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CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

1. Le condizioni della deferenza epistemica

1.1. Riduzionismo e antiriduzionismo

Tradizionalmente si ritiene che “conoscere” significhi, in una delle sue accezioni principali74, credere

nella verità di proposizioni effettivamente vere, in modo giustificato75. Il fatto che le credenze vere

che otteniamo leggendo libri, ascoltando quello che ci dicono i professori all’università o facendo delle ricerche su internet possano, almeno ad alcune condizioni, essere qualificate come “conoscenze” è abbastanza pacifico nell’ambito dell’epistemologia della testimonianza. È da sempre controverso invece a quali condizioni le credenze che otteniamo in questi modi siano giustificate e quindi a quali condizioni tali credenze, se vere, contino come effettive conoscenze. Tradizionalmente, il campo è diviso in due fazioni: riduzionisti e antiriduzionisti.

74 La parola “conoscenza” può assumere almeno tre significati, solo parzialmente correlati. Nelle frasi “Conosco Londra”,

“Conosco l’inglese” e “Conosco la risposta alla domanda che mi hai fatto” la parola “conosco” ricorre in tre accezioni diverse. In “Conosco Londra”, “conosco” indica conoscenza diretta, ossia la relazione percettiva con un oggetto; in “Conosco l’inglese”, indica conoscenza competenziale, ossa la capacità di compiere delle azioni; in “Conosco la risposta alla domanda che mi hai fatto” indica conoscenza proposizionale, ossia un particolare tipo di atteggiamento proposizionale [Vassallo, 2005, pp. 135-136]. L’accezione di cui si è tradizionalmente occupata la filosofia della testimonianza è l’ultima.

75 Tutte le conoscenze, intese come conoscenze proposizionali, sono credenze vere e giustificate. Questa però non è una

definizione esaustiva. Fissa delle condizioni necessarie, ma non delle condizioni sufficienti. In un famosissimo articolo di sole tre pagine, intitolato Is Justified True Belief Knowledge?, l’inglese Edmund Lee Gettier [1963] respinse in modo molto convincente la tesi un tempo tradizionale che giustificatezza e verità bastino per qualificare una credenza come una conoscenza. Il professor Gettier mostrò che si possono immaginare degli scenari, che nel dibattito epistemologico oggi vanno sotto il nome di Gettier cases, che evidenziano come un test basato su questi due soli elementi finirebbe per dare molti falsi postivi di conoscenza. Sulla base di questa definizione, finiremmo, cioè, per qualificare come conoscenze molti stati mentali che nessuno di noi sarebbe disposto a considerare conoscenze. Esempio mio: immaginate di essere un malvivente che dopo avere rapinato una vecchietta, armato di una pistola, si dà alla fuga. Siete inseguiti dalla polizia e trovate rifugio in un Luna Park che ospita un labirinto di specchi. Entrate nel labirinto. Ad un certo punto davanti a voi vedete l’immagine di un poliziotto. Credete che davanti a voi ci sia un poliziotto e quindi sparate. Lo specchio si infrange e dietro di lui compare un altro poliziotto che stramazza al suolo colpito dalla pallottola. Prima di sparare, credevate che davanti a voi ci fosse un poliziotto. La credenza era giustificata. Ed era vera. Ma il poliziotto che avete ucciso non è quello che avete visto. Quello che avete visto era alle vostre spalle e adesso vi sta arrestando. Credevate che davanti a voi ci fosse un poliziotto, avevate ragioni per credere che davanti a voi ci fosse un poliziotto ed era vero: davanti a voi c’era un poliziotto… eppure non avevate conoscenza di questo fatto. Seguendo l’insegnamento di Gettier, per evitare equivoci dovremmo dunque dire: le conoscenze non sono, ma rientrano nell’insieme delle credenze vere e giustificate. Per una discussione delle varie possibili soluzioni al problema proposto da Gettier cfr. Vassallo [2003, pp. 36 ss.].

Secondo i riduzionisti, come David Hume, la testimonianza può essere considerata una fonte di conoscenza, ma non è mai una fonte primaria di conoscenza. Il fatto che un soggetto esprima in modo intelligibile p, impegnandosi alla verità di p, può essere una buona ragione per credere nella verità di p, ma lo è solo a condizione che alcuni ragionamenti, compiuti in prima persona da chi riceve la testimonianza, giustifichino la correlazione tra l’impegno del testimone e la credenza del ricevente. Il ricevente non può presupporre questa correlazione, ma deve constatarla attraverso ragionamenti autonomi. In genere, si tratterà di ragionamenti di tipo induttivo76. Per esempio: normalmente quando

il mio medico mi dice che un certo farmaco mi farà guarire, guarisco; normalmente, quando chiedo a una persona che porta spasso il cane delle indicazioni stradali, riesco ad ottenere delle informazioni che si rivelano corrette e che mi consentono di arrivare a destinazione; normalmente, quando un professore dell’Università di Bologna scrive del suo campo di studi, non viene smentito dai fatti che io ho modo di osservare. Il riduzionismo si chiama in questo modo perché riduce la conoscenza ottenuta per mezzo della testimonianza a conoscenza ottenuta da altre fonti considerate più fondamentali77: percezione, memoria, introspezione, capacità inferenziali (induttive, deduttive o

abduttive) individuali del ricevente78. Anche i riduzionisti però – vale la pena di sottolinearlo –

76 Più precisamente, secondo Hume, facciamo delle generalizzazioni induttive per individuare dei tipi di testimonianze

affidabili e dei ragionamenti deduttivi per giudicare affidabili specifiche testimonianze riconducibili a quei tipi. La nostra fiducia nella testimonianza deriva da “no other principle than our observation of the veracity of human testimony, and of the usual conformity of facts to the reports of witnesses. It being a general maxim, that no objects have any discoverable connexion together, and that all the inferences, which we can draw from one to another, are founded merely on our experience of their constant and regular conjunction; it is evident, that we ought not to make an exception to this maxim in favour of human testimony, whose connexion with any event seems, in itself , as little necessary as any other” [Hume, 2007, p. 80]. Rielaborando il pensiero di Hume, Faulkner schematizza il ragionamento che dobbiamo fare prima di risolverci a credere a quanto ci è stato detto da qualcuno in questo modo: “First, we can judge that any given testimony t belongs to a certain type of testimony. We clearly distinguish between different types of testimony; doctors, for instance, are trusted more than apothecaries. Second, we can judge whether or not types of testimony are credible. Our experience enables us to form this judgement because, for a certain type of testimony T, we can observe the correlation between expressions of type T testimony and the states of affairs which make the proposition expressed in each case true. Third, we can directly infer the credibility of testimony t from these generalisations. Thus justification is conferred by the following syllogism: testimony t is testimony of type T; type T testimony has been established to be credible; therefore testimony t is credible" [Faulkner, 1998, p. 305]. Per un’originale interpretazione antiriduzionista del pensiero di Hume, v. Welbourne [2002].

77 Senza il supporto di queste altre fonti, la mera dichiarazione del testimone, dunque, non è una buona ragione credere

alla verità della proposizione che ne costituisce il contenuto. Se S crede che p a seguito della testimonianza di T, ma non ha alcuna ragione positiva per credere che T sia affidabile, S non è giustificato nel credere che p. Perciò, non si può dire che S abbia conoscenza di p. Ciò nemmeno se, casualmente, p fosse una proposizione vera.

ammettono che la testimonianza sia una fonte di conoscenza indispensabile ovvero che la deferenza epistemica sia inevitabile nel senso chiarito nel capitolo precedente. Ciò su cui insistono è il fatto che questa deferenza deve basarsi su delle ragioni positive che confermino o suggeriscano la attendibilità della fonte cui si presta ascolto79.

Secondo gli antiriduzionisti, tra i quali spicca il nome di Thomas Reid, la testimonianza è invece una fonte primaria di conoscenza: non dovremmo dubitare delle parole degli altri più di quanto non dubitiamo della nostra percezione, della nostra memoria o delle nostre stesse facoltà di ragionamento. La testimonianza al pari di memoria e ragionamento costituisce una ragione primaria per credere, nel senso che deve essere vinta da altre ragioni primarie per poter essere legittimamente disinnescata80.

79 È possibile distinguere diverse varianti della tesi riduzionista, più o meno esigenti e più o meno plausibili. Come segnala

Lackey [2008, p. 145], per esempio, è possibile distinguere tra un riduzionismo locale e un riduzionismo globale. Il riduzionismo locale condiziona la credibilità di ogni singola dichiarazione all’individuazione di ragioni positive di carattere non testimoniale per ritenere vera quella dichiarazione; il riduzionismo globale invece condiziona la credibilità del dichiarante all’individuazione di ragioni positive di carattere non testimoniale per ritenere generalmente affidabile quel dichiarante. Ancora si può distinguere tra un riduzionismo che vieta di servirsi di ragioni testimoniali per giustificare la credibilità di una dichiarazione testimoniale o di un dichiarante e un altro che ammette che ciò possa accadere purché le ragioni testimoniali utilizzate siano a loro volta riconducibili a ragioni non testimoniali. Lipton [1998, p. 25] distingue tra un riduzionismo delle premesse e un riduzionismo delle regole: il primo richiederebbe di verificare caso per caso l’affidabilità di ogni singolo agente; il secondo richiederebbe di servirsi nell’acquisizione della testimonianza l’impiego delle medesime regole inferenziali che impieghiamo nell’acquisizione di credenze di tipo diverso. Il primo riduce le premesse testimoniali del ragionamento a premesse non testimoniali, il secondo – più plausibile secondo Lipton – si limita a ridurre le regole inferenziali utilizzate nell’acquisizione della testimonianza a regole inferenziali impiegate nel ragionamento autonomo. Un’ultima interessante distinzione è quella tra un riduzionismo ottimista e pessimista. Sia gli ottimisti che i pessimisti condividono la tesi che la riduzione a ragioni primarie sia un requisito necessario per giustificare le ragioni testimoniali, ma gli ottimisti a differenza dei pessimisti sostengono l’ulteriore tesi della effettiva possibilità di questa riduzione [Fricker, 1995, p. 394; Insole, 2000, p. 45]. Nell’epsitemologia contemporanea, sono considerati riduzionisti, per esempio: Adler [1994; 2002], Fricker [1994; 1995; 2008], Lehrer [2006], Lipton [1998], Lyons [1997], Van Cleve [2006].

80 Una delle più chiare formulazioni di questa tesi nella filosofia contemporanea è l’Acceptance Principle di Tyler Burge:

“A person is entitled to accept as true something that is presented as true and that is intelligible him, unless there are stronger reasons not to do so” [Burge, 1995, p. 281]. Sul punto cfr. anche Burge [1997]. Nello stesso senso, Foley, secondo cui: “it can be reasonable for us to grant fundamental authority to others. Hence, it is reasonable for us to be influenced by others even when we have no special information indicating that they are reliable” [Foley, 1994, p. 55]. Nell’epsitemologia contemporanea, oltre a Burge e Foley, sono considerati antiriduzionisti, per esempio: Austin [1946], Coady [1994a; 1994b], Dummett [1994], Evans [1982], Goldberg [2006], Goldman [1999; 2001], Hardwig [1985; 1991], Owens [2000; 2006], Plantiga [1993], Ross [1986], Schmitt [1999], Rysiew [2000], Sosa [2006], Webb [1993], Weiner [2003], Welbourne [1994], Williamson [1996; 2000].

Gli argomenti a sostegno di questa tesi, nella filosofia contemporanea, sono spesso fondati sul rapporto che esiste tra comprendere il linguaggio della comunità in cui viviamo e prestare una fiducia a priori alle testimonianze che provengono da essa [Adler, 2012]. È una concezione del linguaggio di sapore wittgensteiniano che correla l’acquisizione di facoltà linguistiche all’acquisizione di una certa forma di vita. Secondo Coady [1994a, p. 176] e Burge [1995, p. 284], per esempio, la stessa acquisizione del linguaggio presuppone l’acquisizione di una disposizione a priori a trattare le testimonianze altrui come ragioni epistemiche autonome. Ciò non significa che gli antiriduzionisti avallino una assoluta dabbenaggine nella valutazione delle testimonianze. L’antiriduzionismo non è compromesso con la tesi secondo cui la deferenza epistemica debba essere per forza incondizionata. Nelle versioni più diffuse, la giustificazione a credere ai testimoni è condizionata all’assenza di ragioni che ne indichino l’inattendibilità [Leefman e Lesle, 2018, p. 6]. Ciò che caratterizza l’antiriduzionismo è semplicemente la tesi che si debba sempre muovere da una sorta di presunzione di attendibilità.

La differenza tra queste due posizioni sembrerebbe avere un qualche risvolto pratico e per quanto qui interessa anche un certo rilievo nel contesto giurisdizionale. La tesi riduzionista sembra raccomandare, al giudice così come a qualunque altro agente epistemico, un maggiore scetticismo rispetto a quella antiriduzionista. Condiziona la credibilità dell’informatore non alla mera mancanza di ragioni contrarie, bensì alla presenza di ragioni positive che giustifichino la credibilità, come per esempio un vaglio di attendibilità basato su generalizzazioni induttive. La tesi antiriduzionista, per contro, qualifica la deposizione come un fattore di per sé sufficiente ad avallare la verità piuttosto che la falsità della narrazione.