L’ipotesi che le stelle avessero tutte sostanzialmente la stessa luminosità intrinseca si era dunque rivelata falsa. Eppure, Herschel si trovò nella necessità di doverla assumere di nuovo quando cominciò a interrogarsi sulla forma e sulle dimensioni dell’Universo si-derale. D’altra parte, nell’impossibilità di misurare la parallasse stellare, non c’era altra strada da imboccare se non quella; l’alternativa sarebbe stata arrendersi di fronte alla difficoltà dell’impresa.
Albireo, beta Cygni, è una delle più spettacolari stelle doppie del cielo per il contrasto cromatico tra le due componenti, la primaria giallo-arancio (quella più in alto) e la secondaria bianca-azzurra. William e Caroline Herschel compilarono un catalogo di 848 stelle doppie, nella speranza, che si sarebbe rivelata vana, di riuscire a misurare un effetto di parallasse differenziale.
E non solo. Egli assunse pure che fosse omogenea la distribuzione spaziale (nelle tre dimensioni) delle stelle. Anche questa un’ipotesi dura da accettare e abbastanza invero-simile, quando si consideri quanto appare disomogenea, già ad occhio nudo, la loro di-stribuzione (bidimensionale) sulla volta celeste, con un affollarsi di astri dentro quella specie di collare biancastro della Via Lattea che attraversa il cielo in tutte le stagioni come un ponte gettato da orizzonte a orizzonte, in certe parti più luminoso, in altre più debole, in certe costellazioni più largo, in altre più stretto.
Prima dell’avvento del telescopio, non era così evidente che il chiarore lattiginoso della Via Lattea fosse il risultato dell’emissione luminosa di milioni e milioni di stelle, più vicine fra loro del potere risolutivo dell’occhio umano e perciò indistinguibili come singole sorgenti puntiformi.
Gli antichi avevano esercitato tutta la loro fantasia nel tentativo di spiegare questa curiosa e spettacolare anomalia. Chi ne diede una lettura mitologica (uno schizzo del latte materno di Giunone, che ritrasse il seno dalla bocca di Ercole infante), chi religiosa (era l’Ade, la sede delle anime dei defunti); chi si sforzò di interpretarla in chiave scien-tifica, ritenendola uno Zodiaco dei tempi andati, un precedente percorso del Sole tra le costellazioni prima che l’asse del mondo venisse scosso da un misterioso cataclisma in epoche antiche (Enopide di Chio, V sec. a.C.), o la giuntura dei due emisferi celesti (Teo-frasto, III sec. a.C.), o anche una fessura nella sfera del cielo al di là della quale si intra-vede una luce più vivida (i Pitagorici, e poi Macrobio, V sec. d.C.). Solo Democrito di Abdera (V sec. a.C.) ebbe l’intuizione giusta: una congerie di stelle, raggruppate così strettamente da riempire ogni interstizio e dare l’impressione di una fascia luminosa senza soluzione di continuità. Ma restò inascoltato.
Herschel attaccò il problema della forma dell’Universo siderale ipotizzando, come si diceva, che le stelle fossero distribuite in modo omogeneo nello spazio. Vuol dire che, ritagliando idealmente due cubetti di Universo, comunque collocati, ma con i lati uguali e abbastanza lunghi, e poi contando il contenuto di stelle di ciascuno, il numero che ne risulta è circa lo stesso.
Immaginiamo ora di indirizzare il telescopio verso un certo punto della volta celeste:
nell’oculare compariranno tutte le stelle contenute entro un cono stretto e lunghissimo, che avrà per base l’estensione angolare del campo visivo del telescopio (15', nel caso dello strumento usato da Herschel: circa un quarto del disco lunare) e per altezza la mas-sima distanza a cui la visione telescopica si può spingere nel Cosmo. A questo riguardo, Herschel fece una terza ipotesi, decisamente impegnativa e che egli stesso, anni dopo, ammise essere sbagliata: che il suo telescopio più potente gli consentisse di vedere tutte le stelle effettivamente presenti nel campo, ossia che non ne restasse nascosta alcuna, come potrebbe capitare se ce ne fossero di troppo deboli (e perciò lontane) per essere ri-velate dal suo strumento. In altre parole, assunse che il suo telescopio, in qualunque di-rezione puntasse, gli avrebbe consentito di giungere fino agli estremi confini del sistema siderale.
Il programma consisteva perciò nel contare, per ogni puntamento, quante stelle comparivano dentro l’oculare: un numero elevato avrebbe significato che in quella direzione l’Universo siderale si estende più lontano, e viceversa se il numero fosse stato piccolo. Completando la rassegna su tutta la volta celeste, si sarebbe potuta ricavare una mappa del contorno del sistema stellare in cui viviamo.
Certamente, il programma non era scevro da incertezze e ambiguità. È come se, per sondare il fondo roccioso di un laghetto di montagna, ci servissimo di un’asta di una data lunghezza, da immergere perpendicolarmente in ogni punto della su-perficie. La profondità del lago, punto per punto, è pari alla lunghezza della parte di asta che riemerge bagnata. Ma se in qualche punto il lago fosse più profondo della nostra asta? E se spuntoni di roccia, o qualche relitto, intercettassero il puntale prima che questo potesse giungere fino al fondo vero? Fuor di metafora: se esistes-sero stelle più fioche della magnitudine limite dello strumento (la magnitudine della stella più debole che il telescopio può rivelare)? E se nubi di polveri o nebulosità gassose impedissero di vedere le stelle che stanno al di là di esse?
Per semplificare la ricerca e per avere una prima rozza stima della forma del si-stema in cui viviamo, Herschel trascurò questi problemi. E non è da biasimare per questo. Quando si affrontano sfide scientifiche formidabili come quella che l’or-ganista di Bath aveva intrapreso è naturale assumere qualche ipotesi che metta lo scienziato nelle condizioni di operare con gli scarsi mezzi di cui dispone e di otte-nere un sia pur minimo risultato. Da questa prima rozza conclusione (che dovrà essere stimata nel giusto, per quel che è) si può star certi che scaturiranno uno o più spunti per ulteriori ricerche, che porteranno a un affinamento dei risultati. Così va la scienza, per avvicinamenti progressivi alla realtà delle cose.
Il metodo del “conteggio stellare”, come Herschel lo chiamava – e che noi po-tremmo ribattezzare “carotaggio galattico” – venne esposto, con i primi risultati, nel 1785. I fratelli Herschel avevano effettuato 683 puntamenti su tutta la volta ce-leste, prendendo nota per ciascuno di essi del numero di stelle che comparivano nell’oculare. Talvolta erano pochissime, quando lo strumento puntava dalle parti della Chioma di Berenice, di Arturo o di Cor Caroli, ossia nei dintorni del polo nord galattico, in direzioni ortogonali al piano della Via Lattea; talvolta compari-vano a migliaia, o anche a decine di migliaia, nei puntamenti verso costellazioni come lo Scorpione, l’Ofiuco o il Sagittario, dove c’è il centro della Via Lattea.
La conclusione di Herschel fu che evidentemente lungo tutte le direzioni che puntano la Via Lattea il sistema siderale si estendeva per una distanza ben maggiore che nelle altre, così che si rendevano visibili, per accumulazione, stelle poste a di-stanze via via crescenti e notevolmente grandi, mentre guardando nelle direzioni perpendicolari a queste lo sguardo incontrava, per così dire, un minor numero di
“strati” sovrapposti di stelle: lungo quelle direttrici il sistema stellare era meno esteso, meno profondo, e il bordo esterno era più vicino a noi.
L’Universo siderale doveva dunque essere una struttura larga e appiattita, a forma di disco, oppure di lente, e il Sole doveva trovarsi immerso in quel disco (per questo la Via Lattea ci avvolge completamente, proiettandosi sulla volta celeste come un cerchio massimo), benché in posizione leggermente discosta dal centro.
Un’intuizione in questo senso era già stata avanzata nel 1750 dall’astronomo e ma-tematico inglese Thomas Wright, secondo il quale la Via Lattea ha la forma di una macina, di una ciambella, di un cilindro molto largo e piuttosto basso, contenente il Sole, ed era stata ripresa dal grande filosofo tedesco Immanuel Kant, ma si trat-tava per l’appunto solo di intuizioni o di speculazioni filosofiche, che non poggia-vano su dati empirici.
Quanto al contorno del disco, è ben noto lo schizzo della pianta del sistema siderale che Herschel presentò nel suo storico lavoro pubblicato nel 1785 nelle Philosophical Transac-tions of the Royal Society, la più antica e prestigiosa rivista scientifica inglese. E poco im-porta quanto (poco) egli si sia avvicinato al vero con quel disegno. Conta invece che esso segnò un punto di svolta decisivo nella storia dell’astronomia: da allora in poi, il sistema siderale cessò di essere un vago fondale di natura ignota e senza profondità, venendo ad acquisire una sua realtà fisica, con una forma tridimensionale e con dimensioni finite che lanciavano agli astronomi la sfida di darne una misura.
Stimare quanto misurasse il disco e il suo spessore era al di là delle possibilità di Her-schel, che, non sapendo come misurare la distanza delle stelle, non poteva disporre di una scala spaziale assoluta di riferimento. Di una scala relativa invece sì, e infatti il Nostro az-zardò un rapporto 5:1 tra il diametro del disco e il suo spessore, ricavato da considerazioni sulla brillantezza delle stelle e sul diametro del telescopio utilizzato per le osservazioni. A questo riguardo, Herschel ragionava all’incirca così: immaginiamo di osservare due stelle, che indicheremo con A e B, e di trovarle della stessa brillantezza (il termine tecnico è ma-gnitudine apparente; lo definiremo in seguito) quando osserviamo la A in un telescopio del diametro di 15 cm e la B in uno di 45 cm, cioè 3 volte maggiore. Il telescopio più piccolo ha una capacità di raccolta di luce 9 volte minore dell’altro, perché tale, 9 volte minore, è la superficie del suo specchio (la superficie è proporzionale al quadrato del dia-metro). Ciò vuol dire che, se osservassimo la stella B con lo strumento più modesto, essa ci apparirebbe 9 volte più debole della A. Nell’ipotesi che la luminosità intrinseca sia la stessa per le due stelle, poiché il calo di luce di una sorgente puntiforme è inversamente proporzionale al quadrato della distanza a cui la si osserva, ciò comporta che la stella B sia 3 volte più lontana della A. In pratica, Herschel utilizzava i diametri della sua ricca colle-zione di telescopi come altrettanti regoli per stimare le distanze, almeno in senso relativo.