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Dar fondo alle risorse empiriche

Anche in questa circostanza, Hubble si dimostrò campione di prudenza e d’astuzia. Il la-voro presentato nel 1929 era composto da due articoli separati, il suo e uno di Humason, al quale egli rimandava come se si trattasse di risultati indipendenti che si sostenevano reciprocamente (figurarsi: quando non trascorrevano insieme le gelide nottate osservative, i due restavano incollati al telefono per ore, l’uno sulla montagna e l’altro in Istituto, a Pasadena). Ciò che gli premeva era di non urtare eccessivamente il senso comune dei colleghi: così, per attutire il colpo, solo verso la fine del suo articolo Hubble accenna al-l’esistenza di un modello cosmologico, proposto da Willem de Sitter nel 1917, che con-templa la possibilità di un Universo in espansione, ove il redshift è proporzionale alla distanza. Tuttavia, né allora né poi, Hubble prese mai pubblicamente una posizione sulle implicazioni cosmologiche del suo lavoro, che doveva essere riguardato come un mero risultato empirico.

C’è chi sostiene che questo atteggiamento cauto, ma insinuante, derivasse dall’espe-rienza fatta in gioventù nei tribunali americani, dove Hubble avrebbe affinato le sue tec-niche comunicative e le tattiche per strappare verdetti favorevoli alle giurie. Una tesi quantomeno discutibile, perché gli studi di diritto si esaurirono con l’anno di Oxford, né si hanno riscontri oggettivi di alcuna pratica di Hubble nel campo forense. In realtà, le

Ancora ai nostri giorni, ricavare dai dati empirici il valore della costante di Hubble non è un com-pito semplice. Le cause sono le incertezze sulle distanze (bisogna trovare candele-standard affi-dabili) e sulle velocità (bisogna escludere le eventuali “contaminazioni” dovute a moti locali). In questa figura sono riportati i valori di H0, con i relativi margini d’errore, ricavati da diversi autori negli ultimi due decenni. La striscia grigia segna l’intervallo entro cui si colloca il valore che viene generalmente assunto nel modello standard attuale, che è stato ottenuto con misure del Telescopio Spaziale “Hubble” e della missione WMAP.

astuzie dialettiche, se tali possono essere definite, o le tecniche persuasive fanno parte del bagaglio di ogni scienziato e comunque non hanno nulla di disdicevole in sé. D’altronde, le misure erano buone, lui lo sapeva, e il timore era che non venissero prese nella consi-derazione che meritavano: per questo si preoccupava di preparare il terreno, ingegnandosi a rimuovere, con delicatezza, le barriere psicologiche innalzate dal pregiudizio.

Se si astenne dal collocare la legge da lui trovata in un contesto più ampio, accoglien-done le conseguenze dirompenti, era anche perché egli era sinceramente convinto della preminenza delle osservazioni sulle speculazioni teoriche. Atteggiamento discutibile, ma poteva essere altrimenti? Non era ciò che gli insegnava la sua vicenda personale? Egli era un astronomo eminentemente osservativo, poco dedito alle teorie astratte, e non a caso i suoi risultati erano il frutto dell’utilizzo del più potente strumento d’osservazione che esistesse al mondo. Le sue lastre fotografiche e le sue misure fotometriche, non i modelli teorici, avevano risolto il problema della natura delle nebulose e avevano rivelato la fuga

La relazione velocità-distanza

Il grafico qui sotto è la riproduzione dell’originale apparso in The Realm of the Ne-bulae, il volume del 1936 con il quale Hubble spiegava al grande pubblico contenuti, modalità e risultati delle sue ricerche. Nel libro, di grafici siffatti ce ne sono tre, co-struiti usando come candela-standard per le stime delle distanze la stella più brillante della rispettiva galassia, la luminosità totale delle singole galassie e le dieci galassie più brillanti di un ammasso. Questo è il secondo dei tre.

In ascissa è riportata la magnitudine apparente delle galassie in esame: andando verso destra, a magnitudini crescenti, le galassie osservate sono sempre più deboli e lontane (nell’ipotesi che siano candele-standard, ossia che abbiano la stessa lumi-nosità intrinseca). In ordinata abbiamo invece il logaritmo in base 10 della velocità di recessione espressa in km/s e calcolata a partire dal redshift, interpretato come effetto Doppler. Per esempio, se il redshift vale 0,007, il che significa che le righe sono spostate verso il rosso di 7 parti su 1000 rispetto al valore a riposo della lun-ghezza d’onda, allora la velocità di recessione è pari a 7 millesimi della velocità della luce (0,007×300.000 = 2100 km/s): il logaritmo di 2100 è 3,32 e tale è il valore che viene riportato nel grafico.

Questo diagramma illustra la famosa legge di Hubble, che esprime la crescita li-neare della velocità (v) di recessione cosmologica con la distanza (d) delle galassie:

H0, la costante di Hubble, ne rappresenta la costante di proporzionalità: v = H0· d.

Tuttavia, la formula empirica che Hubble riporta al piede del grafico (equazione

Il grafico velocità/magnitudine ripor-tato nel libro di Hubble The Realm of the Nebulae (1936), relativo alle ga-lassie di campo. L’autore in didascalia fa notare come per le galassie più vi-cine, oltre alla generale velocità di re-cessione, possa essere presente una significativa componente di velocità dovuta a moti locali, ciò che induce una notevole dispersione dei valori mi-surati.

delle galassie. Col che, non è da credere che Hubble sottovalutasse la teoria; semplice-mente, riteneva che non fossero ancora maturi i tempi per delineare un quadro interpre-tativo dell’Universo nel suo complesso, e che gli sforzi in tal senso fossero per lo meno prematuri. O, forse, non si sentiva personalmente pronto per compiere un passo in quella direzione.

Del resto, ce lo dice lui stesso, in chiusura del suo The Realm of the Nebulae (“Il Regno delle Nebulose”, 1936), un libro che è un vero capolavoro di scrittura, al tempo stesso un testo scientifico, un manuale didattico e un’opera divulgativa: “Al crescere della distanza le nostre conoscenze tendono a svanire rapidamente. Alla fine raggiungiamo il confine dell’incertezza – il limite estremo per i nostri telescopi. Qui misuriamo le ombre, e ci muoviamo tra indefinibili errori di misura per trovare qualche punto fermo appena più stabile e sicuro. La ricerca proseguirà. Ma solo quando avremo dato fondo a tutte le risorse empiriche potremo inoltrarci nel dominio vago delle congetture teoriche”.

della linea interpolante) sembra ben diversa da questa, anche perché la velocità viene messa in relazione con la magnitudine apparente e non con la distanza.

Come trasformarla in una forma simile alla (4.1)?

Ricordiamo anzitutto la fondamentale relazione che lega la magnitudine appa-rente m con la magnitudine assoluta M di un qualunque oggetto astronomico pas-sando attraverso la sua distanza d (espressa in parsec, pc): m = 5log d – 5 + M.

Hubble aveva stabilito che per una media galassia di campo fosse M = –15,1. Sosti-tuendo questo valore nella formula e dividendo poi entrambi i membri per 5 si ha:

0,2m = log d – 4,02.

Prendiamo ora l’equazione interpolante di Hubble (log v = 0,2m + 0,76), dove v è la velocità espressa in km/s, e sostituiamo il termine 0,2m con l’espressione appena ricavata; si ottiene:

log v = log d – 3,26

che, ricordando le proprietà dei logaritmi, si può anche scrivere così:

log v – log d = log (v/d) = –3,26 da cui:

v/d = 10–3,26 o anche:

v = 0,000550 d.

Se poi decidiamo di esprimere la distanza non in pc, ma in milioni di pc (Mpc), si ha:

v = 550 d che è la legge di Hubble nella sua forma canonica.

Attualmente, il valore della costante viene stimato quasi un ordine di gran-dezza inferiore a quello ricavato da Hubble: circa 72 km s–1Mpc–1.