• Non ci sono risultati.

Le condizioni della deferenza epistemica nel processo

CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

1. Le condizioni della deferenza epistemica

1.2. Le condizioni della deferenza epistemica nel processo

Dovendo calare, un po’ grossolanamente, queste considerazioni filosofiche nella dinamica di un processo, se ne potrebbero trarre a prima vista due metodi contrapposti di valutazione della prova e, nel contesto di civil law, di motivazione in fatto della sentenza. Facciamo l’esempio di un processo in cui Anna, chiamata a deporre dall’accusa, affermi di avere visto, il giorno del delitto, l’imputato Bruto uscire dall’appartamento della vittima con un coltello insanguinato. Supponiamo che le parti non abbiano prodotto nessuna altra prova. A fronte di questo esiguo quadro probatorio, un giudice antiriduzionista sembrerebbe dover sempre condannare, a meno che l’avvocato della difesa non fornisca controprove a discarico. Un giudice riduzionista sembrerebbe sempre dover assolvere, a meno che il pubblico ministero (o il giudice stesso sulla base dei dati disponibili) non sia in grado di

fornire argomenti, per lo più di carattere induttivo, tali da dimostrare l’affidabilità del dichiarante81.

Il giudice antiriduzionista infatti pensa di sapere che Bruto è uscito di casa con un coltello insanguinato sulla base della mera testimonianza di Anna; il giudice antiriduzionista no.

Le cose però non stanno proprio così. Ai fini giuridici entrano in considerazione altri fattori che rendono irrilevante di per sé il problema che in filosofia costituisce la materia del contendere tra riduzionisti e non riduzionisti. Per esempio, se Anna fosse imputata in un procedimento “connesso” con quello a carico di Bruto, nel senso precisato dall’articolo 12 del codice di procedura penale italiano, la sua deposizione, in base all’articolo 192 del medesimo codice, non potrebbe mai essere utilizzata se non in presenza di “riscontri esterni”. Dal punto di vista giuridico, non importa un bel nulla che per gli epistemologi la deposizione costituisca una giustificazione adeguata per rendere la credenza del giudice come un’autentica “conoscenza”. Ciò che importa non è la giustificazione tale da qualificare la credenza del giudice come conoscenza82. Ciò che importa è la giustificazione alla

81 A seconda del tipo di riduzionismo in questione occorrerà fornire argomenti a sostegno dell’affidabilità di quel

dichiarante, della categoria di dichiaranti a cui quel dichiarante appartiene, o magari di qualunque dichiarante…

82 Addirittura sembrerebbe non essere sempre rilevante che il giudice effettivamente creda nella narrazione del testimone.

Normalmente il giudice decide in base al suo “libero convincimento”, ma ci sono anche casi in cui il contesto normativo obbliga chi è chiamato a decidere a considerare provata un’ipotesi in fatto, oggetto di una testimonianza, anche se in cuor suo ritiene che la testimonianza sia falsa. È il caso di sistemi che prevedono la cosiddetta prova legale. Una prova legale è una prova cui il legislatore attribuisce valore probatorio in modo automatico sottraendola alla valutazione del giudice [Tuzet, 2016, p. 258]. Sembrerebbe che in questi casi la stessa verità a cui il diritto condiziona i suoi effetti cessi di essere la verità materiale e diventi una diversa verità creata dal diritto stesso. In realtà, le cose non stanno così. Si tratta di un semplice meccanismo presuntivo: la norma che prevede la prova legale non crea una verità alternativa, processuale, diversa dalla verità materiale, ma semplicemente condiziona gli effetti della norma sostanziale, anziché alla verità (materiale) dei fatti in essa letteralmente espressi, direttamente alla verità (sempre materiale) di un altro fatto (per esempio alla narrazione del fatto previsto dalla norma sostanziale da parte di alcuni testimoni qualificati). Più precisamente, muta la proposizione che deve essere vera affinché l’effetto giuridico si produca. Il fenomeno potrebbe essere inquadrato come una forma di antinomia dove la norma probatoria prevale per specialità su quella sostanziale (in quanto disciplina più specificamente l’attività di giudizio fondata sulla norma sostanziale) o più semplicemente potrebbe spiegarsi perché di fatto tra le due norme non c’è conflitto: la disposizione sostanziale – con buona pace di Kelsen – non è concepita per disciplinare direttamente l’attività del giudice. L’attività del giudice è disciplinata dalla norma ricavabile dal combinato disposto tra disposizione sostanziale e disposizione sulla prova legale. Va precisato che ci sono sensi diversi in cui la prova può essere libera o vincolata. Dwyer [2006b] osserva che la libertà può riguardare o l’ammissione di prove rilevanti oppure la valutazione delle prove ammesse. Twining [1997] distingue poi tra la libertà intesa come selezione autonoma dei criteri di ammissione o valutazione e la libertà intesa come insindacabilità in sede di impugnazione. In tema di prova legale e libera valutazione cfr. anche Damaška [1995], Dwyer [2006a], Taruffo [1992, p. 361], Tuzet [2016a, p. 255].

quale il diritto condiziona il potere punitivo del giudice. Quest’ultima, per esempio, nel caso in questione, in assenza di riscontri esterni, sicuramente mancherebbe.

Alex Stein nota che il diritto probatorio non ha come scopo principale quello di aumentare l’accuratezza nell’accertamento dei fatti giuridicamente rilevanti, ma piuttosto quello di regolare l’inevitabile condizione di incertezza in cui il giudice si trova a decidere. Definendo quali e quante prove possono essere ammesse, chi ha l’onere della prova e quale è il grado di giustificazione necessario per soddisfarlo, cioè qual è lo standard di prova, il diritto delinea i contorni di una nozione di giustificazione del convincimento del giudice, potenzialmente distinta rispetto a quella di cui si preoccupa il dibattito epistemologico. Scrive Stein:

I fatti alla base di controversie giudiziarie sono inevitabilmente incerti e la corte non sa mai esattamente se si siano verificati. Perciò invece di cercare di accertare i fatti che si sono effettivamente verificati, determina, in condizione di incertezza, quali fatti si siano probabilmente verificati. Le regole note come diritto probatorio aiutano la corte in questa determinazione. Tali regole classificano le prove come ammissibili o inammissibili. Richiedono riscontri per certi tipi di prove e determinano oneri e standard di prova per le questioni di fatto. Così facendo, le regole probatorie distribuiscono il rischio di errore giudiziario […] tra le due parti in conflitto. La distribuzione dell’errore coinvolge la teoria della probabilità, l’economia e la filosofia morale [Stein, A., 2012, pp. 2088-2089, traduzione mia83]

La domanda che si deve affrontare non è dunque

Quale tipo di giustificazione è necessaria perché la credenza del giudice fondata su una testimonianza conti,

se vera, come conoscenza?

ma piuttosto:

Quale tipo di giustificazione è necessaria perché il giudice sia giuridicamente autorizzato a considerare una certa dichiarazione testimoniale come prova?

83 Testo originale:

“The facts underlying legal disputes are inherently uncertain and courts consequently never know exactly what they are. Therefore, instead of trying to find the actual facts, courts determine what these facts are likely to be under conditions of uncertainty. The rules, known as the law of evidence, help courts make these determinations. These rules categorize evidence as admissible or inadmissible. They also require corroboration for certain types of evidence and determine the burdens and standards of proof for factual findings. By doing all that, evidentiary rules allocate the risk of error […] to one party or another. Allocation of error brings probability theory, economics, and moral philosophy into play”.

Questa domanda però è ambigua sotto vari aspetti. Perché una cosa è domandarsi a quali condizioni una testimonianza possa essere utilizzata nel processo e un’altra cosa è chiedersi a quali condizioni il giudice (o eventualmente la giuria) possa fondare su di essa una decisione. La prima domanda riguarda l’ammissibilità delle prove testimoniali:

Qual è il tipo di giustificazione necessaria perché il giudice sia giuridicamente autorizzato a considerare una certa dichiarazione testimoniale ammissibile?

La seconda riguarda la valutazione delle prove testimoniali:

Qual è il tipo di giustificazione necessaria perché il giudice sia giuridicamente autorizzato a considerare una certa dichiarazione testimoniale vera?

Ciascuna di queste due domande però è ancora ambigua. Entrambe le domande infatti per poter avere un significato determinato devono essere contestualizzate, in uno specifico ordinamento e in uno specifico contesto decisionale. Le risposte infatti dipendono dal diritto positivo. Per stabilire quali prove il giudice debba prendere in considerazione per raggiungere la decisione bisogna avere riguardo ai criteri di ammissibilità della prova; per stabilire qual è il tipo di giustificazione necessaria perché il giudice possa fondare una decisione su una testimonianza bisogna avere riguardo allo standard di prova. La definizione sia dei criteri di ammissibilità sia dello standard di prova comporta anche delle scelte di valore che spettano al diritto e non semplicemente all’epistemologia.

Nella definizione dei criteri di ammissibilità, il diritto fa una scelta di valore perché bilancia il valore dell’accertamento della verità con altri valori antagonisti che possono entrare in considerazione. Questo è palese nel caso delle prove illecite. Per esempio, una deposizione estorta sotto tortura nell’ordinamento italiano è sempre inammissibile. Questo non perché il legislatore ritenga la deposizione resa sotto tortura sempre epistemicamente inaffidabile. Anche se la tortura fosse in un caso particolare il miglior modo per accertare la verità o falsità della proposizione alla quale è condizionata l’applicazione di una norma di diritto sostanziale, il diritto probatorio ne vieterebbe l’uso. La ragione sta nel fatto che il legislatore attribuisce al divieto di tortura un valore morale maggiore rispetto quello derivante dalla corretta applicazione del diritto sostanziale. Analogamente, se in futuro, lo sviluppo delle neuroscienze consentisse a degli esperti di estorcere informazioni rilevanti direttamente dal cervello dell’imputato, una simile prova solleverebbe forti dubbi di

ammissibilità – in relazione ad esempio al diritto al silenzio dell’imputato – ciò anche se la tecnica impiegata fosse del tutto affidabile sul piano epistemologico84.

Ma anche prescindendo dal problema delle prove illecite, l’ammissione o esclusione delle prove presuppone sempre un giudizio di valore in quanto richiede al giudice o al legislatore un bilanciamento tra le esigenze di accertamento della verità (a tutela dei diritti delle persone coinvolte nel processo) e l’esigenza di non sperperare tempo e risorse processuali preziose (a danno dei diritti delle persone coinvolte in altri processi e delle finanze pubbliche). Se i giudici disponessero di tempo e risorse infiniti potrebbero ammettere anche prove prima facie inutili o poco affidabili per poi sottoporle in un secondo momento, nella fase di assunzione e valutazione, a un vaglio critico. Ma in condizioni normali l’ammissione della prova richiede di fare delle scelte85. E queste scelte non

possono essere compiute sulla base di criteri unicamente epistemologici86.

Nella definizione degli standard di prova, il diritto fa una scelta di valore perché esprime una valutazione comparativa della gravità di due diversi tipi di errore giudiziario87. Lo standard di prova

è il grado di certezza che occorre raggiungere per considerare una certa ipotesi provata. Se il legislatore eleva lo standard, diminuisce la probabilità di false applicazioni del diritto, casi di errore giudiziario positivo, casi in cui per esempio una persona innocente viene ingiustamente condannata; se invece il legislatore abbassa lo standard, diminuisce le probabilità di false disapplicazioni del

84 Per un’interessante discussione dell’ammissibilità di prove neuroscientifiche alla luce del quarto e quinto emendamento

negli Stati Uniti cfr. Pardo, Patterson e Moratti [2014].

85 Per un’analisi delle scelte di ammissione probatoria in prospettiva economica cfr. Posner [2009].

86 Prendiamo ad esempio la norma di cui all’articolo 2721 del codice civile italiano, secondo cui, salvo alcune eccezioni,

per provare l’esistenza di un contratto non è ammessa la prova per testimoni. Anche quando, come in questo caso, l’ammissibilità è per legge dettata da un criterio epistemologico, la selezione di questo criterio è sempre motivata anche da certi valori. Per esempio, sul presupposto epistemologico che la prova scritta fornisca una migliore giustificazione, il legislatore richiede che il contratto sia provato solo per iscritto perché ritiene giusto condizionare ad un certo livello di certezza le decisioni giudiziarie a tutela dell’autorità dei contratti. L’esigenza di questa certezza deve bilanciarsi con considerazioni valoriali diverse: per esempio, la testimonianza torna ad essere ammissibile, in base all’articolo 2724, quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova. Quando poi il legislatore fa una scelta circa l’ammissibilità di una prova sulla base di criteri epistemologici si può porre un problema interessante nel caso in cui la scelta si riveli epistemologicamente errata: il giudice deve rispettare la scelta del legislatore anche se demenziale o deve ricorrere alla Corte Costituzionale perché renda la prova ammissibile? Il bilanciamento tra il principio democratico che conferisce al Parlamento la competenza di dettare le regole del processo e i principi costituzionali che risulterebbero lesi in casi concreti per la mancanza di prove stupidamente considerate inammissibili implica chiaramente scelte di valore.

diritto, casi di errore giudiziario negativo, casi in cui per esempio una persona colpevole viene ingiustamente assolta. Normalmente in ambito penale, il sistema giuridico esprime una preferenza per errori giudiziari negativi; mentre in ambito civile in genere esprime indifferenza rispetto ai due tipi di errore88.