Dopo che anche James Bradley, terzo Astronomo Reale, attorno al 1725 aveva tentato senza successo di misurare la parallasse di una stella (per la precisione, della gamma Draconis), Herschel attaccò il problema riprendendo in considerazione un ingegnoso suggerimento che Galileo aveva espresso nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: lo spostamento parallattico di una stella sarebbe stato assai più semplice da mi-surare se, invece di riferire la posizione stellare a un punto “canonico” del cielo, come il polo celeste, oppure lo zenit dell’osservatore, con tutti gli errori che ciò potrebbe com-portare in sede di riduzione delle misure, la si fosse riferita a un punto angolarmente vi-cino alla stella in questione, discosto solo pochi primi d’arco da essa (1 primo d’arco, 1', è pari a 60") e perciò presente nello stesso campo telescopico.
La parallasse e il parsec
Una stella osservata da punti diametralmente opposti sull’orbita terrestre si proietta sulla volta celeste in due posizioni diverse. Si assume come riferimento per la misura delle posizioni un insieme di stelle (o di altre sorgenti celesti) che siano molto lontane, così da non essere soggette esse stesse ad alcun effetto di parallasse. La misura dello spostamento apparente consente di ricavare la distanza della stella da noi; anzi, questo è il metodo più sicuro (l’unico veramente affidabile) che gli astronomi abbiano a di-sposizione per misurare le distanze degli astri.
Gli astronomi definiscono l’angolo di parallasse p di una stella come la metà dello spostamento parallattico (vedi figura) o, equivalentemente, come l’angolo sotteso
stella vicina Terra in luglio
Sole
A B C A B C
B A
C
Terra in gennaio
dove si proietta in cielo la stella vicina
in gennaio in luglio
stelle di fondo molto lontane
Osservata a sei mesi di distanza, per effetto della parallasse una stella relativamente vicina sembra mutare posizione rispetto alle stelle lontane.
L’idea era perciò quella di individuare coppie di stelle angolarmente vicine, quelle che chiamiamo stelle doppie, utilizzando la più debole delle due, che presumibilmente è la più lontana, come riferimento per la misura di posizione, e la più brillante, verosi-milmente più vicina a noi, come la stella di cui misurare la parallasse. La prima è il lon-tano orizzonte e la seconda è il dito. Quello che ci si aspettava di trovare era che la stella più brillante mostrasse un effetto di parallasse rispetto alla debole vicina, ossia che le
“saltellasse” attorno con cadenza periodica annua.
Sia per Galileo, sia per Herschel, la spiccata differenza di brillantezza tra le due stelle dava garanzia sul fatto che la stella di fondo non fosse soggetta a spostamento parallattico, o comunque che questo fosse trascurabile rispetto all’altro: l’ipotesi implicitamente
as-stella
Terra 1 UA
p p
La parallasse di una stella viene de-finita come la metà dello sposta-mento parallattico, o anche come l’angolo sotteso dalla Unità Astro-nomica stando alla distanza della stella considerata.
dall’Unità Astronomica (la distanza media Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km) alla distanza della stella in esame. Definiscono inoltre come unità di misura delle distanze astronomiche il parsec, sim-bolo pc, che è la distanza di una sorgente la cui pa-rallasse è pari esattamente a 1".
Essendo gli angoli in gioco così piccoli, v’è una relazione matematica molto semplice tra la distanza (d, espressa in pc) e la parallasse (p, in secondi d’arco) di una stella: d = 1 / p. La prima è l’inverso della seconda, e viceversa. Così, una stella che abbia una parallasse p = 0",2 (un quinto di secondo d’arco) disterà 5 parsec: d = 1 / 0,2 = 5 pc.
Il parsec è l’unità che normalmente gli astronomi utilizzano nella letteratura tecnica; nei testi divulga-tivi risulta invece più intuitivo usare l’anno luce (al), definito come la distanza che la luce, spostandosi alla velocità di 300.000 km/s, percorre in un anno.
Dunque:
1 al = 300.000 × 365 × 24 × 3600 = 9,46·1012km La notazione esponenziale 1012è un modo com-patto di scrivere “mille miliardi” (103= 1000; 106= 1.000.000 e così via, con tanti 0 dopo l’1 quanti ne indica l’esponente del 10).
Poiché un parsec equivale a 3,26 anni luce (1 pc
= 3,08·1013km), Sirio dista da noi 2,64 pc, come si può anche evincere dal fatto che la sua parallasse è p = 0",379. Infatti d = 1 / 0,379 = 2,64 pc.
sunta era che le stelle avessero pressoché la stessa luminosità intrinseca, di modo che la scarsa brillantezza apparente di una delle due fosse sintomo di una sua maggiore lonta-nanza. Oggi sappiamo bene che si tratta di un’ipotesi grossolana perché esistono stelle che sono addirittura migliaia o milioni di volte intrinsecamente più luminose di altre, ma per cercare di affrontare il problema si doveva pur partire da qualche ipotesi sempli-ficatrice. Altra ipotesi implicita era che la vicinanza in cielo delle due stelle fosse pura-mente prospettica, ossia che le due si trovassero angolarpura-mente così vicine solo per la felice circostanza che la direzione d’osservazione era praticamente la stessa per entrambe.
Si assumeva pertanto che si trattasse di stelle doppie visuali, e non di un sistema binario, costituito da due componenti fisicamente legate fra loro dalla forza di gravità, in moto orbitale reciproco, e perciò alla stessa distanza da noi.
Il risultato di una prima rassegna completa del cielo alla ricerca di stelle doppie fu pubblicato da Herschel nel 1782: coadiuvato da Caroline, aveva compilato un catalogo che ne comprendeva 269, di cui oltre l’80% erano nuove scoperte. Ma già due anni dopo il catalogo si arricchiva di altre 434 coppie e ulteriori 145 sarebbero poi comparse nel-l’ultimo aggiornamento del 1821, portando il totale a 848. Per ogni stella doppia, i due fratelli non mancavano di menzionare le separazioni angolari, le differenze di luminosità e di colore delle componenti, la direzione della loro congiungente, più ogni altra infor-mazione descrittiva che fosse ritenuta degna di nota.
Paradossalmente, l’abbondante messe di scoperte, mentre costituiva un indubbio avanzamento nella conoscenza del cielo, si abbatteva come un colpo di maglio sull’im-pianto ipotetico del programma di Herschel e lo sgretolava. Se le stelle fossero distribuite a caso nel Cosmo, la probabilità a priori di trovarne due così brillanti e così angolarmente vicine fra loro, come sono, per esempio, le componenti di Albireo (la stella beta Cygni), che hanno magnitudine rispettivamente 3,1 e 4,6 e sono separate solo da una trentina di secondi d’arco, oppure quelle di Mizar, di Cor Caroli, di Castore e di molte altre ancora, sarebbe dell’ordine di 1:1000 o anche di 1:10.000. Dunque, mentre già sarebbe esigua la probabilità di scovare uno solo di tali casi, gli Herschel ne avevano scoperti quasi un migliaio!
Evidentemente, c’era qualcosa di sbagliato nell’ipotesi di partenza. La statistica stava suggerendo a Herschel che le due componenti non potevano essere vicine per un mero effetto prospettico e che invece, nella stragrande maggioranza dei casi, dovevano essere legate da un vincolo gravitazionale, ossia che costituivano un vero sistema binario. In tal caso, dovevano anche essere fisicamente vicine fra loro, quindi alla stessa distanza dalla Terra, vanificando la speranza di Herschel di mettere in evidenza la parallasse dif-ferenziale. Niente stella più brillante che “saltella” attorno all’altra: semmai, si sarebbero potuto vedere entrambe le componenti “saltellare” nella stessa misura attorno a un even-tuale astro lontanissimo sullo sfondo; ma i tempi non erano ancora maturi perché l’effetto potesse essere rilevato.
Un paio di decenni dopo la pubblicazione del suo primo catalogo, quando a seguito di ripetute osservazioni seppe mettere in luce che almeno in una mezza dozzina di sistemi le componenti andavano soggette a esigue variazioni di posizione dovute al reciproco moto orbitale, Herschel aveva incontrovertibilmente dimostrato che si era di fronte a ge-nuini sistemi binari e non a stelle doppie visuali. Nei casi in cui poté determinare il pe-riodo orbitale, lo trovò dell’ordine dei secoli o dei millenni.
Il programma delle parallassi differenziali era fallito, ma Herschel poteva lenire la delusione con due risultati rilevanti: da un lato, aveva documentato che le stelle esibi-scono luminosità intrinseche largamente differenziate e, dall’altro, che la forza gravita-zionale agiva fra i corpi celesti dell’intero Universo, non solo fra quelli del Sistema Solare. Quest’ultima conclusione era particolarmente ricca di significato e di conse-guenze, in quanto spingeva un passo più in là la scoperta da parte di Newton che la me-desima forza di gravitazione è responsabile tanto della caduta delle mele dagli alberi, qui sulla Terra, quanto del moto orbitale della Luna attorno al nostro pianeta. Per certi versi, questo lavoro sulle stelle doppie stabiliva definitivamente la natura universale della gravità, matematicamente espressa dalla legge di Newton dell’inverso del quadrato della distanza, e legittimava gli astronomi ad applicare in ogni ambito cosmico le leggi fisiche ricavate nei laboratori terrestri.
Herschel era ben conscio non solo della portata scientifica, ma anche del valore epi-stemologico che si doveva attribuire a quell’apparentemente asettico catalogo di stelle doppie stilato in tanti anni di lavoro e sacrifici condivisi con la fedele sorella. Tanto che un giorno, riferendosi all’episodio biblico dell’incontro di Saul con il sacerdote Samuele, ebbe a dire che anch’egli, proprio come Saul, era uscito per ricercare il branco delle asine perdute dal padre ed era ritornato a casa con la corona di re d’Israele.