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L’opacità del linguaggio degli esperti

CAPITOLO IV: LA DEFERENZA SEMANTICA NEL PROCESSO

1. L’opacità del linguaggio degli esperti

Vediamo anzitutto l’aspetto più semplice di questo tema: in che modo l’opacità delle conclusioni dell’esperto può ostacolare la corretta soluzione di questioni di fatto. Marina Gascón ha osservato che anche quando l’esperto è affidabile il suo intervento nel processo può risultare deleterio a causa del fenomeno che lei chiama sopravvalutazione semantica:

Non è solo il dogma della infallibilità delle prove scientifiche che deve essere riconsiderato. Deve essere riconsiderata anche un’altra questione: quella che […] ho chiamato “sopravvalutazione semantica”; più concretamente, il fatto di considerare che i risultati delle prove […] dicano cose diverse da quelle che in realtà dicono. Se la prova scientifica è stata introdotta nel processo, è perché si è dato per scontato, non solo il suo altissimo valore probatorio […], ma anche che questi risultati parlino direttamente di ciò che si intende provare.

Si pensa in pratica che il risultato di una prova del DNA segnali direttamente la pertinenza o meno della traccia analizzata alla persona da cui proviene il campione di DNA con cui la traccia è messa a confronto (l’imputato di un processo penale ad esempio) […]. In buona sostanza, si pensa che il risultato di una prova scientifica parli nei termini nei quali il giudice deve pronunciarsi [Gascón, 2013, p. 186, traduzione mia200].

200 Testo originale:

“[N]o es sólo el dogma de la infalibilidad de las pruebas científicas lo que debe ser revisado. También debe ser revisada otra cuestión: la que […] llamé la “sobrevaloración semántica”; más concretamente, el hecho de considerar que los resultados de la prueba […] dicen cosas distintas de las que en realidad dicen. Si la prueba científica ha sido entronizada en el proceso es porque se da por descontado no sólo el altísimo valor probatorio […], sino también que éstos hablan directamente de aquello que se pretende probar. Se piensa, en concreto, que el resultado de una prueba de ADN señala

Se il preteso esperto è inaffidabile, è possibile che il ragionamento alla base della sua deposizione contenga delle informazioni false oppure un non sequitur, un salto logico come quello contenuto nella deposizione di Quijano. Ma se l’esperto è affidabile e, tuttavia, il giudice fraintende ciò che l’esperto dice, il risultato potrebbe non essere diverso. Il ragionamento probatorio è un percorso a tappe, fatto di tanti passaggi inferenziali. In casi come quelli descritti da Gascón, il giudice pensa di essere arrivato a destinazione (il DNA è quello dell’imputato) quando invece è ancora a metà strada (il DNA del campione 1 è lo stesso del campione 2). Non comprende fino a che punto del ragionamento l’esperto verso cui è deferente può portarlo, estende le affermazioni dell’esperto oltre i limiti di ciò che l’esperto intende dire e giunge così a conclusioni ingiustificate. Fin qui il problema è piuttosto banale.

1.2. Opacità e interpretazione

Nei casi descritti da Gascón, il fraintendimento delle parole dell’esperto induce il giudice a commettere degli errori nel ragionamento probatorio: se la perizia è incomprensibile, il giudice rischia di fraintenderla e di trarre da essa delle conclusioni ingiustificate in relazione alla questione di fatto. Ma, come vedremo, l’incomprensibilità del linguaggio tecnico usato nella prova per esperti può rappresentare un ostacolo anche per la corretta soluzione di questioni di diritto. Ciò accade quando il giudice non fraintende il linguaggio incomprensibile degli esperti, ma rinuncia a interpretarlo, delegando loro la sussunzione del fatto concreto nelle disposizioni di legge applicabili.

Secondo Damiano Canale, questa delega della sussunzione si verifica principalmente quando è il diritto stesso ad esprimersi con un linguaggio incomprensibile al giudice. Canale ha osservato che, oggi, gli esperti non hanno solo il ruolo di aiutare i giudici nell’accertare fatti, hanno acquistato anche un altro compito: quello di supplire alla loro incapacità di applicare ai fatti norme con un contenuto tecnico. Parla a questo proposito di norme opache. Una norma è opaca se viene applicata senza che il giudice ne comprenda o contribuisca a interpretarne il significato [2015, p. 103]. Quando il diritto è opaco, il sistema sociotecnico formato da giudice ed esperto finisce per funzionare proprio come l’algoritmo di un computer, un sistema puramente sintattico, non semantico, che manipola significanti anziché significati: il giudice e l’esperto, come un cervello elettronico, applicano il diritto senza in realtà interpretarlo.

directamente la pertenencia o no del vestigio analizado a la persona de la que procede la otra muestra de ADN con el que aquél se contrasta (el acusado en una causa penal por ejemplo) […] Se piensa, en definitiva, que el resultado de una prueba científica habla en los términos en que el juez necesita pronunciarse”.

Per spiegare come questo fenomeno possa verificarsi, Canale ricorre ad una variante al famoso esperimento mentale inventato da John Searle, chiamato la Chinese room [Searle, 1980, pp. 417-418; 1986, pp. 29-31; 1989, p. 26]. La Chinese room è una metafora con la quale Searle vuole mostrare che un computer, capace di riprodurre gli output di una certa operazione cognitiva, non per questo svolge davvero quella operazione cognitiva. Pertanto, il fatto che un computer sembri essere intelligente non dimostra che sia intelligente nello stesso senso in cui lo sono degli esseri senzienti. Si tratta di un argomento classico contro l’idea di intelligenza artificiale in senso forte (“strong AI”), così chiamata per la prima volta da Searle stesso: l’idea che computer particolarmente sofisticati – che superino il cosiddetto test di Turing, cioè capaci di comportarsi in modo indistinguibile dagli esseri umani – siano per ciò solo delle macchine pensanti esattamente come sono pensanti gli esseri umani.

Searle immagina un computer capace di parlare cinese. Per ogni domanda formulabile in cinese, il programma caricato nel computer possiede una risposta, indistinguibile da quella che darebbe un parlante cinese competente. La domanda è: il computer comprende davvero il cinese o si limita a simularne la comprensione?201 Per rispondere Searle ipotizza di trovarsi in una stanza con una

versione cartacea del programma che consente al computer di parlare il cinese: un testo che associa a determinati input (per esempio “Ciao, come va?” in cinese) determinati output (per esempio “Tutto bene grazie, tu?” in cinese). Ogni volta che riceve da fuori dalla stanza un foglio con un certo ideogramma, pur senza capirlo, Searle può cercare nella versione cartacea del programma quell’ideogramma e rispondere. Il programma infatti associa a ogni domanda (incomprensibile a Searle) un risposta (altrettanto incomprensibile). Per tutte le domande in cinese che riceve, Searle può individuare risposte adeguate e consegnarle scritte su un foglio di carta al parlante cinese che si trova fuori dalla stanza. Dal momento che né Searle né tantomeno il lungo elenco stampato di ideogrammi comprendono il cinese, va escluso che un computer che esegue il programma in questione comprenda il cinese. Un computer può essere intelligente nello stesso senso in cui un libro può essere intelligente: è intelligente ai nostri occhi, se lo comprendiamo, ma non perché intrinsecamente dotato di coscienza.

201 La domanda sentita oggi fa sorridere: tutti noi abbiamo nelle nostre tasche computer capaci di rispondere a comandi

vocali in cinese come in ogni altra lingua. Non per questo pensiamo che i nostri telefoni siano dotati di coscienza. Il punto teorico sollevato però è ancora importante.

Dire il contrario rappresenterebbe una forma di animismo, al pari di postulare stati di coscienza nelle pietre o nel vento202.

Nell’esempio di Canale [2015, p. 95], l’esperimento mentale del “giudice nella stanza degli esperti”, il giudice si serve dell’esperto come l’uomo nella Chinese room si serve del libro che associa domande e risposte in cinese. Il giudice deve applicare una disposizione tecnica secondo cui un certo composto chimico XYZ è vietato. Il giudice, che non sa nulla di chimica, è chiamato a verificare se il Peridile, un prodotto sospettato di contenere XYZ, rientri nel campo di applicazione della norma. Allora si rivolge a un chimico che gli comunica che il Peridile contiene in effetti XYZ e conclude, sulla base della relazione tecnica fornita da quest’ultimo, che il Peridile è vietato. Dal momento che il giudice non sa che cos’è XYZ (né sa cos’è il Peridile) non si può dire che abbia interpretato il diritto. In casi come questi, il giudice delega la sussunzione all’esperto. Manipola significanti senza comprenderne i significati. Apprende dal legislatore che “XYZ è vietato” (ma non capisce fino in fondo la disposizione perché non sa cosa significa “XYZ”), apprende dall’esperto che “il Peridile è XYZ”; conclude per modus ponens che il Peridile è vietato. Simula la comprensione del diritto, come l’uomo della Chinese room simula la comprensione del cinese.

Perché tutto questo però dovrebbe essere un problema? Dopotutto, servendosi dell’esperto, il decisore incarna l’ideale illuminista di giudice bocca della legge: perfettamente terzo e imparziale, perfettamente fedele alla volontà espressa nel testo normativo, capace di applicare il diritto senza dover esprimere alcun giudizio discrezionale. Peraltro, l’omino nella Chinese room, se esegue correttamente il programma, realizza esattamente gli stessi output di un parlante cinese competente. Se le cose stanno così, perché il giudice dell’esempio di Canale non dovrebbe essere in grado di applicare la legge correttamente? Secondo Canale, il problema sta nel fatto che l’opacità della norma agli occhi del giudice gli impedisce di confrontarla con il resto dell’ordinamento e quindi di rilevare e risolvere tipici problemi interpretativi:

Questo problema ostacola l’esecuzione di una serie di attività intellettuali, di ragionamenti e di scelte pratiche normalmente svolte dal giudice, di fatto delegando la loro esecuzione a soggetti o organismi tecnici extra-giuridici.

Più precisamente, il giudice nella stanza degli esperti non può:

202 Il tema della Chinese room è ancora molto discusso nell’ambito della filosofia della mente. Per una ricostruzione del

1) ricavare da una medesima disposizione norme diverse da quelle il cui contenuto è determinato dagli esperti (l’opacità occulta l’ambiguità delle disposizioni normative);

2) stabilire se la norma si applichi a tutte le sotto-classi della fattispecie regolata (l’opacità occulta la generalità);

3) stabilire se la norma si applichi a tutte le situazioni che disciplina nei casi in cui tali situazioni sono molto eterogenee tra di loro (l’opacità occulta la genericità);

4) accertare se la norma il cui contenuto è individuato dagli esperti ammetta casi borderline (l’opacità occulta la vaghezza);

5) giustificare il contenuto ascritto a una disposizione normativa sulla base di argomenti interpretativi diversi da quello dell’interpretazione tecnico-letterale;

6) ricorrere a concetti e distinzioni dottrinali per costruire norme implicite; 7) estendere analogicamente l’applicazione della norma a casi simili; 8) identificare l’insorgere di antinomie tra la norma opaca e altre norme appartenenti all’ordinamento;

9) evitare l’insorgere di lacune normative con riguardo a fattispecie contigue;

10) adeguare il contenuto delle norme ai principi dell’ordinamento [Canale, 2015, p. 105].

Nei prossimi paragrafi, vorrei offrire un’analisi complementare rispetto a quella fornita da Canale. Vorrei mostrare che il problema che Canale descrive sotto l’etichetta di opacità normativa può essere anche visto come una vera e propria fallacia da parte del giudice. Per fare questo, devo riprendere un argomento già toccato nel capitolo precedente: la divisione del lavoro linguistico.

2. La deferenza semantica