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L’esperto come ausiliario del giudice

CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

2. Due concezioni dell’esperto

2.4. L’esperto come ausiliario del giudice

In base ad una seconda teoria, sostenuta per esempio da Francesco Carnelutti, gli esperti non dovrebbero essere classificati a livello teorico-giuridico come fonti di prova, ma piuttosto come meri ausiliari del giudice. Ciò perché il tipo di apporto conoscitivo che essi offrono è costituto da una serie di informazioni che, isolatamente considerate, non riguardano affatto il processo. Per esempio, il ciclo di vita di un particolare tipo di larva non è un fatto di per sé correlato all’identità dell’autore dell’omicidio di Chiara. Si tratta di un dato che appare estraneo alla vertenza giudiziaria, conoscibile e conosciuto da moltissime persone che non hanno mai avuto a che fare con il processo e i suoi protagonisti. Le informazioni che l’esperto offre al giudice non costituiscono una rappresentazione diretta dei fatti oggetto del processo, ma sono piuttosto degli strumenti di analisi di cui il giudice si può servire per inferire tali fatti. Dice Carnelutti:

[È] diversa nel giudizio la funzione di chi porta al giudice la materia, sulla quale deve operare, e di chi gli porta gli strumenti, con i quali deve operare. La differenza tra perito e testimonio […] è un corollario della differenza che corre tra testimonio e giudice stesso. […] È insomma la differenza che esiste tra la premessa maggiore e la premessa minore del sillogismo; tra norma e fatto. Questa differenza non si può distruggere. Tanto poco si può distruggere che molto spesso lo strumento della deduzione probatoria, negli ordini positivi, è una regola di diritto, anziché una regola di esperienza103[…]. Tanto poco si può distruggere che

la diversa qualità della materia (fatto o regola) reagisce sulla struttura logica dei mezzi di fissazione; il processo, mediante il quale il giudice ricava le regole dai fatti è un processo di induzione, mentre il processo, mediante il quale il giudice desume i fatti dai fatti, è un processo di deduzione; la perizia a differenza della testimonianza, in quanto espone o applica regole, non è una dichiarazione rappresentativa104. Tanto poco si può distruggere che la diversa qualità della materia (fatto o regola)

diretta; ma una regola di inferenza conosciuta per il tramite di una rivista peer-reviewed potrebbe essere più affidabile di un principio appena scoperto in laboratorio dal dichiarante.

103 Qui Carnelutti probabilmente pensa in particolare alle presunzioni legali: norme giuridiche che impongono al giudice

di considerare accaduto un fatto A qualora risulti accaduto un fatto B.

104 Questa spiegazione, che pure è utile per rappresentare schematicamente il rapporto tra giudice ed esperto, è imprecisa.

Richiede almeno due puntualizzazioni. Sebbene il giudice si affidi all’esperto per conoscere regole inferenziali da utilizzare nel ragionamento probatorio, tali regole non necessariamente sono ottenute in modo induttivo: pensiamo alle regole dell’economia che spesso sono il frutto di deduzioni da modelli assiomatici… In secondo luogo, le inferenze che il giudice compie molto spesso non sono deduzioni, ma abduzioni, ossia ragionamenti deduttivamente invalidi. Secondo Pardo e Allen, il ragionamento del giudice si articola in due momenti “generating potential explanations of the evidence and then selecting the best explanation from the list of potential ones” [2008, p. 229]. Se le cose stessero così il ragionamento probatorio avrebbe raramente la struttura di un sillogismo deduttivamente valido ma molto più spesso quella di un sillogismo viziato dalla fallacia di affermare il conseguente. L’espressione “inferenza alla miglior

reagisce irresistibilmente sulla disciplina giuridica dei mezzi di fissazione: la affinità, anzi la promiscuità delle regole di esperienza con le norme giuridiche induce a foggiare per esse un processo di fissazione analogo a quello relativo alle norme giuridiche e antitetico a quello relativo ai fatti [Carnelutti, 1992, p. 80].

In quest’ottica, le perizie non dovrebbero essere considerate mezzi di prova, bensì, come dice Andreas Heusler, semplici mezzi di informazione (Erkenntnismitteln e non Beweismitteln). I periti, infatti, operano sempre su altre fonti di prova, sostituendo il giudice nell’esame di queste in virtù delle loro particolari capacità percettive e inferenziali. Gli esperti, nell’esaminare il materiale probatorio esistente, percepiscono fatti che il giudice non è in grado di percepire (per esempio, il DNA su una pistola) e fanno delle inferenze che il giudice non è in grado di fare. Operano, secondo un’evocativa espressione di Julius Glaser [citata in Orlandi, 2007, p. 7] come una “protesi del cervello del giudice” (“eine Erweiterung des gerichtlichen Gehirns”). A seconda del tipo di attività cognitiva in cui coadiuvano il giudice possono assumere una funzione percipiente o deducente105, ma in ciascuno dei

due casi svolgono attività che lo stesso giudice dovrebbe normalmente compiere in modo autonomo. La compie l’esperto in sostituzione del giudice solo in virtù dell’espresso conferimento di un incarico da parte di quest’ultimo.

Il criterio del conferimento dell’incarico consente a Carnelutti di distinguere anche il perito percipiente dal testimone. Anche il testimone oculare, a suo modo, a volte formula giudizi e applica regole di esperienza a fatti particolari per inferire elementi della propria narrazione dei fatti; però – scrive Carnelutti:

spiegazione” è stata introdotta per la prima volta da Harman, che la definisce in questo modo: “In making this inference one infers, from the fact that a certain hypothesis would explain the evidence, to the truth of that hypothesis. In general, there will be several hypotheses which might explain the evidence, so one must be able to reject all such alternative hypotheses before one is warranted in making the inference. Thus one infers, from the premise that a given hypothesis would provide a "better" explanation for the evidence than would any other” [Harman, 1965, p. 89]. Sulla analogia strutturale tra questo tipo di inferenza e la fallacia dell’affermazione del conseguente cfr. per esempio Artosi [2016, p. 167].

105 Per Carnelutti [1992, p. 71], il perito deducente è l’esperto che opera nel processo in virtù della sua capacità di dedurre

dalla fonte di prova il fatto da provare; il perito percipiente è l’esperto che opera nel processo in virtù della sua capacità di percepire determinati elementi della realtà (siano essi fonti o direttamente oggetto di prova). Nella pratica, queste due attività non sono facilmente distinguibili, perché normalmente ogni singolo esperto le svolge entrambe in modo promiscuo [Cordero, 2006, pp. 785 e 789]. Altre classificazioni sono teoricamente possibili come quella di Florian [1961, p. 116] che propone di suddividere le attività dell’esperto in tre, anziché due, categorie: l’enunciazione di regole inferenziali, l’applicazione delle regole inferenziali al caso concreto e l’ispezione o esame di oggetti o persone su incarico ricevuto.

il testimone, quando deduce, opera fuor da ogni incarico del giudice; al contrario il perito, quando deduce, opera per incarico del giudice, e la sua deduzione è strumento del quale si giova l’attività di quello. La funzione del perito è così, nel campo della deduzione, perfettamente parallela a quella che gli fu da me riconosciuta nel campo della percezione: si tratta di una funzione essenzialmente unitaria; nell’uno come nell’altro il perito appare non una fonte di prova, ma un mezzo di integrazione della attività del giudice [Carnelutti, 1992, p. 83].

È ovvio che il testimone non assista ai fatti oggetto della sua narrazione per incarico del giudice: tali fatti, che fanno parte del thema probandum, non si svolgono durante il processo, ma necessariamente si sono verificati sempre prima e indipendentemente da esso106. La deposizione del perito percipiente

al contrario è relativa a fatti che necessariamente si verificano durante il procedimento (si pensi ad esempio ad un’autopsia). I fatti percepiti dall’esperto non sono oggetto del procedimento e tema di prova, ma sono parte del procedimento stesso.

Come abbiamo già detto, c’è un altro modo, tradizionale in ambito anglosassone, per marcare la differenza di funzioni tra testimone comune ed esperto: dire che il testimone comune è chiamato a semplicemente narrare fatti (oggetto delle sue percezioni) e a differenza, dell’esperto, mai a formulare opinioni (ossia giudizi inferenziali sui fatti). Anche quest’ultima distinzione assimila il ruolo dell’esperto a quello del giudice. Come scrive Ho Hock Lai [2008, p. 261-262],

I testimoni non esperti non possono, nella loro deposizione, estrapolare delle conclusioni a partire da quanto hanno osservato; viene detto loro di attenersi ai “fatti” e non tentare di “usurpare” il ruolo del fact finder. È a quest’ultimo che spetta decidere quali inferenze trarre da quei fatti. Secondo questo argomento, non è solo inutile per il non-esperto esprimere la propria opinione, è anche pericoloso: potrebbe sviare o distrarre il fact finder dal lavoro epistemico che è suo dovere compiere [Ho Hock Lai, 2008, p. 261-262, traduzione mia107].

C’è un senso in cui questo divieto tradizionalmente imposto al testimone comune è assolutamente impraticabile. Ogni narrazione richiede e presuppone giudizi inferenziali [Thayer, 1998, p. 524]. La

106 Sul punto vedi anche Viada [1951, p. 48] il quale individua nell’incarico del giudice il criterio fondamentale di

distinzione teorica tra giudice ed esperto.

107 Testo originale:

“Non-expert witnesses are forbidden, in their testimony, to extrapolate from their observations; they are told to stick to the ‘facts’ and not attempt to ‘usurp’ the fact-finder’s role. It is for the latter to decide what inferences to draw from those facts. The argument has it that it is not only pointless for the non-expert witness to proffer her opinion, it is also dangerous: it might tempt the fact-finder away, or distract her, from the epistemic labour which it is her duty to undertake”.

narrazione del testimone A in base al quale il cadavere di Chiara conteneva delle larve il primo gennaio potrebbe essere il risultato di un’inferenza del tipo: “doveva essere il primo gennaio perché quel giorno avevo ancora i postumi della sbornia presa la sera prima”; oppure “erano delle larve e non dei lombrichi perché erano corte e piccole, e perché i lombrichi stanno nella terra non nei cadaveri” eccetera. L’esistenza di tale regola costituisce però una conferma della tesi secondo cui il testimone comune, a differenza dell’esperto, non è chiamato a deporre in ragione della sua capacità inferenziale, ma solo in ragione del fatto di avere assistito a determinati eventi. Le sue inferenze devono essere limitate al minimo perché il suo ruolo epistemico nel processo non è quello di formulare inferenze. Al contrario, sembra che questa “usurpazione” – come la chiama Ho Lai – del ruolo inferenziale del fact finder non sia un problema nel caso degli esperti. Questi sono chiamati a deporre proprio per usurpare il ruolo del giudice in questo senso.

Tanto la tesi di Stein quanto quella di Carnelutti colgono un aspetto importante del ruolo processuale dell’esperto. Ai nostri fini, non è di particolare rilievo la diatriba definitoria circa il fatto che questi sia giuridicamente qualificabile come fonte di prova oppure no. Ciò che ci interessa sono le similitudini e le differenze tra la funzione epistemica dell’esperto e quella del testimone che emergono da questo dibattito.

3. Due tipi di deferenza epistemica