• Non ci sono risultati.

Il significato di “significato” secondo Hilary Putnam

CAPITOLO III: CONCETTI TECNICI E CONCETTI GIURIDICI

2. Gli argomenti degli esternisti

2.1. Il significato di “significato” secondo Hilary Putnam

Per articolare in modo analitico le intuizioni esterniste, bisogna cominciare attaccando la teoria del significato di Gottlob Frege. In un famoso saggio, pubblicato per la prima volta nel 1975, intitolato The Meaning of “Meaning”, Hilary Putnam si propone di fare precisamente questo. Vuole dimostrare che la teoria del significato internista, sostenuta dai “filosofi tradizionali”, si fonda su due assunti logicamente incompatibili. E parlando dei “filosofi tradizionali”, Putnam allude appunto a Frege la cui teoria del significato rispecchierebbe, quantomeno in relazione a questi due assunti, la concezione di “significato” irriflessa più diffusa tra le persone comuni.

Il primo assunto di questa tesi tradizionale è che il senso di una parola è un insieme di condizioni che consentono di identificare ciò a cui quella parola si riferisce. Secondo Frege [2003, p. 19], la parola “significato” ha in realtà due accezioni distinte, benché correlate. Può alludere al concetto astratto veicolato dal parlante, il suo senso, oppure in alternativa alla cosa o all’insieme di cose che soddisfano le condizioni fissate da quel concetto astratto, il suo riferimento160. Il significato di “cane”, per

esempio, nella prima accezione di “significato”, è l’idea di un particolare tipo di mammifero domestico, mentre in una seconda accezione è l’animale stesso cui si fa riferimento161.

160 Frege [2003, p. 23] spiega l’importanza della distinzine senso/riferimento con un bellissimo esempio: quello di

Fosforo ed Espero. I greci usavano la parola “Φωσφόρος” (Fosforo) per indicare l’astro che appare nel cielo al mattino e annuncia il sorgere del sole, mentre usavano la parola “ Ἓσπερος” (Espero) per indicare il primo astro visibile al momento del tramonto. In greco, “Φωσφόρος” viene da “φῶς”, cioè “luce”, e “φέρω”, voce del verbo “portare”, e significa “portatore di luce” mentre “ Ἓσπερος” significa semplicemente “vespro” (e in effetti è una parola etimologicamente legata a “vespro”: lo spirito aspro a inizio parola segnala la caduta del digamma, Ϝ, che nel protogreco pare fosse pronunciato come una v). Per i greci, dunque, i significati di “Φωσφόρος” ed “ Ἓσπερος” erano ben distinti perché corrispondevano a ben diverse condizioni di applicazione: l’una indicava la stella del mattino e l’altra la stella della sera. Senonché, si è scoperto che Fosforo ed Espero sono lo stesso corpo celeste, cioè il pianeta Venere. Senza la distinzione tra senso e riferimento non si riuscirebbe a spiegare perché “Espero è Espero” è una tautologia, mentre “Espero è Fosforo” non lo è.

161 Nella terminologia fregeana, la distinzione tra l’idea significata e l’oggetto cui ci si riferisce si esprime con le parole

“Sinn” e “Bedeutung”, che letteralmente vogliono dire “senso” e “significato”. Io preferisco usare le parole “senso” e “riferimento” in base alla classica traduzione diffusa nella filosofia analitica anglosassone, “sense” e “reference”, per motivi di chiarezza. L’accezione più comune con cui si usa la parola “significato”, infatti, è molto più vicina alla nozione di Sinn piuttosto che a quella di Bedeutung. Per esempio, in italiano, sarebbe sbagliato dire che la parola “unicorno” sia

Il secondo assunto è che il significato (nella prima accezione, che è la più comune, ossia inteso come senso o intensione) è determinato dallo stato psicologico del parlante. Questo perché capire il significato di un segno linguistico equivale a capire l’intento comunicativo con cui quel segno è stato prodotto o viene normalmente prodotto162. L’italiano che dice “cane”, il portoghese che dice “cão” e

il tedesco che dice “Hund” indicano tutti, pur con parole diverse, la stessa classe di animali, perché dicendo quelle pur diverse parole pensano alla stessa cosa: il mammifero peloso, che abbaia, amico dell’uomo.

Ora, – dice Putnam – i due assunti sono contraddittori. Non si può contemporaneamente sostenere che il senso di un termine è univocamente associato ad un riferimento e che il senso è un insieme di condizioni che il parlante competente si raffigura nella sua testa. Se questi due assunti fossero entrambi veri, lo stato psicologico del parlante sarebbe univocamente associato ad un riferimento, ma ciò non è vero. Di questo ci si rende conto facendo un esperimento mentale [Putnam, 1979, pp. 223- 227].

Immaginiamo un pianeta esattamente come la Terra – chiamiamolo Terra gemella – in cui il liquido di cui sono composti i laghi e i fiumi, col quale le persone si dissetano e che tutti chiamano “acqua” non ha la struttura chimica H2O bensì una diversa struttura XYZ. Nonostante la sua diversa

composizione chimica, XYZ ha caratteristiche superficiali indistinguibili rispetto a quelle di H2O: è

un liquido incolore, inodore, insapore, utile per irrigare i campi e dissetante. Un terrestre, con

priva di significato, se quello che intendiamo è semplicemente che non esistono animali qualificabili come unicorni. A quanto pare, la scelta di questa traduzione, ormai divenuta classica, fu presa collegialmente, nei primi anni settanta, alla casa editrice Blackwell, da Micheal Dummett, Peter Geach, William Kneale e Roger White [Beaney, 1997, p. 36].

162 L’internismo – va chiarito – non equivale allo psicologismo. Putnam precisa che il fatto che il senso sia, secondo

questa tradizione, determinato univocamente uno stato psicologico individuale del parlante non deve essere confuso con la diversa tesi secondo cui i significati o i concetti non esistono se non nella mente di chi li pensa. Frege rifiuta questa seconda tesi. In particolare, in polemica con lo psicologismo di John Stuart Mill, insiste che le leggi della logica non esistono perché pensate ma esistono in quanto entità ideali e oggettive. Ciononostante Frege ritene che il senso, la cui esistenza non dipende dal parlante, fornisca al parlante, una volta che l’abbia “afferrato”, criteri sufficienti per determinare il riferimento, tesi che invece Putnam nega. Scrive in proposito Putnam: “If our interpretation of the traditional doctrine of intension and extension is fair to Frege and Carnap, then the whole psychologism/Platonism issue appears somewhat a tempest in a teapot, as far as meaning-theory is concerned. […] For even if meanings are 'Platonic' entities rather than 'mental' entities on the Frege-Carnap view, 'grasping' those entities is presumably a psychological state (in the narrow sense)” [Putnam, 1979, p. 222].

adeguate competenze chimiche e adeguata strumentazione, che sbarcasse sulla Terra gemella potrebbe constatare che benché sulla Terra e sulla Terra gemella si usi la parola “acqua” per indicare sostanze simili, a rigore “acqua” nei due pianeti ha un diverso significato e fissa riferimenti diversi. Potrebbe anche dire che ciò di cui i laghi e i fiumi della Terra sono formati non è “acqua” secondo il significato che questa parola ha nel nostro pianeta. Almeno fino al 1750, data della scoperta della composizione chimica dell’acqua, il contenuto mentale dei parlanti dei due pianeti era esattamente identico e tuttavia è controintuitivo pensare che il significato di acqua sia mutato al momento della scoperta della sua composizione chimica. Prendiamo dunque due tipici parlanti delle rispettive lingue della Terra e della Terra gemella vissuti in un tempo antecedente alla scoperta della composizione chimica di ciò che ciascuno di loro chiama “acqua”. Oscar1, un parlante della lingua terrestre del

1749, quando dice “acqua” si riferisce ad H2O, mentre Oscar2, parlante della lingua della Terra

gemella del 1749, con la stessa parola si riferisce a XYZ. Tuttavia i due Oscar hanno di ciò che chiamano “acqua” esattamente la medesima rappresentazione mentale.

Se si approva l’argomento di Putnam, allora segue che per accettare uno dei due assunti sopra esposti è necessario abbandonare l’altro. O è vero che il riferimento dipende unicamente dal senso e allora occorrerà abbandonare l’idea che il senso dipenda unicamente dal pensiero dei parlanti oppure è vero che il senso dipende dal pensiero dei parlanti ma allora non può essere vero che il riferimento dipende unicamente dal senso. Questo perché, secondo Putnam, se entrambi gli assunti fossero veri a uno stesso pensiero sarebbe univocamente associato uno stesso riferimento e l’identico stato mentale di Oscar1 e Oscar2 dovrebbe essere garanzia del fatto che essi si riferiscono, parlando di “acqua”,

esattamente alla stessa sostanza, mentre invece si riferiscono a sostanze diverse. Oscar1 si riferisce ad

H2O e Oscar2 a XYZ.

Uno dei due assunti della concezione tradizionale deve dunque essere abbandonato. Ma quale? Secondo Putnam, bisogna abbandonare l’idea del significato come funzione esclusiva dello stato mentale del parlante, mentre è bene tenere fermo l’assunto del significato come univocamente associato a un riferimento. La ragione di questa scelta è legata ad un’osservazione empirica: secondo Putnam, la maggior parte di noi non è in grado di fornire definizioni dei termini di cui si serve. Ma se il significato non è nella testa, dov’è? Certo il significato delle parole è in situazioni normali in linea con l’intento comunicativo di chi le proferisce, ma – ci spiega Putnam – esso dipende essenzialmente da altri due elementi: può dipendere dalle caratteristiche del mondo e dalle conoscenze degli altri parlanti. Esaminiamo separatamente i due casi.

Il primo elemento che può contribuire a costituire il significato di una parola è, per Putnam, la natura stessa della cosa a cui il parlante si riferisce. Nella Terra e nella Terra gemella, le occorrenze della parola “acqua” hanno significati diversi, anche se i parlanti di entrambi i pianeti fino al 1750 usavano la parola esattamente nello stesso modo. Come mai? Perché in entrambi i pianeti l’intenzione dei parlanti era alludere alla effettiva natura di certi esempi indiscussi di “acqua” presenti nell’ambiente circostante. Le sostanze di cui sono composti il mare Mediterraneo della Terra e il mare Mediterraneo della Terra gemella, per esempio, sono entrambe chiamate “acqua”; si dà il caso però che una sia H2O

e una XYZ. Le stesse acque dei mari custodiscono, dunque, il segreto significato di “acqua”, fino al 1750 ignoto ai parlanti. Come è possibile? La questione è meno esoterica di quanto non possa sembrare. Questo fenomeno dipenderebbe da un elemento indicale implicitamente presente nell’uso della parola “acqua”, così come nell’uso di tante altre parole.

Quando vado al bar e chiedo un bicchiere d’acqua, non ho in mente una definizione esaustiva e corretta di “acqua”. La mia aspettativa non è quella di ricevere un bicchiere contenente una sostanza che soddisfi un elenco di condizioni necessarie e sufficienti che, nella mia mente, fanno contare qualcosa come “acqua”. Quello che ho in mente è solo una serie di esempi di ciò che è fatto d’“acqua” (i mari, i fiumi, la pioggia, eccetera), e la mia aspettativa, ordinando un bicchiere d’acqua, è quella di ricevere un bicchiere contenente quella sostanza lì: una sostanza che sia della stessa natura delle sostanze-modello che ho in mente. Putnam parla di stereotipi o paradigmi.

In altre parole, la struttura semantica dell’ordinazione “Vorrei un bicchiere d’acqua, per favore” sarebbe analoga quella di “Prendo quello che ha preso il signore”, che può capitare di pronunciare indicando una persona seduta a un altro tavolo. Mentre nel secondo caso l’elemento indicale è esplicito, nel primo è implicito. In entrambi i casi perché io possa sensatamente formulare la mia ordinazione non è necessario che sappia esattamente quali sono le condizioni necessarie e sufficienti perché la mia richiesta sia soddisfatta. Non è necessario che io sappia che cosa il signore ha preso. Non è necessario che conosca la composizione chimica dei paradigmi che rappresentano esempi indiscussi di acqua (cui secondo Putnam implicitamente alludo parlando di “acqua”)163.

163 Un internista potrebbe obiettare che anche l’ordinazione “quello che ha preso il signore” ha un riferimento definito da

una descrizione, un set di criteri ben definiti dallo stato mentale di un parlante. Non importa che esistano mondi possibili in cui il signore ha preso un caffè e mondi possibili in cui ha preso sedici polli arrosto e non importa che l’identità del signore sia determinata in modo indicale. Searle, nel suo Intentionality, offre una teoria internista anche degli indicali. Quando mi rappresento il contenuto mentale “quel signore”, per Searle, fisso il riferimento in questo modo: il riferimento è rappresentato chiunque presenti il requisito di causare questa percezione [Searle, 1983, p. 227].

Il secondo elemento estraneo all’intento comunicativo del singolo parlante che può contribuire a costituire il significato di una parola è la competenza lessicale di altri parlanti nella comunità in cui si vive, e in particolare di parlanti esperti. Per competenza lessicale si intende la capacità di identificare la classe di riferimenti di un determinato termine (competenza referenziale) e la capacità di mettere in relazione questa classe con le classi di riferimenti di altri termini (competenza inferenziale) [Marconi, 1999a, p. 69-92]. Gli esperti assumerebbero così il ruolo di autorità semantiche. In questo caso, perciò, l’elemento indicale implicito nell’intento del parlante non andrebbe riferito (direttamente) alla natura di un paradigma, ma piuttosto all’uso della parola da parte di parlanti più esperti. Putnam fa l’esempio dell’oro. Per tutti noi, quando parliamo di “oro”, specie se lo facciamo in ambito negoziale o economico, è importante riferirci a ciò che autenticamente è oro e non a un nostro concetto volgarizzato e atecnico di oro. Ciononostante, solo poche persone hanno le competenze per definire in modo tecnico e distinguere con certezza l’oro, esaminandolo. L’uso linguistico della maggior parte dei parlanti è perciò parassitario rispetto alla competenza referenziale di una minoranza, composta in questo caso da chimici e gioiellieri. Il fenomeno sociolinguistico qui descritto è definito da Putnam divisione del lavoro linguistico.

Secondo Putnam, questi due meccanismi indicali spiegano come è possibile che le nostre parole si riferiscano alle cose anche se solo qualcuno di noi, o addirittura se nessuno di noi, ha una piena conoscenza del metodo di identificazione del loro riferimento. La natura implicitamente indicale del linguaggio spiegherebbe perché “meanings just ain’t in the head”164.

164 In prima battuta, Putnam descrive questi due modi di individuazione del riferimento, quello naturale e quello sociale,

come nettamente distinti: il meccanismo indicale evocato dall’esperimento mentale della Terra gemella sembrerebbe fondarsi su una sorta di essenzialismo rispetto ai cosiddetti generi naturali (chiamo “acqua” tutto ciò che condivide la

natura profonda di un certo paradigma di acqua che ho in mente), mentre la divisione del lavoro linguistico si fonda sulla

deferenza dei parlanti comuni nei confronti dei parlanti esperti (chiamo “stagflazione” ciò che un esperto di economia chiama “stagflazione”). Tuttavia, nel corso dell’articolo suggerisce che in realtà siano essenzialmente due aspetti di uno stesso meccanismo semantico. Anche l’esperimento mentale della Terra gemella – dice Putnam – può essere spiegato con una forma di divisione del lavorolinguistico attraverso il tempo (“division of labor across time” [Putnam, 1979, p. 229]): chiamo “acqua” tutto ciò che un esperto del futuro (con una conoscenza perfetta della natura profonda di un certo paradigma di acqua che ho in mente) chiamerebbe “acqua”. Si può dunque essere esternisti senza per questo dover pensare che i generi naturali siano definiti da essenze. Recanati mostra come questi due meccanismi (che lui caratterizza come due forme di deferenza semantica) possano intervenire contemporaneamente in relazione ad uno stesso termine [Recanati, 2000a, p. 453]. Spesso però le due forme di esternismo proposte da Putnam vengono considerate posizioni distinte e chiamate rispettivamente “kind externalism” e “social externalism” cfr. per esempio Davis [2000, p. 363]. Sulla divisione del lavoro linguistico torneremo nell’ultimo capitolo.