Per tutta la vita, Henrietta Leavitt dovette far fronte a gravi problemi di salute.
Giovanissima studentessa, aveva difficoltà di udito; sentiva poco, ma quando par-lava incantava i suoi docenti per la finezza delle argomentazioni, oltre che per un’innata dolcezza nel porsi. Figlia di un pastore protestante, i suoi studi si erano indirizzati verso le discipline umanistiche. Era già laureanda, quando una serie di lezioni di astronomia cambiarono la sua vita, instillandole una passione che non l’abbandonerà più.
Nel 1895, Henrietta entrò come vo-lontaria all’Osservatorio dell’Harvard College, diretto da Edward Charles Pic-kering (1846-1919), l’astronomo che si era prefisso il compito ambizioso di compilare un catalogo spettrale di tutte le stelle del cielo. Analizzare gli spettri era però un lavoro lungo, tedioso, ripe-titivo e, per la mentalità del tempo, poco dignitoso per un astronomo. Era semmai più consono a una donna, magari senza studi alle spalle, che non coltivasse troppe ambizioni e perciò che non fa-cesse ombra al direttore, astronomo e maschio. Così, Pickering si circondò di un gruppo di “calcolatrici”: donne che, con l’applicazione, acquisivano una forma mentis matematica che le metteva in grado di eseguire operazioni com-plesse in tempi brevi, oppure una spic-cata abilità nel riconoscere gli spettri stellari, classificandoli in base al tipo d’appartenenza. Ce n’era stabilmente una dozzina all’Osservatorio, forza lavoro di bassa lega, pagata 9 dollari alla settimana. Dall’harem di Pickering, come venne soprannominato il gruppo delle calcolatrici, in realtà, emersero poi personalità che sovrastarono quella del direttore, e che lasciarono un segno profondo nella storia dell’astronomia, come Williamina P. Fleming, Annie Jump Cannon, Antonia C.
Maury. L’impronta più significativa fu però quella di Henrietta Leavitt.
La Leavitt si specializzò nella fotometria fotografica, ossia nella valutazione della magnitudine di una stella dalla lettura di una lastra fotografica. Aveva esco-gitato un metodo tutto suo per individuare le eventuali stelle variabili presenti nel
Henrietta Leavitt (1868-1921).
campo fotografato. Eseguiva due lastre in tempi diversi, per esempio a un paio di giorni o a una settimana di distanza. Poi sovrapponeva la lastra negativa della se-conda ripresa alla lastra positiva della prima: se per una data stella il cerchietto nero dell’immagine stellare in negativo era più grosso o più piccolo del corrispon-dente cerchietto bianco (l’immagine positiva), ciò indicava che era intervenuta una variazione di luminosità. In questo modo, la Leavitt scoprì poco meno di 2500 stelle variabili, all’incirca quante gli astronomi, laureati e maschi, ne avevano ri-velate in tutti i secoli precedenti. Per inciso, il suo impiego precario all’Harvard College durò sette anni, fino al 1902. Poi venne assunta in pianta stabile.
La sua scoperta più significativa riguardò le variabili individuate dentro la Pic-cola Nube di Magellano in lastre prese dalla succursale andina dell’Osservatorio dell’Harvard College, sita ad Arequipa (Perú), ove nel 1896 era stato installato il rifrattore Bruce di 61 cm. Oggi sappiamo che le due Nubi di Magellano sono pic-cole galassie satelliti della Via Lattea, ma a quel tempo la loro natura era ancora dibattuta. Di una cosa si era comunque certi: che fossero molto lontane.
La Piccola Nube di Magellano è la galassia satellite della Via Lattea dentro la quale Henrietta Leavitt scoprì 1800 stelle variabili, tra le quali 25 Cefeidi. (ESA/HST/DSS2; Davide De Martin)
Nel 1907, la Leavitt pubblicò una prima lista di quasi 1800 variabili di corto pe-riodo presenti nelle due Nubi. Subito la sua attenzione fu attratta da un gruppo di variabili (inizialmente 16), per le quali, seguendole per molti mesi, era riuscita a tracciare la curva di luce, ovvero il grafico che mostra come varia nel tempo la lu-minosità. Le curve indicavano chiaramente che si trattava di Cefeidi, una classe di variabili i cui prototipi erano la delta Cephei, scoperta dall’astrofilo inglese John Goodrike nel 1784, e la eta Aquilae, scoperta negli stessi mesi da Edward Pigott.
La caratteristica di queste variabili è che la salita al massimo di luce è molto più veloce che non la discesa al minimo. Per esempio, la delta Cephei impiega circa un giorno e mezzo per passare dal minimo m = 4,3 al massimo m = 3,5; ma ne impiega quattro per ridiscendere al minimo. Il suo periodo è di 5,4 giorni: tale è l’intervallo, regolarissimo, tra due minimi (o massimi) consecutivi. La eta Aqui-lae ha un periodo leggermente più lungo, 7,2 giorni, ma la forma della curva di luce è pressoché identica e lo stesso vale per tutte le componenti della famiglia delle Cefeidi, indipendentemente dalla lunghezza del periodo.
Oggi sappiamo che queste variabili sono stelle supergiganti nelle fasi finali del loro ciclo evolutivo, nate come astri di massa elevata. Sono di colore e di temperatura variabili, hanno diametri smisurati, e presentano luminosità variabili perché pulsano come muscoli cardiaci: si comprimono e si dilatano a ritmi regolari. Poco sotto la loro fotosfera v’è uno straterello di elio parzialmente ionizzato che agisce come una
“valvola” che incamera energia quando la stella si contrae e la rilascia quando la stella si espande; variando il grado di ionizzazione dell’elio, varia anche l’opacità dello straterello, che in certe fasi si oppone più che in altre al passaggio della radia-zione dall’interno della stella alla superficie. Il risultato complessivo è la variaradia-zione delle caratteristiche fisiche e geometriche che determinano la tipica curva di luce che tutte le Cefeidi esibiscono, sia che oscillino con periodi di pochi giorni, sia che la va-riazione periodica duri alcuni mesi. E proprio la forma di quella curva le rende ben riconoscibili tra la selva di variabili regolari o irregolari che affollano l’Universo.
3,5
4,1 3,8
δ Cephei
0 1 2 3 4 5 6 7
4,4
tempo (giorni)
magnitudine apparente
Curva di luce della delta Cephei, costruita a partire da misure amatoriali. Si noti la veloce salita verso il massimo di luce e la più lenta discesa al minimo. La delta Cephei ha un periodo di 5,4 giorni.
Guardando solo ai due prototipi fin qui menzionati, la delta Cephei e la eta Aquilae, gli astronomi non avrebbe potuto cogliere la singolare proprietà che rende le Cefeidi preziose candele-standard. Per un puro caso, le due stelle oscillano en-trambe tra le magnitudini apparenti 4,3 e 3,5. Ma che dire delle loro magnitudini assolute? Non è possibile dare risposta a questa domanda per il fatto che non si conosce la loro distanza. Entrambe le stelle sono così lontane dal Sole che l’angolo parallattico è al di sotto della sensibilità dei telescopi al suolo (ancora oggi è così).
E sì che la delta Cephei è una delle Cefeidi più vicine: per tutte le altre, va ancora peggio. Niente parallasse, niente distanza.
Le 16 Cefeidi della Leavitt (che erano cresciute a 25 nel 1912) appartenevano tutte alla Piccola Nube di Magellano: neppure di queste era nota la distanza, che si sapeva essere grandissima, ma perlomeno si era certi che fosse la stessa per tutte, visto che erano ospiti dello stesso complesso. Così, le varie stelle erano tra loro direttamente confrontabili. Se osservava due Cefeidi che al massimo di luce (oppure al minimo) differivano tra loro di 2 magnitudini (per esempio, mA = 14 e mB= 16), Henrietta sapeva per certo che anche le magnitudini assolute differivano di 2 unità: non poteva conoscere i valori precisi di MAe di MB, poiché non sapeva quale fosse la distanza della Piccola Nube di Magellano, ma di sicuro la stella A era 6,3 volte intrinsecamente più luminosa della B. Per scendere nel concreto, se la Piccola Nube distasse 30mila pc, risulterebbe MA= –3,4 e MB= –1,4 (il facile calcolo è riportato nel box d’approfondimento a pag. 31). Se distasse 50mila pc, sarebbe MA= –4,5 e MB= –2,5. In ogni caso, la stella che appariva più brillante era anche quella intrinsecamente più luminosa, esattamente di 2 magnitudini.
Il grafico originale della Leavitt mostra la stretta relazione tra le magnitudini fotografiche delle Cefeidi della Piccola Nube di Magellano e il loro periodo di variabilità (in giorni), riportato in scala logaritmica:
0,4 sta per 2,5 giorni; 0,8 = 6,3 giorni; 1,2 = 15,8 giorni; 1,6 = 39,8 giorni; 2,0 = 100 giorni. I due insiemi di dati si riferiscono alla magnitudine al massimo e al minimo di luce e le due linee rette che interpolano i dati osservativi evidenziano la relazione P-L scoperta dalla Leavitt: più lungo è il periodo, più luminosa è la stella.
All’occhio attento della Leavitt non sfuggì che quanto più le Cefeidi erano bril-lanti tanto più lenta era la loro variazione di luce. Per esempio, quelle che com-pletavano la pulsazione in circa 4 giorni erano di magnitudine apparente attorno alla 14,5 al massimo di luce; quelle con un periodo di circa 16 giorni giungevano alla magnitudine 13, e così via. Quando poi provò a mettere in grafico la magni-tudine apparente delle sue Cefeidi in funzione del periodo restò impressionata dalla regolarità della curva: veniva infatti evidenziata una stretta relazione mate-matica tra le due grandezze, tra la magnitudine apparente e il periodo, o, per quanto detto, tra la magnitudine assoluta e il periodo.
La relazione periodo-luminosità (relazione P-L) trovata dalla Leavitt era manna piovuta dal cielo per gli astronomi: d’ora in poi sarebbe stato possibile conoscere la magnitudine assoluta di una Cefeide di un lontano ammasso stellare semplice-mente avendo la pazienza di raccogliere parecchie misure fotometriche, compilare la curva di luce e misurarne il periodo. Dal periodo si ricava la magnitudine asso-luta. Da questa e dalla magnitudine apparente si ricava la distanza. Così, si poteva risalire alla distanza di ogni ammasso stellare a partire da una misura temporale relativamente semplice. Le Cefeidi erano le tanto sospirate candele-standard che gli astronomi andavano cercando per misurare le distanze nella Via Lattea e nel-l’Universo! Oltretutto, essendo supergiganti estremamente luminose, era possibile osservarle anche a distanze dell’ordine dei milioni di anni luce (oggi, grazie al Telescopio Spaziale “Hubble”, le sappiamo individuare in galassie distanti anche più di 50 milioni di anni luce).
C’era solo un ultimo problema da risolvere, un grosso problema, ed era la pre-cisa calibrazione del grafico della Leavitt, in modo da poterlo tradurre in una for-mula matematica con tutti i parametri ben precisati. Abbiamo detto che le Cefeidi della Piccola Nube di Magellano con periodo di 16 giorni hanno una magnitudine apparente 13: ma qual è la loro magnitudine assoluta, che è ciò che ci interessa per davvero? Se trovassimo una Cefeide con un periodo di 16 giorni in un am-masso stellare, con quale valore di magnitudine assoluta dovremmo confrontare la sua magnitudine apparente per ricavare la distanza? Per saperlo, bisognerebbe conoscere la distanza della Piccola Nube, ma questa non era nota. Lasciamo allora la Piccola Nube e guardiamoci attorno nella Via Lattea: basterebbe misurare la distanza di tre o quattro Cefeidi galattiche per calibrare il grafico e risolvere ogni dubbio. Purtroppo, queste variabili sono piuttosto rare e non ce n’era alcuna che si situasse abbastanza vicino al Sole da poterne rilevare la parallasse. (Per inciso, si sarà notata l’implicita assunzione che abbiamo fatto: che vi sia una sostanziale omogeneità di comportamento tra le Cefeidi della Via Lattea e quelle della Piccola Nube di Magellano. Su questo ci sarebbe da discutere, ma, almeno in prima ap-prossimazione, si può accettare che sia così.)
Con metodi indiretti di stima delle distanze, operando su gruppi ristretti di Ce-feidi, ci provarono Ejnar Hertzsprung (1913) e Harlow Shapley (1918) a calibrare la relazione; il secondo la migliorò, lavorando su un campione statisticamente più significativo. Da allora, i parametri della relazione P-L sono stati via via affinati nel corso di tutto il XX secolo e oggi la legge assume una forma matematica del tipo:
M = –1,43 –2,81 · log P
dove M è la magnitudine assoluta visuale media (la media aritmetica tra il massimo e il minimo) e P è il periodo, espresso in giorni. Si veda nel box
d’approfondi-mento di pag. 38 in che modo utilizzare la relazione per ricavare la distanza della Piccola Nube di Magellano. In letteratura si trovano decine di relazioni analoghe, ricavate a partire da campioni diversi di Cefeidi; i parametri numerici variano (ma di poco) a seconda che la relazione consideri le magnitudini visuali, quelle infra-rosse, fotografiche ecc., oppure la magnitudine del massimo (o del minimo) invece che quella media. Ma non è il caso di addentrarci in troppe complicazioni.
Vale invece la pena di menzionare la più significativa delle correzioni apportate alla relazione, quella operata da Walter Baade nel 1952. Baade si accorse che esi-stevano due diverse popolazioni di Cefeidi, quelle dette di Popolazione I, più gio-vani e calde, che si osservano nei bracci di spirale delle galassie, e quelle di Popolazione II, che compaiono negli ammassi globulari. Le prime sono circa quat-tro volte intrinsecamente più luminose delle seconde, a parità di periodo. Fino ad allora, la relazione P-L, che era stata calibrata perlopiù sulle Cefeidi degli ammassi globulari (di Popolazione II), veniva applicata indifferentemente a tutte le Cefeidi, anche a quelle (di Popolazione I) che venivano osservate nei dischi delle galassie
Il Telescopio Spaziale “Hubble” rivela variabili Cefeidi anche in galassie distanti più di cinquanta milioni di anni luce. In queste riprese del 1993, vengono segnalate da trattini alcune Cefeidi pre-senti nei bracci a spirale della galassia M81. (NASA; STScI)
14,0 14,5 15,0 13,0 13,5 14,0
0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60
HV 2063
HV 1967
tempo (giorni)
magnitudine apparente
Curve di luce di due variabili Cefeidi della Piccola Nube di Magellano.
La distanza della Piccola Nube
Quanto è lontana la Piccola Nube di Magellano? La distanza di questa galassia irre-golare, satellite della Via Lattea, visibile anche a occhio nudo nei cieli dell’emisfero meridionale della Terra, è stata oggetto di molti studi per tutto il secolo scorso: cono-scerla significa infatti poter calibrare con precisione la relazione P-L della Leavitt.
Oggi viene stimata in circa 61mila pc (200mila anni luce), con un’incertezza del 5%
(61 ± 3 kpc).
Per esercizio, proviamo a ricavarla per conto nostro, a partire dalle curve di luce di alcune sue Cefeidi (si veda la figura in basso) e tenendo per buona la relazione P-L riportata nel testo: M = –1,43 – 2,81 · log P.
Si noti che la nostra prospettiva è ribaltata rispetto a quella degli astronomi. Mentre loro hanno armeggiato per un intero secolo attorno alla misura della distanza della Piccola Nube, sfruttando ogni altro indicatore di distanza che non fossero le Cefeidi, al fine di calibrare la relazione P-L per le Cefeidi, noi qui facciamo il cammino in-verso: adottiamo a priori la relazione P-L e la utilizziamo per ricavare la distanza della Piccola Nube, sfruttando come indicatori proprio le Cefeidi.
Con riferimento alla figura, consideriamo la curva di luce della stella HV 2063 (HV è la sigla del catalogo di variabili dell’Osservatorio dell’Harvard College) e ri-leviamone il periodo. Il primo massimo è al giorno 4; il sesto massimo è al giorno 61. Dunque il periodo è di 11,4 giorni.
Immettiamo il dato nella relazione P-L e ricaviamo la magnitudine assoluta visuale media M = –4,4. Ora rileviamo dalla curva di luce la magnitudine apparente visuale media, che è la media aritmetica tra la magnitudine al massimo e quella al minimo di luce: m = (14,1 + 14,8) / 2 = 14,45. Da qui, possiamo calcolare il modulo di distanza:
m – M = 14,45 + 4,4 = 18,85. Infine, dalla (2.2) otterremo: d = 58,9 kpc.
Se ripetiamo il calcolo sulla HV 1967, ci uscirà d = 64,0 kpc, circa il 10% in più (è normale che ci siano errori di misura); facendo la media delle due determinazioni, troviamo: d = 61,5 kpc, che è in linea con la distanza riportata più sopra.
Perché abbiamo invitato il lettore ad effettuare questi calcoli? Per fargli toccare con mano quanto siano delicate le misure fotometriche e quanto sia esposto a errori il lavoro del cosmologo. Per esempio, un errore di solo mezzo decimo di magnitudine, in più o in meno, sul modulo di distanza nel caso della stella HV 2063 condurrebbe a stime rispettivamente di 60,3 e di 57,5 kpc, con uno scarto di 1,4 kpc dal valore più sopra calcolato.
a spirale, con il risultato che se ne sottostimava sistematicamente la distanza di un fattore 2. In sostanza, nel 1952, grazie a Baade, ci si rese conto che le distanze di tutte le galassie dovevano essere raddoppiate, così come le loro dimensioni li-neari.
La fondamentale scoperta della relazione P-L per le Cefeidi mise nelle mani degli astronomi il metro con cui stimare la scala dell’Universo. Se prima di allora, con il metodo della parallasse, non ci si poteva spingere più in là di qualche cen-tinaio di anni luce dal Sole, ora le distanze potevano essere misurate fino a milioni di anni luce e il volume d’Universo affidabilmente sondabile era mille miliardi di volte più grande!
È poi da rimarcare che la conoscenza della distanza di un oggetto celeste non è fine a se stessa, ma consente agli astronomi di stimare la luminosità intrinseca di una stella, le dimensioni lineari di una nebulosa, di un ammasso o di una galassia.
È la chiave che apre tutte le porte in astronomia, che svela ogni segreto. Henrietta Leavitt ce la consegnò il 3 marzo 1912 sotto forma di una nota di tre paginette, una tabella e due grafici, intitolata “Periodi di 25 stelle variabili nella Piccola Nube di Magellano”. È la storica Circolare 173 dell’Osservatorio dell’Harvard College, che porta in calce la firma non di Henrietta, ma del direttore Edward C. Pickering, astronomo e maschio.