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Due casi problematici: generalizzazioni dei testimoni ed esperti con funzione percipiente

CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI

3. Due tipi di deferenza epistemica

3.3. Due casi problematici: generalizzazioni dei testimoni ed esperti con funzione percipiente

anche fatti particolari, ma se riflettiamo su ciò che ci porta ad attribuire valore alle dichiarazioni degli uni e degli altri ci rendiamo conto, alla luce delle considerazioni che abbiamo fatto, che si tratta di ragioni diverse. Presupposto per dare credito a un testimone è credere che il fatto che è oggetto della sua dichiarazione sia un fatto particolare (o una serie di fatti particolari) che il testimone ha percepito con i propri sensi; presupposto per credere all’esperto è che il fatto oggetto della sua dichiarazione sia implicato da un fatto generale, che afferisce alla sua area di competenza.

Può accadere che un testimone comune enunci fatti definibili come generali nel senso sopra precisato. Per esempio, il testimone B potrebbe affermare che l’imputato difficilmente poteva essere in Italia il giorno della morte di Chiara perché tutti i membri della sua famiglia, tutti gli anni, durante le vacanze di Natale vanno a New York a trovare dei loro parenti. Questa affermazione ha la struttura di una proposizione generale:

Per ogni x, se x è membro della famiglia dell’imputato, probabilmente x a Natale si trova a New York.

Tuttavia, la proposizione non individua di per sé la conoscenza che attribuisce al dichiarante lo status di testimone: il dichiarante potrà affermare questo solo in virtù di una serie di esperienze passate, di percezioni personali di fatti individuali (l’aver visto dei biglietti aerei, l’aver visto la casa dell’imputato vuota ogni anno, l’aver visto delle fotografie e così via). Sarà onere di chi interroga il

teste verificare quali siano i fatti particolari su quali quest’ultimo fonda la sua affermazione di carattere generale: il credito prestato al testimone sarà condizionato alla verifica della correttezza dell’implicazione del fatto generale dai fatti particolari percepiti120. Un simile controllo non è

normalmente richiesto nel caso della deposizione di un esperto. Il credito prestato alla deposizione dell’entomologa C non potrà essere subordinato a un controllo analitico delle regole inferenziali che consentono a C e in generale alla comunità degli entomologi di formulare giudizi generali sulla specie calliphora vomitoria. Un approfondimento di questo tipo richiederebbe, in sostanza, al giudice e alle parti di diventare a propria volta esperti in entomologia, frustrerebbe il senso stesso di convocare un esperto a deporre e sarebbe del tutto irragionevole in termini di economia processuale.

D’altro canto, può accadere che un esperto operi in un processo enunciando fatti particolari che, come un testimone comune, ha percepito. È il caso di quello che Francesco Carnelutti chiamava perito percipiente. Tuttavia, anche quando l’esperto assume questa funzione percipiente, a differenza del testimone comune, ha cittadinanza nel processo non in virtù dell’esperienza percettiva oggetto della sua narrazione121. Le esperienze percettive del perito (l’esame di determinati campioni,

l’osservazione di un cadavere, la lettura di un documento…) normalmente riguardano fatti presenti, contemporanei al processo. Non sono le esperienze di fatti irripetibili del passato di cui solo l’esperto può avere memoria. Sono esperienze a cui lo stesso giudice in teoria potrebbe facilmente avere accesso diretto. Ciò che al giudice manca e che l’esperto può offrire è la capacità di inferire da quelle esperienze accessibili, in virtù della conoscenza di un fatto generale, un fatto particolare inaccessibile al profano. Per esempio, il giudice che chiama un perito con funzione percipiente ad esaminare un quadro di Caravaggio per testarne l’autenticità non è incapace di vedere un quadro di Caravaggio, ma

120 Sono grato al professor Timothy Endicott per questa osservazione.

121 In questa frase, il sintagma “oggetto della sua narrazione” è fondamentale. Ci sono infatti degli esperti che sono tali

solo in virtù di esperienze percettive pregresse. Come ho già detto in una nota precedente si tratta di quelli che Coady [1994a, p. 279] chiama “empirics”. Un esempio di empiric potrebbe essere Margarita Arpizarelli, la lavandaia che testimoniò nel processo agli untori celebrato a Milano nel 1630 (cui Manzoni si ispirerà per la sua Storia della colonna

infame). La lavandaia è chiamata verificare che una certa sostanza fosse un normale residuo del miscuglio di acqua e

cenere usato per fare il bucato (ranno, in italiano; smoglio, nel lessico della lavandaia) e depone: “signore no, che questo smoglio non è puro, ma vi è dentro delle forfanterie, perché il smoglio puro non ha tanto fondo, né di questo colore, perché lo fa bianco bianco, e non è tanchente come questo”. Ricavo questo stralcio degli atti processuali da Di Renzo Villata [2011, p. 432]. La lavandaia depone descrivendo ciò che ha davanti agli occhi, ma ciò che, agli occhi del giudice, rende preziosa la sua deposizione non è di per sé il fatto che rappresenti la sostanza esibita, ma il fatto che questa percezione sia messa in relazione con altre percezioni pregresse.

piuttosto è incapace di vederlo come un quadro di Caravaggio122. Il giudice che chiede al medico di

diagnosticare l’emorragia cerebrale della persona offesa non è letteralmente incapace di vedere i sintomi dell’emorragia cerebrale ma semplicemente non è in grado di vederli come sintomi di emorragia cerebrale. L’esperto, anche se assume la veste di perito percipiente, ha pur sempre la funzione di compiere inferenze123. Per esempio, l’esperto di Caravaggio avrà la funzione di inferire

122 Wittgenstein nota che il verbo “vedere” – ma si potrebbe dire la stessa cosa anche di altri verbi di percezione – si può

usare in due modi diversi: per indicare azioni o affezioni distinte. Una cosa è vedere x, un’altra è vedere x come y. Nell’esempio fatto da Wittgenstein, una cosa è vedere un volto, un’altra è vedere, osservando un volto, la somiglianza di esso con un altro volto [Wittgenstein, 1967, pt. II, XI]. Il primo senso di “vedere” indica una mera percezione (vederemp),

il secondo senso indica una percezione accompagnata da un’interpretazione (vederei).

Ora, si potrebbe obiettare a quanto dico osservando che molte volte anche il testimone comune è convocato a processo non solo per il fatto di aver vistomp qualcosa, ma anche per il fatto di aver vistoi qualcosa, cioè aver riconosciuto una cosa

come qualcos’altro. Si pensi al caso del testimone che dichiara di aver visto il proprio vicino di casa uscire dalla sua porta

il 12 marzo alle 20.30. Il privilegio epistemico del testimone ricognitore non sarà costituito solo l’evento percettivo avvenuto il 12 marzo alle 20.30, ma anche ma anche dalla sua capacità pregressa di riconoscere il proprio vicino di casa

come tale. Casi come questo mostrano che la distinzione tra testimone comune ed esperto con funzione percipiente è in

effetti sfumata. Tuttavia, anche in questo ultimo esempio, ciò che qualifica il testimone come tale e rende utile la sua deposizione non è solo la sua conoscenza pregressa del vicino, ma l’irripetibile evento percettivo del 12 marzo. Nel caso del perito percipiente, invece, l’evento percettivo è normalmente ripetibile e banale: il quadro di cui si contesta l’originalità è disponibile al giudice e alle parti; le foto del cadavere roso dalle larve è agli atti. Ciò che legittima l’esperto a deporre non è l’evento percettivo, ma la sua capacità di interpretarlo. Inoltre, cosa più importante, nel caso del testimone la capacità di riconoscimento dovrà essere giustificata da una pluralità di percezioni pregresse di quello stesso individuo, mentre nel caso dell’esperto la capacità di riconoscimento potrà derivare anche da ragioni non-percettive (inferenziali o testimoniali).

123 Non intendo qui presupporre una particolare precisa filosofia della percezione o impegnarmi in relazione al problema

kantiano di come il nostro intelletto operi la categorizzazione del molteplice fenomenico in oggetti. Ciò che intendo dire è una cosa piuttosto banale. Si tratta di intendersi sulla nozione di “percezione”. Quando si parla di perizia “percipiente” normalmente non si vuole alludere ad un accesso privilegiato dell’esperto a certe esperienze sensoriali, ma piuttosto alla capacità di desumere qualcosa da certe esperienze sensoriali. D’altro canto, non voglio affatto dire che questo tipo di inferenza sia agevolmente verbalizzabile o coscientemente sia tradotta in parole dall’esperto nel momento in cui la compie. Come scrivono Collins e Evans, l’expertise è spesso possibile solo in virtù di una conoscenza tacita: “Mastering a tacit knowledge-laden specialism to a high level of expertise, whether it is car-driving or physics, ought, then, to be like learning a natural language—something attained by interactive immersion in the way of life of the culture rather than by extended study of dictionaries and grammars or their equivalents” [Collins e Evans, 2007, p. 23]. Sulla nozione di conoscenza tacita cfr. Polanyi [1962, pt. II]. Conoscenza tacita, non verbalizzabile, è – secondo Gilbert Ryle – tutto il cosiddetto know how: “intelligent performance need incorporate no ‘shadow-act’ of contemplating regulative propositions” [Ryle, 1945, p. 2]. Sul punto v. anche Ryle [2009, pp. 14-47]. Che però la knowlege how non sia, come pensa Ryle, a sua volta un tipo di conoscenza proposizionale è assai discutibile, cfr. Ginet [1975]; Jason e Williamson [2001]; Rosefeld [2004]; Fantl [2012].

dalle caratteristiche del quadro la sua appartenenza alla categoria dei quadri di Caravaggio; il medico avrà la funzione di desumere da determinati sintomi l’appartenenza della lesione della persona offesa alla categoria delle emorragie cerebrali. La conoscenza in virtù della quale l’esperto è chiamato a operare nel processo riguarda pur sempre la correlazione astratta tra proprietà: per esempio, determinate sfumature di colore e il tipo di pigmenti usati in Italia a cavallo tra Cinquecento e Seicento; determinati sintomi e l’emorragia cerebrale.

Una distinzione rigida tra funzione percipiente e deducente è difficile da delineare. Anche nell’esempio discusso precedentemente, quello dell’entomologa che guarda le fotografie, il ruolo percipiente si compenetra con quello deducente. In entrambi i casi, l’entomologa è in grado di operare come esperta in virtù della sua capacità di formulare inferenze sulla base della conoscenza di fatti generali. Il giudice non si affida all’entomologa solo per giustificare l’inferenza che dato che le larve di calliphora si sono sviluppate, allora la morte deve essere avvenuta in un certo lasso di tempo, ma anche per riconoscere che dato che le larve delle fotografie presentano determinate caratteristiche allora sono larve di calliphora. Quando l’entomologa osserva il cadavere nella fotografia e osserva particolari insetti su di esso, percepisce un fatto particolare che è inaccessibile ai profani. Ma ciò non perché il giudice e le parti non abbiano accesso all’esperienza percettiva delle fotografie, ma perché l’entomologa a differenza del giudice e le parti è in grado di inferire dalle caratteristiche di quegli insetti, visibili anche da una persona digiuna di entomologia, il fatto che appartengano ad una certa specie.