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CAPITOLO I: LA DEFERENZA EPISTEMICA NEL PROCESSO

3. La divisione del lavoro epistemico

3.3. La mente estesa

Tesi analoghe sono state esplorate anche in ambito filosofico. Già alla fine degli anni novanta, Andy Clark e David Chalmers [1998, p. 7 ss.], in un loro noto contributo sulla nozione di mente estesa, sostenevano che la capacità degli uomini di immagazzinare informazioni ha beneficiato in modo considerevole dalla loro capacità, per così dire, di esternalizzare il contenuto della propria mente. L’uomo, cioè, si sarebbe evoluto in modo da massimizzare la razionalità nell’organizzazione della conoscenza, riducendo il carico mnemonico e sfruttando elementi esterni alla memoria biologica quale supporto di informazioni43. Secondo Clark e Chalmers, elementi interni ed esterni al cervello

interagiscono in un processo funzionalmente unitario, tanto che sarebbe illegittimo considerare il sistema cognitivo di ogni individuo limitato ai processi che hanno luogo all’interno della sua scatola cranica44.

delle funzioni cognitive, come ad esempio la formazione dei concetti, non possono essere studiate indipendentemente da funzioni più marcatamente corporee come il movimento, la propriocezione, la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto eccetera. Da questa teoria ne emerge un’altra: la tesi della embedded cognition che mostra che la mente dipende nel suo funzionamento dall’ambiente fisico e sociale in cui opera: l’evoluzione umana ha sviluppato strategie per scaricare il lavoro cognitivo del cervello sull’ambiente. La tesi della extended cognition infine è la tesi secondo cui la cognizione stessa si estende oltre i limiti di un singolo organismo. Secondo questa prospettiva, non solo l’ambiente fisico e sociale è necessario per il funzionamento del sistema cognitivo di un agente, ma si può addirittura dire che tali elementi ambientali siano costitutivi del sistema cognitivo stesso. Per una panoramica su questo tema, cfr. Wilson [2011].

43 I due autori insistono sul vantaggio evolutivo che questa esternalizzazione comporta:

“It certainly seems that evolution has favoured onboard capacities which are especially geared to parasitizing the local environment so as to reduce memory load, and even to transform the nature of the computational problems themselves” [Clark e Chalmers, 1998, p. 11].

44 Non c’è una distinzione netta tra l’utilizzatore e i suoi strumenti:

“Much of what we commonly identify as our mental capacities may […] I suspect, turn out to be properties of the wider, environmentally extended systems of which human brains are just one (important) part. This is a big claim, and I do not expect to convince the skeptics here. But it is not, I think, quite as wild as it may at first appear. There is, after all, a quite general difficulty in drawing a firm line between a user and a tool. A stone held in one's hand and used to crack a nut is clearly a tool. But if a bird drops a nut from the air so that it will break on contact with the ground, is the ground a tool? Some birds swallow small stones to aid digestion—are the stones tools, or, once ingested, simply parts of the bird? Is a tree, once climbed to escape a predator, a tool? What about a spider's web? Public language and the props of text and symbolic notation are, I suggest, not unlike the stones swallowed by birds. The question "Where does the user end and the tool begin?" invites, in both cases, a delicate call” [Clark, 1997, p. 214-215]. Contro la tesi che la dipendenza funzionale dei processi cognitivi e mnemonici individuali dalle percezioni dell’ambiente esterno giustifichi la nozione di mente estesa così come concepita da Clark e Chalmers, cfr. Marconi [2005].

Uno degli esempi presentati da Clark e Chalmers è quello di un uomo affetto da Alzheimer, Otto, che si serve di un taccuino per annotare tutto ciò che dimentica. Il taccuino svolge per Otto la medesima funzione cognitiva della memoria biologica, così come una protesi in alluminio può svolgere la stessa funzione di una gamba. La scrittura in effetti gioca un ruolo fondamentale nella esternalizzazione delle conoscenze, ed è presumibilmente uno degli elementi che spiega la persistente capacità dell’umanità di supportare un continuo ed esponenziale incremento delle proprie conoscenze pur a fronte di un’immutata capacità mnemonica di ciascun cervello umano. L’associazione arbitraria tra segni grafici e significati consente infatti una forte economia nel ricordare e elaborare dati: il semplice fatto di memorizzare l’alfabeto ci consente di non dover ricordare tutte le informazioni scritte di cui disponiamo. Ma, come è stato sostenuto45, anche la divisione del lavoro epistemico può essere

ricondotta al modello della mente estesa46. La mente di ciascun membro di una comunità umana si

serve sistematicamente delle menti di altri membri quali fonte di informazioni e come strumento di conservazione ed elaborazione di dati. Le conoscenze, infatti, non sono distribuite in modo omogeneo tra i membri della nostra specie, ma sono ripartite in modo non-ridondante attraverso una divisione sempre più diversificata delle competenze culturali dei singoli individui, e i processi cognitivi di ciascun individuo dipendono per il loro funzionamento dai processi cognitivi che hanno luogo in buona parte in cervelli altrui47.

45 Sul tema della socially extended mind, v. ad esempio Gallagher [2013], il quale peraltro fa proprio l’esempio della

pratica del diritto come processo cognitivo socialmente distribuito: “Legal practices, the formation of legal judgments, the administration of justice, the application of law to particular cases, are, among other things (such as exercises of power) cognitive. They do not, however, happen simply in the individual brains of judge, jury, defense attorney, prosecutor, etc. Of course we usually think of judgments as happening in the privacy of one’s own head. But some judgments depend on extra-neural practices and processes that guide them or that allow the manipulation and management of a large amount of empirical information” [Gallagher 2013, p. 6].

46 Va notato che la mente altrui può avere, un po’ come accade nel romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, esattamente

la stessa funzione di un testo scritto. Lo mette in luce la teoria di Maurizio Ferraris, secondo cui la costruzione della realtà sociale ha luogo mediante iscrizioni che possono essere compiute indifferentemente su supporti materiali o supporti umani: “L’Iscrizione è la registrazione idiomatica dell’atto […] anche semplicemente nella tabula che sta nella testa dei due contraenti” [Ferraris, 2007, p. 271]. L’ontologia sociale fondata sul concetto di documentalità è più estesamente sviluppata in Ferraris [2009].

47 Come il funzionamento delle api non è spiegabile in modo accurato senza guardare all’intero alveare, così in

funzionamento della mente umana non è spiegabile in modo accurato guardando ad un unico umano. Gli umani operano come un superorganismo in cui i processi cognitivi molto spesso non iniziano e terminano in un unico cervello ma si sviluppano in modo ripartito e condiviso tra più individui: “The human mind is not like a desktop computer, designed to hold reams of information. The mind is a flexible problem solver that evolved to extract only the most useful information to guide decisions in new situations. As a consequence, individuals store very little detailed information about the world in