alcune sentenze di Cassazione alla mera “indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato” [Cass. pen., sez. VI, 35786/2012; Cass. pen., sez. VI, 45591 /2013; Cass. pen., sez. VI, 28994/2014].

Questa obiezione è in parte fondata. Se il diritto fosse indifferente all’obiettivo di raggiungere credenze fondate sul piano epistemologico, sembrerebbe dover essere indifferente anche all’accertamento della verità. Se così fosse, non ci sarebbe bisogno di istruire processi e pagare dei giudici per ascoltare dei testimoni prima di prendere delle decisioni. Pertanto, il giudice deve per forza tentare di ottenere conoscenze riguardo al fatto sottoposto al suo giudizio per fare il proprio lavoro. Se impostiamo il discorso in questi termini dovremo subito precisare, però, – riformulando in modo un po’ più sofisticato quanto detto nel paragrafo precedente – che il tipo di conoscenza che rileva ai fini giuridici ha delle sue peculiarità che dipendono dal contesto. In altri termini, la sensibilità al contesto di ciò che si può considerare “prova” – e quindi per quanto qui ci può interessare delle condizioni alle quali possiamo credere a un testimone in ambito giudiziario – potrebbe dipendere dalla sensibilità al contesto di ciò che si può considerare “conoscenza”.

Quest’ultima posizione è in linea con una corrente filosofica nota come contestualismo epistemico, in base alla quale non può esistere un parametro universale di giustificazione delle conoscenze perché non esiste un significato universale della parola “conoscenza”. Come non si può stabilire indipendentemente da un contesto discorsivo quanti centimetri o metri una cosa debba misurare per essere “alta”, così, secondo i contestualisti, non sarebbe possibile determinare, al di fuori di un contesto discorsivo specifico, il tipo di giustificazione necessaria per caratterizzare uno stato mentale come “conoscenza”. C’è un senso in cui non conosciamo davvero nulla del mondo: confrontati con l’ipotesi cartesiana di un genio maligno che inganna sistematicamente i nostri sensi, potremmo convincerci che in realtà non sappiamo davvero se esiste il mondo esterno, se davvero esistono altre persone oltre a noi, se davvero abbiamo vissuto le esperienze che crediamo di ricordare... Ma esiste un diverso senso ordinario dell’espressione “conoscere”, egualmente legittimo, in base al quale è possibile affermare con una certa sicurezza che conosciamo la nostra data di nascita o il nostro numero di telefono89. In quest’ottica, non esiste un parametro di giustificazione universale che

89 Cohen fa un buon esempio per mostrare la sensibilità al contesto del significato della parola “conoscere”:

“Mary and John are at the L.A. airport contemplating taking a certain flight to New York. They want to know whether the flight has a layover in Chicago. They overhear someone ask a passenger Smith if he knows whether the flight stops in Chicago. Smith looks at the flight itinerary he got from the travel agent and respond, ‘Yes I know—it does stop in Chicago.’ It turns out that Mary and John have a very important business contact they have to make at the Chicago airport. Mary says, ‘How reliable is that itinerary? It could contain a misprint. They could have changed the schedule at the last minute.’ Mary and John agree that Smith doesn’t really know that the plane will stop in Chicago. They decide to check with the airline agent” [Cohen, 1999, p. 58].

consenta di attribuire alle nostre credenze, nell’ipotesi in cui siano vere, lo status di conoscenze. Come scrive Gail Stine:

È una caratteristica essenziale del nostro concetto di conoscenza il fatto che criteri più o meno esigenti [di conoscenza] siano appropriati in contesti diversi. Una cosa è conoscere per strada, un’altra è conoscere in un’aula scolastica, un’altra ancora conoscere in un’aula di tribunale […]. Ciò risulta dal fatto che abbiamo standard diversi per valutare se ci sia qualche ragione per pensare che un’alternativa [a quanto crediamo] sia vera […]. Possiamo riconoscere che alcuni filosofi sono particolarmente perversi nei loro standard (dopotutto in base ad un loro standard estremo ci sono ragioni per ritenere che esista un genio maligno) – ma non possiamo legittimamente arrivare a dire che la loro perversione sia tale da rendere il loro concetto di conoscenza irriconoscibile – infatti essi giocano su una caratteristica essenziale del concetto. Per altro verso, un filosofo scettico sbaglia se sostiene che altre persone siano in qualche modo nel torto – cioè che siano imprecise, che parlino in modo approssimativo o cose simili – quando sostengono che sappiamo tante cose. La teoria delle alternative rilevanti spiega perché lo scettico sbaglierebbe nel formulare simili accuse [Stine, 1976, p. 254, traduzione mia90].

Secondo la teoria delle alternative rilevanti, sostenuta dalla professoressa Stine, sapere che una certa proposizione p è vera significa non significa avere escluso tutte le possibili ragioni per ritenere che non-p sia vero, ma significa escludere unicamente le ragioni alternative che sono rilevanti in un contesto dato. Ovviamente, se affermiamo che un soggetto conosce p, parte di quello che vogliamo dire è che p è vero e che il soggetto ha delle buone ragioni per escludere la verità di una serie di alternative a p. Ma non implica quasi mai che il soggetto abbia escluso tutte le alternative. Il grado di

Esempi come questo suggeriscono che anche l’uso della parola “conoscere” (non solo l’uso della parola “prova”) è condizionato ad uno standard di giustificazione variabile in base al contesto. Lo standard di giustificazione tipicamente dipende dalla posta in gioco in caso di errore. Per un’altra interessante analisi dell’uso della parola “conoscere” e della funzione dell’ascrizione del predicato “conosce” v. Craig [1990]: secondo Craig abbiamo bisogno della parola “conoscenza” come strumento per vagliare l’affidabilità delle nostre fonti e individuare buoni informatori, ma la nozione di buon informatore è soggettiva: dipende dai nostri scopi [Craig, 1990, pp. 82-85].

90 Testo originale:

“It is an essential characteristic of our concept of knowledge that tighter criteria are appropriate in different contexts. It is one thing in a street encounter, another in a classroom, another in a law court […]. [T]his is directly mirrored by the fact we have different standards for judging that there is some reason to think an alternative is true […]. We can point out that some philosophers are very perverse in their standards (by some extreme standard, there is some reason to think there is an evil genius, after all) – but we cannot legitimately go so far as to say that their perversity has stretched the concept of knowledge out of all recognition – in fact they have played on an essential feature of the concept. On the other hand, a skeptical philosopher is wrong if he holds that others are wrong in any way – i.e., are sloppy, speaking only loosely, or whatever – when they say we know a great deal. And the relevant alternative view gives the correct account of why a skeptic is wrong if he makes such accusations”.

giustificazione per credere p che autorizza la qualificazione della credenza come “conoscenza”, nell’uso che normalmente facciamo della parola, è sempre astrattamente compatibile con l’ipotesi che l’esclusione di alcune alternative a p non sia stata giustificata.

Certamente esiste un senso di “conoscere” per il quale uno scopo del processo è conoscere la verità: per esempio, la verità circa il fatto che Bruto sia o non sia un assassino. Ma ciò non implica, per esempio, che il giudice incaricato di perseguire questo scopo abbia l’onere giustificare l’esclusione dell’alternativa che il mondo esterno non esista. Per il giudice, nel contesto di un processo, l’ipotetica presenza di un genio maligno, come quello immaginato da Cartesio, che inganna sistematicamente i suoi sensi non può essere un’alternativa rilevante91. Per raggiungere il grado di giustificazione tale

da rendere le sue credenze (vere) “conoscenze” (anziché fortunate supposizioni), è sufficiente che il giudice escluda certe possibilità alternative, non tutte. Ciò perché il nostro uso della parola “conoscenza” è sensibile al contesto. Se il giudice crede che Bruto sia l’assassino e Bruto è effettivamente l’assassino, possiamo dire che il giudice sa che Bruto è l’assassino, se ha alcune giustificazioni tali da escludere che Bruto non sia l’assassino. Ma faremmo un uso molto strano della parola “sapere” se condizionassimo la sua applicazione al fatto che il giudice abbia ragioni per escludere l’ipotesi che Bruto e il processo a suo carico sia parte di un’allucinazione o di una crudele messa in scena a suo danno portata avanti, un po’ come nel film Truman Show, fin dal giorno della sua nascita. Il contesto che motiva l’attività epistemica in cui il giudice è coinvolto presuppone già la decisione di non prendere in considerazione queste alternative e in realtà anche molte altre molto meno bizzarre. Per esempio, il giudice non potrebbe rifiutare categoricamente di considerare come potenziale base di conoscenza tutte le giustificazioni epistemiche che si fondano sulla testimonianza, perché la stessa pratica del processo presuppone che la testimonianza possa essere utilizzata nel processo come mezzo di prova e possa essere considerata una valida giustificazione di una credenza. Non occorre sposare, però, questa tesi filosofica e prendere posizione in generale sulla natura del “conoscere” per accettare quello che ritengo il punto più rilevante in questa sede92: non è possibile

91 Come nota Pardo: “Radical skepticism […] has no place in the law. The very act of theorizing about law’s epistemic

practices presupposes a shared, public, knowable world. Without this supposition, the notion of law itself is unintelligible” [Pardo, 2005, p. 339].

92 Alla tesi contestualista è stato obiettato che non si tratta affatto di una teoria epistemologica sulla natura della

conoscenza, ma solo di una teoria semantica sulla parola “conoscenza” [Rysiew, 2016; Feldman, 2004, p. 24; Cohen, 1999, p. 65; Bach, 2005, pp. 54-55]. Il dibattito epistemologico non è un dibattito in cui si concorda sulla capacità probatoria delle fonti a disposizione e si controverte riguardo a quali siano i criteri linguistici per chiamare quelle prove

andare a ricercare nel dibattito epistemologico una risposta al problema delle condizioni alle quali dovrebbe subordinato l’uso della dichiarazione di un testimone o un esperto, se prima non si ha riguardo al tipo e al grado di giustificazione che il contesto giuridico richiede: è il diritto che caso per caso regola il trade-off tra le ragioni per credere e le ragioni per agire93. Anche se esistesse una soglia

di sufficienza epistemica indipendente da considerazioni pratiche e contestuali, non sarebbe questa soglia quella rilevante ai fini giuridici.

Il carattere contestuale della giustificazione non implica solo che le condizioni della deferenza epistemica verso una fonte di prova dichiarativa sono diverse in ambito giuridico rispetto ad altri campi, come per esempio quello storico. Le condizioni cambiano anche a seconda dei diversi ordinamenti, dei diversi settori di uno stesso ordinamento, dei singoli procedimenti giudiziari o addirittura delle singole fasi di uno stesso procedimento. Per esempio: nel procedimento penale, lo standard di giustificazione epistemica da soddisfare per cominciare un’indagine a carico di un individuo non può essere lo stesso che è richiesto per emettere un’ordinanza di custodia cautelare in carcere; lo standard da soddisfare per emettere un’ordinanza di custodia cautelare non potrà essere lo stesso richiesto per emettere il decreto di rinvio a giudizio; lo standard da soddisfare per emettere il decreto di rinvio a giudizio non potrà essere lo stesso previsto per emettere una sentenza di condanna. Il grado di giustificazione richiesto per ciascuna decisione del giudice non può essere accertato in astratto e una volta per tutte, né dalla teoria del diritto né dall’epistemologia. Dipende dal diritto positivo.

Questo non vuol dire che la teoria del diritto e l’epistemologia non abbiano nessun ruolo nel far luce su questi temi. Al contrario hanno il compito di esaminare due profili molto rilevanti. La teoria del diritto ha il compito – che effettivamente sta cominciando a svolgere da diversi anni – di

“fonte di conoscenza”. È un dibattito relativo a quali fonti abbiano quale e quanta capacità probatoria. Questa obiezione però per l’aspetto della tesi contestualista che qui può interessarci è irrilevante. Non voglio prendere alcuna posizione sulla natura della conoscenza in generale, ma voglio solo sottolineare il carattere contestuale della soglia di giustificazione epistemica sufficiente perché il giudice possa dire di “conoscere” determinati fatti. Non intendo affatto dire che la qualità e quantità di capacità probante di una data testimonianza vari da contesto a contesto. Intendo dire che il grado di capacità

probante che è richiesto perché credere a quella testimonianza sia legittimo in sede giuridica varia da contesto a contesto:

la giustificazione epistemica richiesta al giudice per poter prestare fiducia ai testimoni e agli esperti è contestuale. Il fatto, per esempio, che una certa dichiarazione possa essere utilizzata dal giudice come prova del fatto narrato indipendentemente da un previo controllo di attendibilità – o in presenza di un controllo superficiale o in presenza di un controllo approfondito o ancora che non possa mai essere utilizzata… – dipende dal parametro di giustificazione rilevante.

raccomandare al legislatore quali siano i modi migliori per formulare degli standard di prova o quali siano i criteri di ammissione od esclusione delle prove più raccomandabili94. L’epistemologia ha il

compito di comprendere in che modo questi standard e questi criteri possano essere raggiunti. In questo lavoro, non intendo affrontare né il primo né il secondo tema. In primo luogo, perché si tratta di due temi che pur essendo rilevanti per la descrizione del rapporto tra giudice ed esperto hanno una portata molto più generale: questo lavoro invece ha come obiettivo quello di chiarire le peculiarità del rapporto epistemico che si instaura tra giudici ed esperti. In secondo luogo, perché esula dai compiti che mi propongo sia assumere una prospettiva de iure condendo (e quindi elaborare delle raccomandazioni per il legislatore processuale) sia allargare la mia ricerca a temi di epistemologia generale. Vorrei tentare di assumere la prospettiva del giudice, anziché quella del legislatore, e tentare di chiarire in che modo il giudice debba interagire con l’esperto in un contesto legislativo dato. Abbandonerò dunque il problema del grado di giustificazione a cui si deve condizionare la deferenza epistemica e mi concentrerò su un altro aspetto. Tenterò di sostenere che il tipo di giustificazione alla quale la deferenza epistemica verso esperti deve essere condizionata è qualitativamente diverso rispetto al tipo di giustificazione alla quale è condizionata la deferenza epistemica verso testimoni comuni.

94 Il problema della definizione degli standard di prova è estremamente complesso, perché richiede di soddisfare due

esigenze contrapposte. Da un lato è avvertita l’esigenza di rendere lo standard intersoggettivamente controllabile. Se lo standard fosse definito semplicemente con il richiamo ad un certo grado di convincimento psicologico del giudice, mancherebbe di questa fondamentale caratteristica e quindi di fatto non fisserebbe alcuna autentica regola di giudizio [Ferrer, 2018, p. 7]. L’indicazione che il giudice condanni solo quando si trova in un certo stato mentale sarebbe una pseudoregola: nessuno potrebbe mai denunciarne la violazione. Per due esempi di standard che Ferrer considera oggettivamente controllabili cfr. Ferrer [2018] per la custodia cautelare e Ferrer [2014] per la valutazione del nesso di causalità nell’illecito civile extracontrattuale. D’altro canto, però, definire gradi di certezza probatoria in modo oggettivo è estremamente complesso, secondo alcuni [González Lagier, 2018, p. 20], forse impossibile. In particolare l’uso di criteri matematici di tipo probabilistico per riformulare in sede legislativa o interpretativa le regole di giudizio sembra impossibile o comunque del tutto inadeguato al contesto processuale [Taruffo, 1992, p. 166; Taruffo, 2009a, p. 220, 2009b, p. 309; Caprioli, 2009, p. 166; Haack, 2013, p. 75]. La probabilità giuridicamente rilevante non sarebbe probabilità nel senso “frequentista”, ma la provabilità, probabilità “logica” [Cohen, 1977, p. 58]. Nel senso che invece sia possibile e opportuno condurre il ragionamento probatorio in base al calcolo di probabilità cfr. per esempio Garbolino [2014].

2. Due concezioni dell’esperto