Abbandoniamo ora il nostro esempio, al quale non dobbiamo affezionarci più del lecito perché potrebbe risultare fuorviante. Per come l’abbiamo raccontata, la me-tafora ci parla di auto che si spostano sull’autostrada, e noi siamo condotti a im-maginare motori che rombano, ruote che girano e che spingono in avanti il mezzo facendo leva sull’asfalto, che naturalmente è fermo, ben fissato al suolo.
Invece, l’espansione dell’Universo che emerge dalle equazioni di Einstein e dal modello di de Sitter e di altri come una possibilità che troverà poi la sua verifica definitiva con il lavoro di Hubble, ci parla non di galassie e di ammassi che si muo-vono nello spazio, ma dello spazio che si espande in sé e per sé, trascinandosi ap-presso tutto quanto esso contiene. È come se il nastro d’asfalto dell’autostrada fosse una specie d’elastico che viene stirato in continuazione, che si allunga sempre più, mentre le auto sono semplicemente appoggiate su di esso, con il motore spento e il freno a mano tirato. Le vediamo allontanarsi da noi, ma non perché esse siano effettivamente animate da un moto proprio: si allontanano, potremmo dire, loro malgrado. Se un’auto fosse posteggiata di fronte a una stazione di servizio, la ve-dremmo allontanarsi insieme alla stazione di servizio, rispetto alla quale l’auto ri-mane ferma. Quando l’asfalto si stira non c’è modo di resistere alla sua sollecitazione: sei fermo, eppure ti allontani. Allo stesso modo, vediamo le galassie allontanarsi da noi trascinate dall’espansione cosmica, ma questo moto recessivo è qualcosa di ben diverso dal moto locale e peculiare che ciascuna di esse può avere per il fatto di interagire gravitazionalmente con l’ammasso a cui appartiene, oppure con una compagna vicina: insomma, questo non è un moto nello spazio, ma un moto dello spazio.
Il concetto non è certamente dei più intuitivi. E questo perché siamo avvezzi a considerare lo spazio, con le sue tre dimensioni, come un’entità astratta, puramente geometrica, una sorta di struttura mentale che ci siamo inventati al fine di definire quantitativamente la posizione di un punto, ma priva di qualsiasi realtà fisica. Un palco virtuale su cui si svolgono gli eventi: sempre lo stesso, indipendentemente dagli attori e dalle rappresentazioni. In modo analogo consideriamo il tempo, un
parametro essenziale per rappresentare l’evoluzione di un sistema fisico: siamo abituati a pensare che il tempo scorra allo stesso modo per ogni osservatore, indi-pendentemente dal suo stato cinematico, che sia fermo o in movimento, e per ogni sistema fisico, indipendentemente dalle particelle materiali che ne fanno parte. Un metronomo ultrapreciso che oscilla sempre allo stesso modo, confinato non si sa bene dove, forse nell’Iperuranio platonico.
Queste idee di uno spazio e di un tempo assoluti sono l’eredità della fisica clas-sica fondata da Isaac Newton. È la ficlas-sica che studiamo ancora nei licei e anche nei corsi universitari non specialistici. È semplice, descrive adeguatamente i fenomeni della vita di tutti i giorni e allora perché non apprenderla e utilizzarla, anche se, dopo Einstein, sappiamo che rappresenta solo un’approssimazione della realtà? Ci siamo affezionati ad essa perché il suo linguaggio matematico è così elementare che tutti lo possono parlare, dalla scuola media in su, ma la semplificazione si paga a caro prezzo. La fisica newtoniana ci abitua infatti a concepire lo spazio come tri-dimensionale, statico, infinito, e il tempo come unitri-dimensionale, continuo, infinito, indipendente dallo spazio, ed entrambi indipendenti dagli oggetti materiali e dagli sviluppi degli eventi. Ma non è questa la realtà delle cose.
La nuova concezione dello spazio e del tempo che scaturisce dalla Relatività Ristretta (1905) e dalla Relatività Generale (1916) di Einstein è profondamente di-versa. Per prima cosa, Einstein ci insegna che tempo e spazio sono inscindibilmente connessi in una struttura che si chiama spaziotempo, caratterizzata da quattro di-mensioni, tre spaziali e una temporale. Così come nello spazio di Newton la posi-zione di un punto veniva descritta dalle usuali tre coordinate cartesiane (x, y, z), nello spaziotempo di Einstein un evento risulta caratterizzato da quattro coordinate (x, y, z, t). Per un matematico, questa è una banale estrapolazione da uno spazio a tre dimensioni a uno spazio quadridimensionale, ma per noi si tratta di un salto lo-gico che mette a dura prova la nostra intuizione: da un lato, perché uno spazio a quattro dimensioni è qualcosa che esula dalla nostra esperienza, tanto che ci risulta impossibile persino raffigurarcelo mentalmente, dall’altro perché l’idea di accostare il tempo alle dimensioni spaziali, e di trattare l’uno e le altre come se fossero gran-dezze interscambiabili indubbiamente ci confonde. Non ne comprendiamo né il senso, né l’utilità.
Per cercare di fare nostra questa sorprendente novità, può essere d’aiuto consi-derare come un matematico compie le sue estrapolazioni. È un esercizio estrema-mente naturale. Prendiamo un foglio di carta e tracciamo gli usuali assi cartesiani x e y, perpendicolari tra loro, che si intersecano nell’origine O (si veda la figura a pag. 86). Segniamo sul foglio due punti qualunque, A e B, di coordinate (xA, yA) e (xB, yB), e chiediamoci quale sia la loro distanza d. La geometria appresa alle scuole medie ci dà la risposta:
d2= (xB– xA)2+ (yB– yA)2.
L’espressione, a dire il vero, non dà la distanza, ma il suo quadrato (si usa fare così: lo faremo anche nel seguito) e sfrutta il familiare teorema di Pitagora: “la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è uguale a quella del quadrato co-struito sull’ipotenusa”. Se infatti congiungiamo con un tratto di matita i punti A e B, e tracciamo le perpendicolari da A e B sui due assi coordinati, vediamo emergere un triangolo i cui cateti misurano quanto la differenza tra le coordinate dei punti, e l’ipotenusa è la distanza tra A e B. Per inciso, si può verificare che la distanza,
espressa come sopra, risulta essere invariante rispetto a traslazioni e rotazioni: vuol dire che se sposto l’origine degli assi, oppure se ruoto gli assi di un angolo qualun-que, cambieranno sì i valori numerici delle coordinate dei due punti, ma non quello della distanza.
Ora scriviamo la stessa relazione con una simbologia più compatta, immagi-nando anche che A e B siano punti molto vicini tra loro:
ds2= dx2+ dy2.
L’espressione è identica alla precedente, con la sola differenza che qui con dx, dy e ds vogliamo rappresentare variazioni molto piccole, infinitesimali, delle ri-spettive grandezze (la “d” minuscola viene usata dai matematici per indicare dif-ferenze infinitesimali).
Applicando il teorema di Pitagora, abbiamo dato per scontato che il foglio di carta fosse adagiato sul piano di un tavolo, o comunque su una superficie piana.
Questo assunto è importante e va chiaramente esplicitato, poiché non ci sentiremmo sicuri di aver scritto la corretta espressione della distanza se il foglio aderisse ela-sticamente, per esempio, alla superficie di una sfera.
In effetti, la geometria appresa a scuola, quella basata sui cinque postulati di Eu-clide, è relativa a uno spazio “piatto” e andrebbe riformulata in toto se volessimo applicarla a figure geometriche disegnate su una superficie sferica. A differenza che su un piano, sulla superficie di una sfera non è più vero che due linee parallele non si incontrano mai: basti pensare ai meridiani terrestri, che sono paralleli fra loro quando tagliano l’equatore, ma poi convergono ai poli. E non è neppur vero che la somma degli angoli interni di un triangolo fa 180°. Basti pensare al triangolo, necessariamente curvilineo, disegnato da due meridiani, diciamo quello di Roma (12°,5 Est) e quello di Mosca (37°,5 Est), e dal tratto di equatore che li separa, con vertice al polo nord. I tre angoli interni misurano rispettivamente 90°, 90° e 25° e la loro somma fa 205°.
Nel XIX secolo, fior di matematici del calibro di Carl F. Gauss (1777-1855) e
y z
La distanza tra due punti A e B in uno spazio bidimensionale si calcola con il teorema di Pitagora:
AB2= (xB– xA)2+ (yB– yA)2. Nel caso dello spazio a tre dimensioni, basta applicare per due volte lo stesso teorema. La prima volta per ricavare A’B’2= (xB– xA)2+ (yB– yA)2, la seconda per ottenere, da questo e da (zB– zA), il risultato: AB2= (xB– xA)2+ (yA– yB)2+ (zB– zA)2.
(5.1)
Bernhard Riemann (1826-1866) affron-tarono queste tematiche e svilupparono le cosiddette geometrie non euclidee, re-lative a superfici dotate di un’intrinseca curvatura. La superficie di una sfera si dice a curvatura positiva, ma esistono anche superfici a curvatura negativa, in-fossata come è quella di una sella, nelle quali due linee che per un tratto risultano parallele sono destinate a divergere e in cui la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di 180°. Il piano, l’abituale spazio “piatto” euclideo, è a curvatura nulla.
È facilmente intuibile che nelle geo-metrie non euclidee l’espressione della distanza tra due punti vicini – quella che si dice la loro metrica – sarà diversa e un po’ più complicata della (5.1), e che quella delle superfici ellittiche o sferiche (a curvatura positiva) differirà da quella delle superfici iperboliche (a curvatura negativa). Di fatto, la forma matematica che esprime la distanza tra due punti vi-cini viene ad essere il biglietto da visita attraverso il quale uno spazio ci rivela la
sua intrinseca curvatura. E ciò vale per spazi di qualunque dimensione.
Ma restiamo, per semplicità, agli spazi a curvatura nulla. Volendo estrapolare l’espressione (5.1) a uno spazio tridimensionale scriveremo:
ds2= dx2+ dy2+ dz2
facilmente giustificabile con la geometria euclidea, facendo ancora uso del teorema di Pitagora. E potremmo proseguire in modo analogo per spazi ideali a quattro, cinque o più dimensioni.
Lo spaziotempo della Relatività è però uno spazio un po’ particolare, perché delle sue quattro dimensioni tre sono spaziali e una temporale. L’espressione che descrive la distanza tra due suoi punti, che faremmo meglio a chiamare “intervallo tra due eventi”, vista la particolare natura dei punti spaziotemporali, risulta essere la seguente:
ds2= cdt2– (dx2+ dy2+ dz2)
dove dt è l’intervallo di tempo infinitesimale che separa i due eventi e c è la velocità della luce. Come si ricava la (5.3), nota come metrica dello spaziotempo quadridi-mensionale di Minkowski? Non ci interessa discuterlo qui: ci basti sapere che questa espressione, come già la (5.1) e la (5.2), garantisce l’invarianza di ds2per traslazioni e rotazioni nello spaziotempo.
Si noti che l’espressione è la differenza tra due termini. Il primo rappresenta la
N
La somma degli angoli interni di un triangolo di-segnato su una superficie sferica è maggiore di 180°: si pensi al triangolo sferico delimitato dal meridiano di Roma, da quello di Mosca (diffe-renza di longitudine 25°) e dall’equatore. Inol-tre, due segmenti paralleli (come sono i meridiani all’equatore) sono destinati a incon-trarsi (ai poli). Basta questo per capire che su una superficie sferica non vale l’usuale geome-tria euclidea.
(5.2)
(5.3)
distanza percorsa da un segnale luminoso nell’intervallo di tempo dt che separa i due eventi, il secondo rappresenta la distanza spaziale tra i punti in cui gli eventi hanno luogo: dunque, nello spaziotempo si tiene conto anche della “distanza tem-porale” oltre che della “distanza spaziale” vera e propria. Spazio e tempo nella Re-latività sono inscindibili. Da notare infine che la distanza spaziale e quella temporale non sono singolarmente invarianti per traslazioni e rotazioni. Lo è invece la loro combinazione nella metrica data dalla (5.3).
Trattandosi poi di una differenza, il quadrato dell’intervallo (ds2) non è detto che sia sempre e solo un numero positivo; può essere anche negativo o nullo.
Quando è nullo, nel caso della distanza spaziotemporale tra due eventi che si producono, per esempio, l’uno 0,005s dopo l’altro, in luoghi separati da 0,005 se-condi luce (pari a 1500 km), vuol dire che il tragitto spaziale che connette i due eventi è quello stesso che un segnale luminoso percorrerebbe per andare dall’uno all’altro. Che è anche il tragitto più breve in assoluto: è quello che si dice una linea geodetica. In uno spazio piano, le linee geodetiche sono rettilinee, in spazi a geo-metria ellittica o iperbolica sono curve e quindi, d’ora in poi, non ci sorprenderemo più se ci verrà detto che la propagazione della luce può anche non essere rettilinea.
Dipende infatti dalla metrica degli spazi attraversati. Tra gli infiniti tragitti che con-nettono due eventi, la luce sceglie sempre di percorrere quello più breve, e pazienza se non è rettilineo!
Quando poi la differenza dà un risultato negativo, e perciò l’intervallo (la radice quadrata di ds2) non sarebbe più misurato da un numero reale, ma da un numero immaginario, il risultato ci segnala che tra i due eventi non ci può essere alcuna di-pendenza causale, nel senso che l’unica possibile connessione fisica tra di essi sa-rebbe per il tramite di un segnale superluminale, più veloce della luce, il che è impossibile. È ciò che accade per eventi separati nel tempo diciamo di 1 secondo, che accadono a una distanza maggiore di 1 secondo luce: tra i due eventi non può esserci stato interscambio di informazione, di modo che essi si sono prodotti nella più totale e reciproca autonomia, all’insaputa l’uno dell’altro. Il primo non può es-sere stato né la causa né l’effetto del secondo, e viceversa.