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CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

4. La rilevanza giuridica come limite alla deferenza del giudice

4.2. Diritto e verità

La tesi che vi sia una strutturale dipendenza tra diritto e la verità di proposizioni accertabili anche in base a discipline diverse dal diritto può sembrare banale, ma non lo è affatto. È stata a lungo dominante tra i giuristi la tesi apparentemente contraria secondo la quale la “verità” che interessa al diritto, specie nell’ambito della sua applicazione giurisdizionale, non è la verità in senso ordinario, la cosiddetta verità materiale di cui si interessano ad esempio le scienze naturali, ma qualcosa di diverso [cfr. Ferrer, 2007, p. 9].

Secondo Francesco Carnelutti [1992, p. 47], ad esempio, “il controllo dei fatti controversi da parte del giudice non può seguire mediante la ricerca della loro verità, ma mediante dei processi di fissazione formale”. Se si dovesse dare ascolto a questa tesi, il riparto di competenze tra giuristi ed esperti in altre discipline diverrebbe estremamente misterioso. Se il diritto non solo vertesse su proposizioni diverse da altre discipline, esprimibili solo attraverso concetti giuridici, ma addirittura richiedesse l’accertamento di un tipo di verità tutto suo, come andrebbe identificato il rapporto tra questa verità e quella a cui si impegnano i testimoni e gli esperti nelle loro deposizioni?

Che Tizio abbia diritto di ereditare da Caia oppure no non dipenderebbe in quest’ottica dalla verità del fatto che Caia abbia in piena lucidità testato in favore di Tizio. Dipenderebbe solo dalla fissazione formale dei presupposti giuridici della pretesa di quest’ultimo in base a regole processuali: l’allegazione del fatto costitutivo, la presentazione o meno di valide eccezioni, il rispetto di termini processuali, l’operatività di presunzioni, eccetera. Secondo questa tesi, l’applicazione di una norma giuridica non richiederebbe mai l’accertamento della verità materiale dei suoi presupposti. Se lo richiedesse – si sostiene – il diritto non riuscirebbe a svolgere la propria funzione di risolvere controversie. La verità materiale, secondo i sostenitori di questa tesi, sarebbe un obiettivo troppo ambizioso per essere raggiunto una volta per tutte in un’aula di tribunale: se l’applicazione di una norma giuridica fosse condizionata all’accertamento della verità materiale di un fatto, essa sarebbe eternamente controversa e dovrebbe essere sempre rivedibile, con grave danno per la certezza del

diritto. In alcuni casi, ciò si porrebbe anche in contrasto con valori percepiti come fondamentali per la nostra cultura giuridica, come ad esempio la presunzione di innocenza in ambito penale. Il diritto perciò non riconoscerebbe la verità ordinaria ma condizionerebbe la sua applicazione a una verità tutta sua, fabbricata dal giudice caso per caso. Parlando appunto del processo penale di tradizione accusatoria, Luigi Ferrajoli sostiene, ad esempio, che la verità alla quale l’irrogazione della sanzione è subordinata

è una verità formale o processuale, raggiunta con il rispetto di regole precise e relativa ai soli fatti e circostanze ritagliati dalla legge […][:] non pretende di essere la verità; non è conseguibile mediante indagini inquisitorie estranee all’oggetto processuale; è di per sé condizionata al rispetto delle procedure e delle garanzie di difesa. È insomma una verità più controllata quanto al metodo di acquisizione ma più ridotta, quanto al contenuto informativo, di qualunque ipotetica verità “sostanziale” nel quadruplice senso che è circoscritta alle tesi accusatorie formulate sulla base delle leggi, che deve essere suffragata da prove raccolte attraverso tecniche prestabilite normativamente, che è sempre una verità solamente probabile e opinabile, e che nel dubbio o in difetto di accuse o di prove ritualmente formate prevale la presunzione di non colpevolezza, ossia della falsità formale o processuale delle ipotesi accusatorie [Ferrajoli, 1989, p. 18].

Nella stessa tradizione si inscrive lo stesso Hans Kelsen, che attribuisce all’affermazione con cui il giudice dichiara sussistenti i presupposti in fatto dell’applicazione della norma valore costitutivo piuttosto che descrittivo:

La norma generale che collega un fatto astrattamente determinato una conseguenza pure astrattamente determinata ha bisogno di essere individualizzata per raggiungere il proprio significato. Si deve stabilire se esiste in concreto un fatto che la norma determina in astratto, ed è necessario che per questo caso concreto sia posto, cioè sia prima ordinato e poi realizzato, un atto coattivo concreto che è prescritto ugualmente dalla norma generale. Questo è quanto viene effettuato dalla sentenza, dalla così detta funzione giurisdizionale o potere giudiziario. Questa funzione non ha per nulla un carattere semplicemente dichiarativo, come è indicato dai termini ‘giurisdizione’ e ‘ricerca del diritto’ (Rechtsfindung) e come talvolta è ammesso dalla teoria, quasi che il diritto già compiuto nella legge, cioè nella norma generale, dovesse soltanto essere espresso o trovato nell’atto del tribunale. La così detta funzione giurisdizionale è piuttosto totalmente costitutiva, è produzione di diritto nel vero senso della parola [Kelsen, 1952, pp. 108- 109].

Secondo questa prospettiva, per esempio, nel momento in cui il giudice dichiara che le informazioni diffuse da Mevio in relazione alla società Alfa sono false, pronunciando una sentenza di condanna per aggiotaggio, non pretende di descriverle come materialmente false, ma decreta che contino come

false per l’ordinamento giuridico, in base a determinate norme che lo legittimano136. Questo carattere

costitutivo spiegherebbe per esempio un fenomeno come quello del giudicato sostanziale. Ai fini giuridici, esauriti i mezzi di impugnazione, la verità accertata dal giudice diventa incontrovertibile. Anche se non è affatto… la verità137.

Fino a questo momento ho sempre sostenuto che il giudice abbia delle buone ragioni per affidarsi agli esperti o ai testimoni per giudicare vere certe proposizioni. Ma se la verità materiale a cui si impegnano testimoni ed esperti nelle loro deposizioni rischiasse sempre di essere qualcosa di diverso dalla verità formale rilevante per il diritto, la mia presa di posizione potrebbe sembrare ingiustificata. Tenterò qui di mostrare che, nonostante il diritto possa essere caratterizzato da processi di fissazione formale e meccanismi presuntivi simili a quelli a cui ho appena fatto riferimento, la sua applicazione dipende sempre in fin dei conti dalla verità di proposizioni, nel senso ordinario dell’espressione, accertabile con metodi di discipline diverse dal diritto e quindi anche da parte di esperti di discipline diverse dal diritto.

136Scrive infatti Kelsen:

“[L]’accertamento della fattispecie delittuosa è una funzione giurisdizionale senza dubbio costitutiva. Se l’ordinamento giuridico ricollega ad una certa fattispecie, considerata come condizione, una certa conseguenza, deve anche determinare l’organo ed il procedimento con cui si deve accertare, nel caso concreto, l’esistenza della fattispecie condizionante” [Kelsen, 1966, p. 275].

Tecla Mazzarese, interpretando e facendo propria questa tesi di Kelsen, precisa:

“[I] valori vero/falso non convengono […] agli enunciati che esprimono norme giuridiche: delle norme giuridiche si predica la validità, non la verità. […] [N]on si può non condividere la tesi kelseniana secondo la quale la validità della norma espressa dalla conclusione di una decisione giudiziale è il risultato non di un’inferenza logica, bensì di un atto di posizione da parte del giudice in conformità alle metanorme che, in un ordinamento giuridico individuano e definiscono le condizioni di validità di una norma” [Mazzarese, 1996, pp. 42-43].

137 Questo punto di vista è bene espresso anche da Neil MacCormick:

“For legal purposes, the value ‘true’ is ascribed to that which is authoritatively so certified. Except in so far as processes of appeal or review can be utilised to reverse or correct certified truths, the legal system admits of no other truth of the relevant matter, whatever the relative strengths of the reasons for believing and for disbelieving p in the first place. Finality of decision requires this. […] In effect, legal fact-finding processes transform brute facts into institutional facts. Whatever may have happened in the world, a jury's determination that a hit b on the head and caused b's death makes that count as a legal truth, a proposition which counts as true in a certain legal process. It is true given certain legal conventions of truth-ascription. That does not, of course, make it true for all purposes, and indeed one way of justifying or criticising legal procedures is to try to form an estimate of the degree to which what is legally held true actually matches with the world as it really is (so far as one can judge of that)” [MacCormick, 1992, p. 190].

Prendiamo l’esempio del giudicato. Una sentenza passata in giudicato può contenere l’accertamento di fatti pacificamente riconosciuti come falsi – nell’ordinario senso dell’espressione – che nonostante questo pacifico riconoscimento dovranno continuare ad essere riconosciuti come veri – in ambito giuridico. In realtà, però, il fatto che l’ordinamento consideri vera agli effetti giuridici una dichiarazione compiuta dal giudice anche se è falsa, non significa necessariamente che il giudice nel compierla non abbia dovuto impegnarsi alla verità (materiale) di una proposizione.

In filosofia del linguaggio, è possibile distinguere gli atti linguistici in base alla loro direzione di adattamento. Un atto linguistico assertivo, come una descrizione, ha una direzione di adattamento parola-mondo perché esprime la pretesa che le parole con cui è espresso si adattino in modo fedele lo stato delle cose del mondo: per esempio se dico “Mario è seduto” esprimo la pretesa che la proposizione rappresenti lo stato di cose esistente nel mondo che Mario è seduto; mi impegno alla verità del fatto che Mario è seduto. Un atto linguistico direttivo, come un ordine, ha una direzione di adattamento mondo-parola perché esprime la pretesa che il mondo si adatti alle parole con cui è espresso: “Mario, siediti!” esprime la pretesa che quella parte di mondo costituita da Mario si adatti all’ordine e si sieda. Ci sono poi atti linguistici che hanno una doppia direzione di adattamento, che John Searle chiama declarations, e che sembrano avere il carattere costitutivo che alcuni attribuiscono alle sentenze. Un esempio ricorrente di declaration è quella del sindaco o il ministro di culto che celebra un matrimonio, che nel dire “Vi dichiaro uniti nel vincolo del matrimonio”, non si limita a descrivere la verità giuridica di quel vincolo, ma la costituisce con le sue parole. L’atto esprime una proposizione che risulta vera solo in virtù del compimento dell’atto stesso [Searle, 1979, pp. 18-19]. Ebbene che le sentenze dei giudici contengano o possano contenere anche espressioni con un carattere costitutivo, in questo senso, è difficilmente negabile. Per esempio, se un giudice dichiara l’annullamento di un contratto, nel dispositivo di una sentenza, dichiara che il contratto è annullato in virtù della dichiarazione stessa di annullamento. Ma le sentenze motivate in fatto contengono sempre e necessariamente anche degli atti linguistici assertivi. Per esempio, il giudice è giuridicamente autorizzato a dichiarare un contratto annullato solo se prima afferma che effettivamente sussiste una causa di annullamento. Quando il giudice, nella motivazione della sentenza, dichiara, che il contraente che ha proposto la domanda di annullamento è stato raggirato dal convenuto e che perciò il contratto è viziato da dolo, compie degli atti linguistici assertivi, non delle declarations. Il giudice non ritiene che il contraente sia stato raggirato in virtù del fatto di essere descritto come raggirato nella sentenza. Il raggiro che in base al diritto costituisce presupposto dell’annullamento non è un fatto creato dalla volontà del giudice durante il processo, bensì un fatto

precedente al processo, ontologicamente indipendente da esso, che il processo ha il solo compito di accertare138.

Non tutte le sentenze poi hanno carattere costitutivo, né tutte le sentenze si concludono con una declaration. Per esempio, la sentenza che dichiara un contratto nullo non costituisce affatto la nullità del contratto: si limita ad accertarla. Si potrebbe obiettare che la sentenza è comunque costitutiva, nel senso sopra precisato, perché anche se il contratto non fosse stato nullo, prima di essa, esauriti i mezzi di impugnazione, in virtù della dichiarazione del giudice, il contratto diventerebbe nullo, per effetto del giudicato sostanziale. Ma questa obiezione confonde il punto illocutivo dell’atto, con i suoi effetti giuridici139: una sentenza di accertamento mero produce i suoi effetti giuridici sul presupposto che

contenga atti linguistici assertivi.

La distinzione tra verità materiale e formale – spiega Ferrer [2005, p. 73] – nasce nella processualistica tedesca dell’ottocento per dar conto del principio secondo cui il diritto processuale può riconoscere autorità anche a decisioni fondate sull’adesione a proposizioni fattuali materialmente false. Di questo principio, però, si può dare conto anche senza dover postulare l’esistenza di più tipi distinti di verità, ma semplicemente operando la banale distinzione tra il fatto che una proposizione sia vera e il fatto che essa sia considerata come vera dall’ordinamento e ammettendo che il diritto ha

138 Esiste una ricca letteratura tradizionale secondo la quale gli enunciati probatori del tipo “è provato che p” avrebbero

valore costitutivo, perché la nozione di prova giuridica è peculiare ed è una creazione del diritto. Questa tesi è ampiamente discussa e criticata da Jordi Ferrer [2005, pp.19-35]. Tuttavia, il fatto che la nozione di prova e i parametri di giustificazione ad essa correlati varino di ordinamento in ordinamento, come ho sostenuto in apertura di questo capitolo, non è affatto in contrasto con l’idea che gli enunciati probatori del tipo “è provato che p” siano degli atti linguistici assertivi. Quale che sia la definizione del predicato “è provato” che il legislatore intende adottare, foss’anche una definizione del tutto arbitraria e stipulativa, quando il giudice, presupponendo tale definizione, applicherà il predicato a un caso specifico compirà un atto linguistico assertivo.

139 Per capire la differenza si pensi al caso di un poliziotto che scrive in un rapporto che una macchina circolava senza

targa. In base al principio di cui all’articolo 2700 del codice civile, la dichiarazione, in quanto atto pubblico, è incontrovertibile se non esperendo un’apposita querela di falso. Ciò vuol dire che la dichiarazione del poliziotto ha valore costitutivo? No. Nel verbale il poliziotto si limita a dire che la macchina è senza targa. La direzione di adattamento è semplice, non doppia. L’atto linguistico del poliziotto è assertivo, non costitutivo. Il fatto che l’articolo 2700 attribuisca a quell’atto assertivo rilevanza giuridica non esime il poliziotto dall’impegnarsi alla verità materiale di quanto dice e non rende la sua dichiarazione una declaration nel senso di Searle. L’articolo 2700 attribuisce all’atto del pubblico ufficiale il particolare valore probatorio che ha solo sul presupposto che si tratti di un atto assertivo. Se il poliziotto avesse scritto nel verbale “L’automobile aveva la targa, ma in virtù di questo verbale dichiaro che giuridicamente l’automobile conti come priva di targa”, l’articolo 2700 non avrebbe impegnato il giudice a considerare senza targa l’automobile.

il potere di imporre ai giudici di considerare come vere anche proposizioni che non lo sono e perfino delle proposizioni che gli stessi giudici non credono vere140.

Gli argomenti addotti dai fautori della distinzione tra verità formale e materiale certamente colgono un aspetto rilevante del funzionamento del diritto, ma non dimostrano affatto l’irrilevanza della verità materiale per il diritto. In un certo senso, la distinzione può essere accettata se con essa si vuole semplicemente dire che i criteri che portano un giudice, nell’ambito di un processo, a dire che una certa proposizione è vera non si esauriscono nei criteri scientifici che sono applicati al di fuori del contesto giuridico, ma sono costituiti anche da norme giuridiche. È innegabile, infatti, che l’applicazione di una qualsiasi norma giuridica ad un caso concreto (specie se da parte di un giudice o un pubblico ufficiale e nel contesto di un procedimento giurisdizionale o amministrativo) è una procedura complessa, di solito disciplinata da ulteriori norme sia nei suoi presupposti sia nelle sue conseguenze. Per dire che il presupposto di fatto che una disposizione di diritto sostanziale enuncia si è realizzato occorre normalmente tenere presenti anche altre disposizioni, di diritto processuale, che disciplinano il procedimento probatorio, che specificano gli elementi di prova utilizzabili, che fissano gli oneri di prova e allegazione e così via. Questo determina la particolare contestualità delle condizioni alle quali una proposizione può essere giustificatamente dichiarata vera in ambito giuridico di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo. Ciò tuttavia in nessun modo nega la sussistenza di un rapporto di strutturale dipendenza tra l’applicazione del diritto ad un caso di specie e l’accertamento di verità tout court, nel senso ordinario del termine141.

140 In proposito, Daniel González Lagier osserva:

“La certeza que se obtiene por medio de la inferencia probatoria nunca es una certeza lógica. Siempre hay un margen, mayor o menor, para el error. Esta es una de las razones por las que se ha dicho que la finalidad de la prueba no es descubrir la verdad de los enunciados que han de probarse, porque la verdad es un ideal inalcanzable. Basándose en esta afirmación, suele distinguirse entre verdad formal y verdad material. La primera es el resultado de la actividad probatoria, pero no la segunda. Esta tesis es peligrosa y equivocada. Es peligrosa porque abre la puerta a dar por justificadas decisiones sin que se hagan esfuerzos por comprobar si realmente ocurrieron o no los hechos que configuran el caso. Sin embargo, como señala Taruffo, una decisión no puede ser justa si se basa en una premisa errónea falsa. Es equivocada porque si tomamos en serio el argumento de que como en el proceso no podemos alcanzar la verdad absoluta entonces la verdad material no debe perseguirse en el proceso, también deberíamos abandonar la búsqueda de la verdad en la ciencia, la historia, o cualquier ámbito donde se investiguen hechos. La verdad absoluta no sólo es inalcanzable para los jueces, sino para todos. Pero eso no nos autoriza a abandonar los esfuerzos para que nuestro conocimiento de la realidad se aproxime lo máximo posible a la verdad” [González, 2005, p. 28].

141 Sulla inutile frammentazione del concetto di “verità” da parte dei giuristi ha ironizzato Diego Marconi con queste

Persino le norme che sembrano creare una verità formale, sostenibile solo a fini giuridici, possono essere applicate solo sulla base dell’accertamento della verità materiale di proposizioni relative a fatti giuridicamente rilevanti. Pensiamo alle norme processuali che secondo Larry Laudan svierebbero indebitamente il processo penale dal suo scopo istituzionale, ossia la punizione degli autori materiali dei reati, come per esempio le norme che rendono inutilizzabili prove illecitamente assunte e che tuttavia dal punto di vista epistemico sono affidabili142. Anche l’applicazione di queste norme è

subordinata alla verità materiale di una qualche proposizione. Se, per esempio, la confessione di Filano viene esclusa sul presupposto che sia stata assunta in violazione della sua libertà morale in base all’articolo 188 del codice di procedura penale, l’esclusione opera solo perché tale presupposto si è materialmente verificato. Si può convenire sul fatto che la presenza di norme procedurali consente spesso di applicare una disposizione nonostante il presupposto in essa letteralmente enunciato non si sia in realtà realizzato. Ciò non significa che la applicazione della norma possa essere svincolata dall’accertamento della verità di una qualche proposizione.

L’individuazione e interpretazione di disposizioni normative, siano esse sostanziali o processuali, non è mai sufficiente per stabilire chi abbia ragione in una concreta controversia giuridica, perché per sapere chi ha ragione occorre volgere lo sguardo verso il mondo e verificare se è materialmente vero che determinati fatti giuridicamente rilevanti si sono verificati. Lo stesso Kelsen, che notoriamente concepisce il diritto come l’oggetto di una scienza pura, riconosce la sua strutturale dipendenza, per la concreta applicazione delle norme che lo compongono, dalle “scienze della natura”, intendendo

modo. Ricordo che anni fa, in un dibattito radiofonico, il magistrato Gherardo Colombo, sostenne che il compito del giudice non è stabilire la verità bensì ‘soltanto’ accertare i fatti. Ma la verità non abita un regno sublime, più elevato