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CAPITOLO III: CONCETTI TECNICI E CONCETTI GIURIDICI

1. L’intuizione degli esternisti

In Attraverso lo specchio, Lewis Carroll fa incontrare ad Alice un grosso uovo antropomorfo, Humpty Dumpty, divenuto famoso nella storia della letteratura per la teoria semantica che espone in questo breve dialogo:

“Quando io uso una parola,” disse Humpty Dumpty, con un tono piuttosto sprezzante, “questa significa esattamente quello che decido io – né più né meno.”,

“Il problema,” disse Alice, “è se voi potete far significare alle parole così tante cose diverse. ”

“Il problema,” disse Humpty Dumpty, “è chi è che comanda — questo è tutto” [Carroll, 2009, p., 187, traduzione mia156].

155 “Vera” ad alcuni potrebbe sembrare una parola troppo forte. C’è chi preferirebbe dire: “giusta”, “plausibile”,

“condivisibile”, “politicamente vantaggiosa per il giudice stesso”… Tuttavia, anche se adottassimo questi che ho elencato come parametri di correttezza, per individuare la proposizione che condiziona a circostanze di fatto determinate conseguenze giuridiche, ci risolveremo ad affermare che tale proposizione può essere adottata come premessa in iure solo se è vero che soddisfa quei parametri. Sarà vero che la proposizione è “giusta”, “plausibile”, “condivisibile”, “politicamente vantaggiosa per il giudice stesso”. Comunque vogliamo metterla, perché il giudice possa impegnarsi in un qualche tipo di ragionamento giuridico, dovrà avere in mente un certo contenuto proposizionale e, a ragione o a torto, dovrà poterselo rappresentare come vero. Cfr. Allen e Pardo [2003, p. 1790].

156 Testo originale:

“When I use a word,” Humpty Dumpty said, in rather a scornful tone, “it means just what I choose it to mean—neither more nor less.”, “The question is,” said Alice, “whether you can make words mean so many different things. ”“The question is,” said Humpty Dumpty, “which is to be master—that's all”.

Quella di Humpty Dumpty è una semantica radicalmente internista. Per Humpty Dumpty, siamo noi i padroni delle nostre parole: le parole significano esattamente quello che noi vogliamo che esse significhino. E, in fin dei conti, non è così, almeno potenzialmente? Il significato delle parole non è forse qualcosa che noi parlanti decidiamo, o abbiamo collettivamente deciso in passato, in modo convenzionale?

Se dovessimo dare ascolto ad Humpty Dumpty, concluderemmo che la questione della morte di Pelle Lindbergh su cui abbiamo riflettuto nel paragrafo precedente ha poco a che vedere con la comprensione del fenomeno morte. Che cosa conti come “morte di Pelle Lindbergh” – il trauma cranico dovuto all’incidente stradale, avvenuto l’11 novembre, o l’espianto degli organi, avvenuto il 12 novembre – è una domanda a cui non si risponde comprendendo meglio il funzionamento del corpo umano ma semplicemente decidendo come vogliamo usare la parola “morte” in un contesto dato, ad esempio nel contesto di un processo penale per omicidio. In tal caso, il significato di “morte” si potrà individuare solo chiedendoci a quali condizioni vogliamo punire una persona per omicidio. Il significato di una parola in fin dei conti può essere concepito come una norma che assegna a un segno una cosa a cui riferirsi. In alcuni casi la determinazione di questa norma è inseparabile dal tessuto normativo complessivo della pratica in cui si inserisce. Perciò per comprendere il significato di una parola occorre capire chi ha il compito di determinare la correlazione normativa tra segno e cosa, nel contesto rilevante. Come dice Humpty Dumpty, “Il problema è chi è che comanda – questo è tutto”.

Siamo noi a comandare le parole o loro comandano noi? Non siamo forse liberi di attribuire alle nostre parole la funzione che preferiamo? I legislatori spesso ricorrono allo strumento della definizione stipulativa per attribuire a termini comuni nel contesto giuridico significati diversi o più specifici rispetto a quelli correnti157. Lo stesso fanno gli scienziati quando, per esempio, sentono

l’esigenza di riferirsi a oggetti con un grado di precisione che il linguaggio comune non consente. Molti bambini creano linguaggi tutti loro che poi diventano parte del lessico famigliare. Ciascuno di noi sembrerebbe legittimato a fare la stessa cosa nell’ambito dei propri discorsi e in base ai propri fini. Se decidessi di battezzare “axaxaxas” questa pagina o se magari decidessi di chiamare così solo i primi tre quarti di questa pagina, non potrei forse farlo? Non potrei decidere di usare questa parola per definire tutti e soli i fogli di carta che almeno una volta sono stati illuminati dalla luna? Non potrei

157 Per esempio: la parola “possesso” nell’italiano standard è un sinonimo di “proprietà”; invece, nell’ambito del Codice

civile del 1942, la proprietà è il diritto soggettivo sulla cosa definito dall’articolo 832, mentre il possesso è il potere di

decidere di usare quella nuova parola per definire la morte, o la parola “morte” per definire questa pagina? Evidentemente potrei, a patto di chiarire ai miei eventuali interlocutori la mia decisione. Ma se decessi di coniare nuove parole in questo modo o decidessi di usare in modo nuovo parole già esistenti, il loro significato sarebbe costituito in modo esaustivo solo dalle mie stipulazioni? C’è chi ne dubita. Un’intuizione comune tra i filosofi è che il ruolo delle intenzioni dei parlanti e delle convenzioni linguistiche nella determinazione dei significati delle parole sia solo superficiale. Le nostre pratiche linguistiche non possono fare altro che recepire categorie naturali che già esistono nel mondo indipendentemente da noi: la pagina, il tre e il quattro, la luna, la carta, la morte eccetera. Secondo molti, anche se, come Humpty Dumpty, decidessimo di creare un nuovo linguaggio in cui ogni parola è associata a una definizione stipulativa, questo nuovo linguaggio continuerebbe rispecchiare il mondo secondo le sue partizioni naturali. In base a questa tesi, anche i significati delle parole che inventiamo non sono esaustivamente determinati dalle nostre decisioni.

L’idea che la realtà si dia all’uomo già intessuta di una rete di significati preesistenti a lui, di venature che la suddividono in modo oggettivo e indipendente delle definizioni e i pensieri umani, ha una remota e nobile tradizione. Prendete questo passo dell’antico filosofo cinese Zhuāngzǐ:

Al tempo in cui iniziai a tagliare vedevo soltanto il bue intero. […] Ora colpisco nei grandi interstizi, guido il coltello nei grandi vuoti, secondo la conformazione naturale dell’animale. Un buon cuoco cambia coltello ogni anno, perché taglia. Un cuoco mediocre cambia coltello ogni mese, perché lo usa come se fosse una scure. Io ho avuto questo coltello per diciannove anni e ho tagliato migliaia di buoi, ma la sua lama è come appena uscita dalla cote [Zhuāngzǐ, cit. in Varzi, 2014, p. 112].

La metafora del macellaio che taglia la carne secondo la sua conformazione naturale è un ammonimento per il pensatore: se vogliamo pensare sensatamente, il nostro pensiero deve rispecchiare la realtà nella sua conformazione naturale.

Curiosamente, ritroviamo la stessa esatta metafora nei dialoghi di Platone. Nel Fedro, Socrate se ne serve per spiegare la tecnica diairetica158, ossia la tecnica per formulare le corrette definizioni dei

concetti: bisogna – dice Socrate – “dividere secondo le Idee, in base alle articolazioni che hanno per

158 In greco, “διαίρεσις” vuol dire “divisione”. Letteralmente, la tecnica diairetica è la tecnica della divisione: la tecnica

per dividere i dati della realtà negli schemi concettuali più adeguati. Sulla metafora del macellaio, cfr. Varzi [2014, pp. 112-116].

natura, e cercare di non spezzare nessuna parte, come invece suole fare un cattivo [macellaio]” [Platone, 2000, 265e]. La metafora ritorna nel Politico, dove un interlocutore di Socrate dice che il tema di discussione non può essere diviso in modo arbitrario, ma deve essere sezionato “secondo le membra, come una vittima sacrificale” [Platone, 2000, 287c]. Il senso della metafora è un principio ricorrente nella filosofia di Platone: le parole hanno significato solo se rispecchiano la struttura naturale del mondo. Questa idea è espressa in modo esplicito anche nel Cratilo, dove Socrate rigetta la tesi sofistica secondo cui l’uomo (in base alla massima di Protagora, misura di tutte le cose) sia l’artefice dei significati delle parole di cui si serve. All’alba dei tempi, – spiega Socrate – un legislatore che sapeva poco o nulla del mondo inventò le parole [Platone, 2000, 383a-440e ]. Ma se le parole indicassero ciò che del mondo sapeva quel primo legislatore, allora non vorrebbero dire un bel nulla.

In Platone, l’idea che il significato non si esaurisca nelle scelte comunicative e classificatorie dei parlanti si lega a una forma di essenzialismo [Sacchetto, 1998, p. 402]. Ma possiamo essere condotti a un’idea simile da una preoccupazione filosofica di sapore molto più contemporaneo. Secondo un’opinione diffusa, ci deve essere una connessione tra il significato delle parole e il mondo reale perché c’è una parentela concettuale tra la nozione di significato e quella di verità. Per esempio, perché l’enunciato “Pelle Lindbergh è morto” significhi qualcosa, deve esprimere il set di condizioni che devono essersi realizzate perché sia vero che Pelle Lindbergh è morto. Ma quando pronunciamo enunciati di questo tipo, raramente abbiamo in mente simili set di condizioni. Nel momento in cui dico qualcosa come “Pelle Lindbergh è morto” potrei ignorare le condizioni che distinguono Pelle Lindbergh dagli altri giocatori dei Philadelphia Flyers o i requisiti clinici che devono darsi perché un soggetto sia morto piuttosto che in coma vegetativo persistente. Visto che quasi mai abbiamo in mente delle descrizioni esaustive delle cose a cui intendiamo riferirci, sembra che ci siano solo due possibilità: o la maggior parte delle cose che diciamo sono letteralmente insensate oppure il significato di quello che diciamo è determinato da qualcosa di ulteriore e diverso rispetto alle descrizioni che mentalmente associamo ai termini di cui ci stiamo servendo. Se le nostre parole hanno un significato, non può essere perché chi le pronuncia ha sempre accesso ai criteri attraverso i quali esse si applicano al mondo, ma deve essere perché – in virtù di un qualche altro meccanismo – esse sono in grado di riferirsi al mondo reale.

Il movente di fondo degli esternisti degli anni settanta è questo: per poter dire che le cose che scopriamo riguardo al mondo sono vere dobbiamo abbandonare l’idea che quello a cui pensiamo quando pronunciamo un enunciato fattuale esaurisca il suo significato. I nostri contenuti mentali sono

semplicemente troppo poveri per esprimere in modo esaustivo delle condizioni di verità. Ma se i significati non sono nelle nostre teste, dove sono? In base a quale meccanismo si determinano le condizioni di verità di un enunciato se non sulla base delle intenzioni dell’enunciante?