CAPITOLO II: TESTIMONI ED ESPERTI
3. Due tipi di deferenza epistemica
3.2. Inferenza e ostensione
Della diversa funzione epistemica di esperti e testimoni comuni e della differenza tra le tipologie di fatti che abbiamo chiamato generali e particolari, ci si rende conto anche sulla base di alcune considerazioni semantiche riguardo alle loro deposizioni. La prova di un fatto è un’attività argomentativa epistemicamente complessa che si esprime attraverso sequenze di atti linguistici. Si tratta di atti linguistici assertivi, cioè atti linguistici coi quali un parlante si impegna alla verità di certe proposizioni114. Come ha notato Giovanni Tuzet [2016a p. 143; 2016b, p. 127; 2018, p. 1], questa
attività argomentativa complessa si compone sempre di due elementi: un’attività ostensiva e un’attività inferenziale. Tuzet sostiene perciò due tesi riguardo alla prova:
Secondo la prima tesi, la prova è oggetto di un’ostensione, dove per “ostensione” si intende l’atto del mostrare, dell’esibire, dell’indicare a qualcuno in un contesto dato. La prova in senso giuridico è costituita cioè da un qualcosa di materiale o percepibile che può essere mostrato a chi è presente nel contesto. Per la seconda tesi, invece, la prova è oggetto di un’inferenza. Detto più precisamente, la prova è il contenuto di una premessa che, assieme ad altre premesse, conduce a una conclusione in merito ai fatti in esame; oppure il contenuto di una conclusione a cui conducono date premesse. L’oggetto dell’ostensione deve essere “tradotto” cioè in termini linguistici e concettuali in modo da divenire il contenuto di una premessa o di una conclusione in merito al caso [Tuzet, 2016b, p. 128].
Per argomentare che una certa persona è colpevole o innocente, per esempio, è necessario provare una serie di proposizioni che riguardano quella persona e la formulazione di tali proposizioni imporrà inevitabilmente un’attività in qualche modo ostensiva. I testimoni, le parti e il giudice si riferiranno a circostanze, armi del delitto, indumenti, cose e persone sempre attraverso espressioni caratterizzate da una semantica in senso lato indicale115. D’altro canto, per procedere nel ragionamento probatorio
è anche necessario correlare gli eventi specifici, le attività, le cose e persone, che sono state individuate con atti ostensivi, ai fatti giuridicamente rilevanti. Per fare questo, sono in genere necessarie inferenze e per il compimento di queste ultime è in genere necessario ricondurre quegli eventi, quelle attività, quelle cose o persone a proposizioni generali esprimibili con descrizioni116.
114 Sul punto torneremo nell’ultimo paragrafo di questo capitolo.
115 Gli stessi nomi propri dei protagonisti del processo sono definiti attraverso procedimenti che possono essere considerati
ostensivi: per esempio, la fotografia in una carta d’identità è un’istanza di quello che Quine chiama “deferred ostension” [Quine, 1969, p. 40].
116 Nell’esempio fatto, le larve presenti sul corpo di Chiara (“quelle!” che il testimone affermerà, puntando il dito sulla
fotografia, di aver osservato sul cadavere in una certa data) dovranno essere sussunte in una qualche descrizione definita (identificandole per colore, lunghezza, diametro eccetera) che permetta di qualificarle sul piano tassonomico. Solo questa
Ebbene, si può dire che la deferenza verso testimoni sia necessaria nel processo soprattutto per il compimento dell’attività che Tuzet chiama ostensiva (per dire cose come: “Questa persona ritratta in questa fotografia il primo gennaio si trovava sull’argine del fiume ed era morta e coperta di larve”) e che la deferenza verso esperti sia necessaria soprattutto per il compimento per l’attività inferenziale (per dire cose come “Qualsiasi cadavere che si sia ricoperto di larve di calliphora vomitoria, quindi anche quello di Chiara, ha iniziato a decomporsi almeno una settimana prima”). Questo perché la narrazione di fatti particolari tipicamente richiede l’impiego di espressioni deittiche, mentre l’enunciazione di fatti generali non lo richiede.
L’affermazione di un perito secondo cui “La temperatura di fusione del piombo è 327,5 gradi centigradi” rappresenta un fatto generale, facilmente riformulabile come una regola di inferenza che correla determinate proprietà associate alla nozione di piombo alla proprietà di fondere a quella temperatura: “Per ogni x, se x è di piombo, x fonderà a 327,5 gradi centigradi”. Ciò che l’esperto conosce in modo privilegiato rispetto agli altri soggetti coinvolti nel processo è normalmente una mera correlazione tra proprietà: per esempio, tra le proprietà che definiscono il piombo e la proprietà di fondere a quella determinata temperatura. La correlazione conosciuta dall’esperto riguarda entità rappresentabili in modo descrittivo e consente, date determinate informazioni particolari sul caso concreto, di inferire altre informazioni particolari.
L’affermazione di un testimone oculare che “Giovanni ha impugnato la pistola”, al contrario, rappresenta un fatto particolare e non è facilmente descrivibile come una correlazione tra proprietà117.
Non avrebbe senso riformulare la deposizione come un giudizio ipotetico del tipo: “Per ogni x, se x è un Giovanni, x ha impugnato la pistola”. L’informazione che il teste conosce in modo privilegiato rispetto alle parti e al giudice e che giuridicamente giustifica il suo obbligo testimoniale non è una correlazione tra la proprietà di essere un Giovanni e la proprietà di avere impugnato la pistola, bensì una correlazione tra Giovanni e la proprietà di avere impugnato la pistola. Se chiedessimo al dichiarante di dare una definizione di “Giovanni” enunciando le proprietà che caratterizzano un qualsiasi Giovanni come tale, presumibilmente non sarebbe in grado di farlo. Ne darebbe tutt’al più
qualificazione che rappresenta un’astrazione rispetto al caso concreto consente di inferire il tempus commissi delicti e quindi di risolvere il caso.
117 A meno che non si precisi subito che la proprietà che definisce il soggetto della deposizione è sempre una proprietà
individualizzante, che solo quel soggetto possiede. Esempio: “Il soggetto che ha la proprietà di essere stato da me visto il giorno del delitto con in mano la pistola ha anche la proprietà di trovarsi oggi seduto lì sul banco degli imputati”.
una definizione deittica del tipo “l’imputato in questo processo!” o “quello lì seduto in prima fila!”. Se analogamente dovessimo domandare ad un perito di dire che cos’è il piombo ci aspetteremmo da lui o lei di essere in grado di definirlo enunciandone le caratteristiche. Ci aspetteremmo che sia in grado per esempio di indicarne il numero atomico o la temperatura di fusione.
Il fatto particolare narrato dal testimone oculare è descritto con proposizioni in cui soggetto è identificato direttamente o indirettamente da un nome proprio oppure un indicale o comunque un’espressione in senso lato deittica. Il testimone dirà “Chiara era morta”, “il luogo che ho visto è ritratto in questa fotografia”, “l’uomo che ho visto quel giorno è quello seduto lì, sul banco degli imputati”. Come spiega John Searle, infatti, sia i nomi propri sia gli indicali hanno una semantica particolare che li lega a doppio filo con la percezione del parlante. Le condizioni di soddisfazione che determinano il contenuto di espressioni come “Chiara”, “questa fotografia” “quel giorno”, “quello seduto lì” sono costituite dalla memoria di percezioni. Non si può dare una definizione di “Chiara” enunciandone in modo esaustivo le caratteristiche. Per capire il senso in cui una persona usa la parola “Chiara” è necessario capire a quale insieme di esperienze il parlante associa quella parola118.
Analogamente, il significato di “quel giorno” dipende dalla collocazione storica della percezione di cui il testimone ha memoria. Se cerchiamo sul dizionario parole come “questo” o “quello” o “ieri” o “qui”, ciò che troviamo non è una definizione esaustiva del significato che hanno in reali contesti discorsivi. Se cerchiamo la parola “questo” per esempio troveremo scritto qualcosa come “l’oggetto che il parlante sta indicando”. Quella contenuta nel dizionario è un’informazione essenziale per capire il significato della parola, ma di per sé non è sufficiente per capire il reale significato che può avere in un discorso119. Il reale significato naturalmente dipende da chi è il parlante e dalla percezione –
che i partecipanti alla conversazione assumeranno condivisa – dell’oggetto indicato.
118 Può darsi che il parlante che si serve di un nome proprio abbia acquisito la parola da un terzo, senza avere avuto
percezione diretta del suo riferimento di quel nome proprio. Può darsi che io dicendo “Chiara” intenda la persona a cui Anna si riferiva in una certa conversazione. In questo caso, il significato che attribuisco a “Chiara” dipenderà non dalla mia esperienza di avere conosciuto Chiara, ma dalla mia esperienza di avere parlato con Anna. Il significato di un nome proprio x nell’idioletto di un parlante A può dipendere non dall’esperienza diretta del riferimento di x ma dall’esperienza dell’acquisizione di x da un contatto linguistico con un altro palante B. Quando A parla di x lo fa sul presupposto B abbia avuto esperienza diretta del riferimento di x o abbia a sua volta acquisito x da un parlante C. Questo fenomeno è stato notoriamente descritto da Saul Kripke [1980] per sostenere una teoria del significato di tipo esternista. La teoria di John Searle dà di questo stesso fenomeno una spiegazione compatibile con l’internismo. Cfr. Searle [1983, p. 242-261].
119 Kaplan [1989a] chiama questa parte del significato carattere (character), mentre chiama contenuto (content)
Se il testimone dice “ho visto quella persona seduta lì al banco degli imputati il giorno del delitto” esprime una credenza che è relativa a un soggetto che è definito da una sua percezione: sta dicendo “la persona che vedo ora è la stessa persona che vidi allora”. L’uso di queste espressioni deittiche da parte dei testimoni è dovuto al fatto che il testimone deve correlare il soggetto della sua narrazione alla percezione che la giustifica. Searle [1983, pp. 46-48; 2015, cap. II, par. 2.4] spiega, infatti, che la credenza che un soggetto acquisisce per mezzo di una percezione ha condizioni di soddisfazione che sono definite dalla percezione stessa. Per esempio: se vedo una station wagon gialla nel mio garage, acquisisco una credenza relativa ad una proposizione che assume come soggetto non una qualsiasi station wagon con le caratteristiche della station wagon che ho percepito, ma proprio quella station wagon gialla che causa in me la percezione di una station wagon gialla. Le condizioni di soddisfazione della proposizione in cui credo sono dunque: c’è un x tale che 1) è una station wagon gialla nel mio garage e 2) causa in me questa percezione.
3.3. Due casi problematici: generalizzazioni dei testimoni ed esperti con funzione percipiente