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Il fattore di scala

Il fattore di scala viene generalmente indicato con la lettera R; per sottolineare il fatto che si tratta di una grandezza variabile nel tempo, si usa scrivere: R(t). Esso descrive in che modo variano nel tempo le scale spaziali nell’Universo, quindi tutte le distanze tra le grandi strutture del Cosmo. Se R(t) è una funzione crescente nel tempo, vuol dire che l’Universo si sta espandendo; al contrario, se decresce, siamo in presenza di una contrazione. Se oggi il fattore di scala vale 30 e se cinque miliardi di anni fa valeva 15, vuol dire che in questo intervallo di tempo tutte le distanze cosmiche sono rad-doppiate. Se dieci miliardi di anni fa valeva 10, vuol dire che da allora le distanze sono triplicate; ma non solo: vuol anche dire che attualmente l’espansione va accelerando (nei primi cinque miliardi d’anni, le distanze crebbero infatti di una volta e mezza, ma negli ultimi cinque di due volte).

Il fattore di scala è la tabella di marcia del nostro Universo nel corso dell’intera sua esistenza: lo scienziato che un giorno riuscirà a scrivere la precisa espressione analitica di questa funzione, mettendo a frutto le osservazioni degli astronomi, che gli avranno fornito i valori corretti di tutti i parametri cosmologici fondamentali, sarà l’artefice della più grande scoperta scientifica di ogni tempo, perché, racchiusa in una formula matematica, ci consegnerà la storia passata della dinamica dell’Universo, insieme con l’indicazione di quale sarà il suo destino futuro.

Così come leggendo sull’orario ferroviario la successione delle fermate, con le di-stanze chilometriche e i tempi di passaggio alle varie stazioni, possiamo renderci conto di quando il nostro treno è partito, quale velocità ha tenuto nelle varie tratte, a che punto siamo del percorso e quanto manca alla meta, allo stesso modo, se disponessimo dell’espressione matematica che descrive la funzione R(t), avremmo in mano il reso-conto completo della storia dinamica dell’Universo. La scoperta di Hubble del 1929 ci assicura che oggi l’Universo si sta espandendo; la costante di Hubble H0ci dice in quale misura stanno crescendo attualmente le distanze tra le galassie. Ma questo non ci basta: è come guardare dal finestrino del treno e stimare la velocità a cui la nostra carrozza sta procedendo in questo preciso momento; ma in questo solo. È un’infor-mazione troppo limitata per soddisfare la nostra curiosità. Noi vogliamo conoscere l’orario ferroviario completo, dall’inizio alla fine del viaggio.

Come si misura il fattore di scala? Precisiamo subito che non interessa compiere

una misura assoluta: basta infatti conoscere il rapporto tra i fattori di scala in due tempi diversi. Più sopra, ci siamo inventati i valori 10, 15, 30 senza neppure specificare cosa stessimo misurando e quale fosse l’unità di misura, proprio perché quel che conta è il rapporto, la misura relativa. Potremmo decidere di assumere come fattore di scala la distanza tra due ammassi di galassie scelti come riferimento. Se potessimo (ma è solo un pio desiderio…) misurare quella distanza nelle varie epoche cosmiche vedremmo come varia nel tempo la distanza relativa tra tutti gli ammassi dell’Universo. Oppure, possiamo immaginare che ci sia una barra rettilinea, che fluttua da qualche parte nello spazio, e che si espande o si contrae in perfetta sintonia con il comportamento generale dell’Universo. Un regolo cosmico “elastico”. Ebbene, supponiamo di misurarlo oggi e di trovare che è lungo esattamente 1 km.

Quando, nel capitolo 4, abbiamo parlato della scoperta di Hubble dell’espan-sione dell’Universo, abbiamo detto che la costante H0 che compare nella sua legge vale 72 km s–1Mpc–1. Ora è venuto il momento di comprendere il significato più genuino di questa costante, aiutandoci con il nostro regolo elastico.

Se l’Universo non è statico, come era stato erroneamente supposto da Einstein, il fattore di scala varierà nel tempo. Chiamiamo T il suo tasso di variazione nel tempo, che, in linea di principio, potrebbe essere sia positivo, a indicare una cre-scita, che negativo, a segnalare una contrazione, ma che, dopo la scoperta di Hub-ble, sappiamo essere positivo: T è dunque il tasso di crescita, il tasso d’espansione.

Supponiamo di aver verificato che il nostro regolo si allunga ogni giorno di 1 m. Il regolo è la somma delle sue due metà e, poiché non v’è motivo di pensare che una metà si allunghi più dell’altra (omogeneità!), possiamo dire che ciascuna cresce di 0,5 m al giorno. Allo stesso modo, se avessimo adottato un regolo lungo il doppio (due regoli di 1 km ciascuno, allineati uno dietro l’altro), l’allungamento giornaliero sarebbe stato di 2 m. Qual è dunque il corretto valore del tasso di espan-sione T del fattore di scala: 1 m/giorno, 0,5 m/giorno oppure 2 m/giorno? Sono tutti valori corretti, ma si riferiscono a regoli elastici di diversa lunghezza. Se vo-gliamo dare un’informazione univoca e completa, valida per ogni regolo, diremo che l’allungamento è di “1 metro al giorno per ogni chilometro”. In modo compatto, scriveremo: 1 m giorno–1 km–1. Ebbene, questa unità di misura non è forse omoge-nea a quella che normalmente esprime la costante di Hubble? La costante H0 ci ri-vela dunque di quanto si allungherebbe ogni secondo, a causa dell’espansione dell’Universo, un regolo lungo 1 milione di parsec (Mpc), ossia 3,26 milioni di anni luce: l’allungamento è di 72 km ogni secondo. Sarebbe di 720 km se il regolo fosse lungo 10 Mpc, e così via, in proporzione.

Quando scriviamo H0, lo “0” a deponente sta a indicare che 72 è il valore attuale, quello che si misura nella nostra epoca cosmica. Il Principio Cosmologico ci auto-rizza a ritenere che H0 è costante nello spazio, ossia che ogni astronomo contem-poraneo interessato alla sua misura, su qualunque ammasso di galassie si trovi, rileverebbe lo stesso valore. Ma non ci assicura la sua costanza nel tempo: nulla infatti ci garantisce che 5 o 10 miliardi di anni fa la costante di Hubble avesse lo stesso valore di oggi. Anzi, è più che probabile che fosse diverso (ma comunque lo stesso per tutti gli astronomi di tutte le galassie in quella medesima epoca co-smica). Anche la costante di Hubble è dunque funzione del tempo: H(t); e sa-premmo perfettamente come varia nel tempo se conoscessimo l’andamento della funzione R(t). Ma R(t) non la conosciamo, perché è l’incognita che vogliamo alla fine svelare: è la meta che ci siamo prefissi, alla quale ambiamo di pervenire proprio attraverso la misura della costante di Hubble a diverse epoche cosmiche.

Mettiamo la costante di Hubble sotto la lente d’ingrandimento e chiediamoci cosa rappresenti esattamente. Spesso, in modo sbrigativo, la si definisce come il tasso d’espansione dell’Universo, ma la definizione corretta è che si tratta del tasso d’espansione relativo del fattore di scala. Non è T, ma T / R:

H(t) = T(t) / R(t).

Tornando infatti alla nostra barra elastica, poiché 1 metro rappresenta la millesima parte di un chilometro, dire che il regolo si allunga di 1 m giorno–1 km–1è come dire che l’espansione si produce a tassi di un millesimo al giorno (0,001 giorno–1), inten-dendo con questo che, per ciascun giorno che passa, ogni regione dell’Universo in-crementa le proprie dimensioni lineari di una parte su mille. Se misura mille anni luce, l’incremento sarà di 1 anno luce; se misura un miliardo di anni luce, l’aumento giornaliero sarà di un milione di anni luce. Il lettore può facilmente giungere a questo risultato in maniera più formale esprimendo le grandezze lineari presenti in (1 m giorno–1 km–1) nella medesima unità di misura, per esempio tutte in metri (oppure tutte in chilometri, è lo stesso): 1 m giorno–1 km–1= 1 m giorno–1 (1000 m)–1= 0,001 giorno–1. In modo del tutto analogo, esprimendo il Mpc in km, si può verificare che 72 km s–1Mpc–1corrisponde a 2,3 · 10–18s–1o, se si preferisce, a 7,4 · 10–11anno–1, o anche a 7,4 · 10–9secolo–1. Sono modi diversi, ma equivalenti, d’esprimere il valore della costante di Hubble e significa che tutte le distanze nell’Universo si stanno

at-La costante di Hubble misura il tasso d’espansione relativo del fattore di scala. Supponiamo che una galassia distante d si allontani da noi ogni secondo di un Δd. La costante di Hubble viene de-finita come Δd / d al secondo. Nell’Universo reale, essendo H0= 72 km s–1Mpc–1, se la galassia distasse d = 100 Mpc, ogni secondo l’allungamento sarebbe Δd = 7200 km. Se distasse il doppio, d = 200 Mpc, sarebbe Δd = 14.400 km, e così via.

(6.1)

tualmente espandendo di una frazione pari a 7,4 miliardesimi ogni secolo. Così, fra un secolo, una galassia che oggi è lontana 200 milioni di anni luce disterà 1,5 anni luce in più. È una placida espansione quella del Cosmo, rilassata, tutt’altro che esa-sperata o parossistica.

Tra l’altro, se la crescita del nostro regolo è di un millesimo al giorno, occorreranno mille giorni prima di vedere raddoppiata la sua lunghezza, o anche: sono occorsi mille giorni affinché diventasse lungo come è adesso a partire da un’epoca in cui era pic-colissimo. Dietro queste due affermazioni v’è naturalmente un’ipotesi implicita: che il tasso d’espansione attuale sia rimasto costante nel passato e che tale rimarrà anche in futuro. Pur essendo ben consci che si tratta di un’ipotesi alquanto rozza, il tempo che ricaviamo potrebbe fornire perlomeno un ordine di grandezza per l’epoca cosmica in cui ci troviamo, per il tempo trascorso dall’inizio dell’espansione.

Mille giorni sono l’inverso di 0,001 giorno–1, del tasso d’espansione relativo del nostro regolo. Facciamo lo stesso calcolo con il tasso d’espansione relativo del fattore di scala dell’Universo (la costante di Hubble) e troveremo quello che viene definito tempo di Hubble: tH= 1 / H0, che risulta essere circa 13 miliardi di anni. Se, oltre che nello spazio, il tasso d’espansione attuale restasse costante anche nel tempo, questa sarebbe l’età precisa dell’Universo. Se però l’espansione andasse accelerando, la vera età dell’Universo sarebbe maggiore del tempo di Hubble (a parità di crescita totale del fattore di scala, l’espansione più lenta nel passato richiese più tempo); al contrario, se l’espansione fosse decelerata, l’età sarebbe minore.