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La divisione del lavoro epistemico nell’applicazione del diritto

CAPITOLO I: LA DEFERENZA EPISTEMICA NEL PROCESSO

3. La divisione del lavoro epistemico

3.5. La divisione del lavoro epistemico nell’applicazione del diritto

Quando riflettiamo sul ruolo degli esperti nel processo e ci domandiamo in che misura sia legittimo per un giudice affidarsi alla loro autorità nella soluzione di una controversia giuridica dobbiamo tenere presente tutto questo: la mente umana è fatta per lavorare in modo sociale, benché molto spesso

49 L’intervista è disponibile in podcast sul sito di Scientific American all’indirizzo:

https://www.scientificamerican.com/podcast/episode/nobel-laureate-harry-kroto-the-thre-13-07-25/ (ultima consultazione: giugno 2019).

non ce ne rendiamo conto, a causa del fenomeno psicologico noto come illusione di profondità esplicativa. Lo scetticismo per le credenze che ci derivano dalle capacità inferenziali di altri individui è paragonabile allo scetticismo per le conoscenze che derivano dai nostri sensi o dalla nostra memoria o dalle nostre stesse capacità inferenziali. Si tratta di una posizione interessante sul piano filosofico, di cui naturalmente occorre tenere conto nel valutare il grado di affidabilità delle informazioni di cui ci serviamo. Ma non ci sono argomenti decisivi per privilegiare le conoscenze individualmente acquisite, rispetto a quelle ottenute per il tramite o con l’aiuto dei nostri simili50. Il giudice non può

prescindere, nella valutazione delle prove, dal principio di autorità perché nessuno di noi può prescinderne. La nostra vita epistemica è intessuta di credenze che si fondano sull’autorità degli esperti e questo è parte del funzionamento biologico della cognizione umana per come si è evoluta. Nell’homo sapiens, più cresce la conoscenza, più cresce la divisione del lavoro epistemico.

Per avere un’idea della crescente importanza della figura dell’esperto in sede giudiziaria, pensiamo a come si è evoluto e istituzionalizzato, nel corso della storia, nella penisola italiana, il ricorso al sapere medico da parte dei giudici. Nel diritto romano, la figura del perito medico semplicemente non esiste [Florian, 1961, p. 517]51. Le prime forme di perizia si sviluppano solo nel medioevo, in età comunale:

per lo più si tratta di rudimentali autopsie, ispezioni per l’accertamento dello stato di gravidanza, e in alcuni casi valutazioni della capacità di un soggetto di sopravvivere alla tortura giudiziaria. Il rapporto di collaborazione relativamente stabile che si instaura tra il sistema giudiziario e medici (cerusici di vario livello, ostetriche e barbieri) tra il tardo medioevo e l’inizio dell’età moderna è caratterizzato alle origini da una tendenziale diffidenza della cultura giuridica nei confronti di quella medica. Ancora nel XIV secolo, per esempio, Bartolo da Sassoferrato nel suo Tractatus de vulneribus sostiene che la sentenza criminale fondata su una perizia medica debba essere sempre suscettibile di revisione

50 In ambito filosofico, ci si interroga sul rapporto tra la giustificazione delle conoscenze testimoniali e la giustificazione

di conoscenze non-testimoniali. Si tratta della polemica tra riduzionisti e antiriduzionisti di cui parleremo brevemente all’inizio del prossimo capitolo. Nemmeno i riduzionisti però negano in quanto tali che la testimonianza sia una fonte essenziale di conoscenza, nella maggior parte dei casi più affidabile rispetto all’indagine individuale. Cfr. Adler [2012]. Sul punto torneremo.

51 Ci sono alcuni casi isolati di protoperizia. Il Digesto ammette che il giudice possa ordinare l’inspectio ventris nel caso

il divorziato affermi la gravidanza della moglie e questa la neghi o nel caso la vedova affermi di essere incinta del marito defunto, ma solo nel primo di questi casi l’inspectio deve essere compiuta da delle levatrici (tre), mentre nel secondo caso sono sufficienti cinque donne libere [Dig. XXV, 4, I]: la ratio di deferire l’accertamento a soggetti diversi dal giudice sembra essere più la pudicizia che l’expertise delle donne in fatto di gravidanza. Più assimilabile al concetto moderno di prova per esperti è invece l’intervento del un medico richiesto dal Codex per la riforma dei militari [Codex, XII, 35, 6].

“quia medicina non est certa” [Pastore, 1998, p. 27]52. Già nel secolo seguente, tuttavia, alcuni

regolamenti comunali, come uno di Bologna del 1454, dettano regole precise per l’ammissione del parere medico come prova in casi di omicidio (il parere deve essere concordato da almeno due medici, di almeno trent’anni, tra quelli presenti in un elenco certificato…) [Pastore, 1998, p. 81] e, sempre a Bologna, nel 1636, la morte sospetta di un marchese, il marchese Ruini, darà luogo a una vera e propria battaglia tra esperti circa il suo possibile avvelenamento [Pastore, 1998, p. 94]. Nel Seicento, le Quaestiones medico-legales di Paolo Zacchia53, destinate a influenzare le prassi giudiziarie di tutta

Europa, fanno della medicina legale una disciplina autonoma il cui oggetto è definito da Zacchia con la formula “de rebus medicis sub specie iuris”54. Alcuni temi però restano a lungo esclusi dal campo

di applicazione della perizia medica. Per esempio, benché già criminalisti del Cinquecento, come Prospero Farinacci, sottolineassero l’importanza della perizia psichiatrica per l’accertamento dell’infermità mentale [Florian, 1961, p. 520], fino alla fine dell’Ottocento le perizie in punto di non imputabilità restano molto rare [Pastore, 1998, p. 9]. Sarà l’età del positivismo scientifico, ispiratore in Italia della Scuola Positiva del diritto penale, a mettere in primo piano l’importanza di interpellare la scienza medica anche per la determinazione delle cause psicologiche del reato.

Questi brevissimi cenni sulla progressiva espansione del ruolo dei medici in tribunale servono per stimolare una riflessione. Il progresso scientifico ha via via popolato i tribunali di ogni tipo di specialisti. L’esperto tende a diventare un soggetto istituzionalmente presente in ogni vertenza giudiziaria di qualche rilievo55. La ragione è semplice. Man mano che la cultura umana progredisce,

52 La ragione alla base della diffidenza di Bartolo potrebbe essere però anche un’altra. Lo stesso Bartolo, infatti, questa

volta nel Tractatus de testimoniis, osserva che quando il medico o l’ostetrica depongono non agiscono come testimoni, ma piuttosto come veri e propri giudici [Florian, 1961, p. 519]. L’opera del perito finisce per coartare l’autonomia del giudice nell’esercizio della sua funzione.

53 Sulla monumentale opera di Zacchia, oggi liberamente consultabile su internet [Zacchia, 1751], cfr. anche Pastore e

Rossi [2008].

54 In quest’epoca, il ricorso alla perizia medica si istituzionalizza, ma lo fa adattandosi al contesto inquisitorio del tempo:

l’esperto è un aiutante del giudice, di cui il giudice peritus peritorum può sempre, se vuole, sbarazzarsi senza fornire motivazioni. Nell’epoca barocca ancora “l’ambiente italiano coltiva una retorica del diritto, dove i fatti contano meno delle parole e il gusto tende al gesto declamatorio: nasce da questa cultura parolaia l’iperbole secondo cui ‘iudex est peritus peritorum’” [Cordero, 2006, p. 784].

55 Secondo uno studio condotto già negli anni 1990-1991 nei Tribunali della California, in 95 processi su 100 si è fatto

ricorso alla prova per esperti [Lempert, Gross e Liebmann, 2000, p. 1011] e in un altro studio si stima che si sia fatto ricorso a tale prova nel 1990 in più del 70% dei jury trial civili celebrati negli Stati Uniti [Anderson, Schum e Twining, 2005, p. 270] Va ricordato che negli Stati Uniti solo una minoranza delle azioni processuali danno luogo ad un effettivo processo. Molto più spesso l’azione giudiziaria si conclude con una forma di patteggiamento o transazione (plea

abbiamo sempre più buone ragioni per preferire, nell’accertamento della verità, i ragionamenti di esperti a quelli che ciascuno di noi può compiere in modo autonomo. Poiché scopo istituzionale del processo è l’accertamento della verità di fatti (presupposti di applicazione delle norme)56, la scoperta

di nuovi metodi per la comprensione del mondo non può che creare nuove occasioni in cui è possibile ricorrere a esperti per la determinazione della applicabilità della norma a un caso concreto. La mera possibilità empirica di servirsi di questi nuovi metodi costituisce una ragione pro tanto perché il ricorso a essi sia giudicato giuridicamente o moralmente obbligatorio. Lo sviluppo scientifico produce nel processo un fisiologico “assottigliamento del ‘senso comune’ – cioè delle conoscenze empiriche dell’uomo medio – come serbatoio delle regole di inferenza da utilizzare nel ragionamento probatorio” [Caprioli, 2008, p. 3521]. Non è ormai tanto la natura tecnica che caratterizza il thema probandum a determinare la presenza di consulenti tecnici e periti (ogni tipo di questione di fatto, se esaminata con sufficiente dose di approfondimento oggi richiede il ricorso a conoscenze specialistiche), quanto piuttosto la disponibilità delle parti e dello Stato a investire tempo e denaro per avere una più accurata comprensione dei fatti.

Allen [1994, p. 1160] ritiene che l’unico ostacolo a una (altrimenti desiderabile) adesione al modello educativo sia di carattere pecuniario: educare le giurie potrebbe non essere sempre possibile per ragioni di tempo e risorse. Alla luce di quanto detto, però, c’è da chiedersi se in presenza di maggiori risorse il miglior modo per investirle per un migliore accertamento della verità non sia aumentare il numero di esperti coinvolti, riducendo fino a eliminare del tutto il ruolo di soggetti privi di particolari qualifiche, come giudici e giurati, nella soluzione di questioni di fatto. Come scrive Mirjan Damaška, riflettendo sul futuro prossimo delle pratiche probatorie in sede giudiziaria:

Guardare al futuro oggi significa soprattutto parlare della progressiva adozione di modelli scientifici nell’indagine sui fatti.[…] Parallelamente all’utilizzo di strumenti tecnici, cresce la fiducia nelle valutazioni tecniche degli esperti: è necessario spiegare gli accertamenti che si ottengono utilizzando strumenti

bargaining, nei giudizi penali; settlement nei giudizi civili). Anche in sede di soluzione stragiudiziale delle controversie,

è tuttavia molto comune il ricorso all’esperto.

56 La tesi secondo cui lo scopo ultimo del processo non è l’accertamento della ordinaria verità “materiale” bensì la

definizione di una diversa verità “processuale” (sostenuta come vedremo da Carnelutti e Kelsen, per esempio) non è incompatibile con l’osservazione che quest’ultima sia a sua volta funzione dell’accertamento della verità materiale di determinati fatti. Presunzioni, finzioni e limitazioni normative di vario genere concorreranno insieme ai fatti materialmente accertati nel determinare le affermazioni sui fatti che il giudice è legittimato a includere nella sentenza come presupposto di applicazione del diritto sostanziale e processuale. Contro la tesi che sia legittimo distinguere tra verità materiale e processuale v. ad esempio Ferrer [2005, p. 55-78]. Sul punto torneremo alla fine del secondo capitolo.

complicati, ed occorre stabilire il loro valore probatorio. Ma anche al di là della necessità di ricorrere ad esperti che interpretino la “silenziosa testimonianza” degli strumenti scientifici, è molto più ampia la gamma delle questioni rispetto alle quali vengono ricercate informazioni scientifiche o empiriche per dimostrare i fatti rilevanti della controversia: attualmente sono oggetto di prova molti fatti che un tempo si consideravano informazioni di senso comune che il giudice utilizzava per valutare le prove formalmente prodotte in giudizio [Damaška, 2003, p. 205].

In altre parole, ogni questione di fatto, se ha sufficiente importanza in un processo, oggi viene trattata come una questione tecnica. Questo fenomeno è il chiaro riflesso della divisione del lavoro epistemico che tende ad aumentare col progresso culturale di ogni comunità umana.

4. La deferenza epistemica nel processo