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Come interpretare il redshift?

Se la (6.2) è la relazione teorica che scaturisce dai modelli di Universo omogeneo e isotropo, cosa possiamo dire dell’analoga legge (4.1) che Hubble scoprì tra il 1929 e il 1931? La questione merita più di una precisazione, la prima delle quali è la sottolineatura della natura empirica di quest’ultima: scaturì infatti da osserva-zioni, ardue e faticose, e solo in seguito incrociò i modelli che l’avevano in qualche modo prevista. È poi da rimarcare che le variabili misurate da Hubble erano il red-shift z delle galassie considerate [z = (λ – λ0) / λ0] e le loro distanze d. Queste ultime sono distanze di luminosità, ma, trattandosi di misure effettuate su galassie molto vicine, la distanza di luminosità coincide di fatto con quella propria (e con tutte le altre): per questo la indicheremo con d senza ulteriori specificazioni.

Hubble misurava i redshift, ma nei grafici e nella sua legge compaiono le velo-cità. Questo perché egli intese lo spostamento delle righe spettrali verso il rosso come l’effetto di una normale velocità in allontanamento, interpretabile alla luce dell’usuale effetto Doppler. Concettualmente, ciò era improprio, perché in questo caso non abbiamo a che fare con un moto di un oggetto nello spazio, ma dell’espan-sione dello stesso spazio. L’effetto Doppler interviene quando una sorgente è

ani-mata da un moto spaziale in direzione radiale, che qui supporremo in allontana-mento, rispetto a un osservatore: la lunghezza d’onda della radiazione emessa (λ0) si allunga perché la sorgente si sposta nel riferimento dell’osservatore, cambia le proprie coordinate, se ne allontana, di modo che la distanza tra due “creste” suc-cessive dell’onda luminosa emessa, che è misurata dalla lunghezza d’onda (λ), ri-sulta essere maggiore di λ0 di quel tanto di cui la sorgente si è spostata nel tempo che intercorre tra l’emissione di una cresta e della successiva. Nel riferimento del-l’osservatore, la radiazione muta la sua lunghezza d’onda da λ0a λ nel momento stesso in cui viene emessa e poi la mantiene costante lungo tutto il tragitto, fino allo spettrometro che la misura.

Il redshift cosmologico è tutt’altra cosa. Consideriamo una sorgente che non vada soggetta a moti spaziali, che sia ferma, come noi, nel sistema comovente.

Quando la sua luce inizia il viaggio verso di noi, la lunghezza d’onda è λ0; mentre si propaga, lo spazio si espande, e perciò cresce via via anche la distanza fra due creste successive: la lunghezza d’onda va progressivamente aumentando lungo tutto il tragitto, fin quando si consegna ai nostri strumenti come λ. Se il tragitto è lungo, l’aumento sarà cospicuo, e viceversa. Il redshift cosmologico è dunque una diretta conseguenza dell’espansione cosmica e ci racconta di quanto è cresciuto il fattore di scala nel tempo impiegato dalla luce per completare il suo viaggio dalla sorgente fino a noi.

Nell’effetto Doppler, come abbiamo già visto nel capitolo 2, formula (2.1), pos-siamo risalire alla velocità v del corpo celeste che ci invia la radiazione moltipli-cando il redshift per la velocità (c) della luce: v = z · c. Questa era l’operazione che Hubble effettuava, interpretando di fatto il redshift come effetto Doppler.

Sa-Gli spettri simulati di quattro sorgenti poste a diversi redshift z. In particolare, viene segnalata la riga Hα dell’idrogeno in emissione, che nello spettro di riferimento (quello in basso, z = 0) si trova alla lunghezza d’onda di 6563 Å. Negli altri, si trova rispettivamente a 6891, 7219, 7547 e 7876.

rebbe invece stato più opportuno enunciare la legge empirica per quello che era, come una relazione di proporzionalità tra il redshift (z) e la distanza, scrivendo:

z = cost. · d = H0· d / c

dove, nella seconda parte, abbiamo introdotto la costante di Hubble H0. Cosa cam-bia? Agli effetti pratici, poco o nulla, ma solo perché abbiamo a che fare con ga-lassie vicine. I valori più elevati di redshift che Hubble e Humason misuravano erano infatti dell’ordine del decimo, diciamo attorno a z = 0,10-0,15. Il grande astronomo americano non era nelle condizioni di spingersi più in là con la stru-mentazione del tempo.

L’interpretazione del redshift come effetto Doppler è però concettualmente sba-gliata*1. Lo si capisce considerando che, per galassie lontane, il redshift avrebbe po-tuto essere anche ben maggiore di 1. E allora, se una galassia ha un redshift z = 1,5 cosa significa? Che la sua velocità spaziale è una volta e mezza quella della luce?

È un assurdo: la Relatività Speciale esclude che un moto nello spazio possa prodursi a velocità superluminali. Né vale sostituire la semplice relazione v = z · c con quella dell’effetto Doppler relativistico, che si usa per moti spaziali d’altissima velocità, v = c · (z2+ 2z) / (z2+ 2z + 2), la cui formulazione garantisce che il valore di v non sia mai superiore a c. Non vale, perché comunque equivarrebbe ad accettare il red-shift come indicativo di un moto nello spazio, di un classico effetto Doppler. L’in-terpretazione da dare è invece un’altra.

Supponiamo che per una certa galassia si misuri z = 0,2. Significa che la lun-ghezza d’onda λ che riceviamo si è allungata del 20% rispetto alla λ0 originaria-mente emessa, e siccome l’aumento della λ è frutto dell’espansione cosmica, significa anche che, nel tempo intercorso tra l’emissione e l’osservazione, il fattore di scala R(t) è cresciuto del 20%; se R(allora) valeva 1, R(ora) vale 1,2, ossia:

R(ora) / R(allora) = 1,2 = 1 + z. Il fattore (1 + z) ci dà la misura della crescita in-tervenuta del fattore di scala. Se per un lontano ammasso si misura z = 2, vuol dire che oggi tutte le distanze nell’Universo sono cresciute di 3 volte rispetto al-l’epoca in cui partiva dall’ammasso la luce che adesso raccogliamo; tutte le scale lineari cosmiche erano allora 3 volte minori di quanto siano oggi.

Il redshift di una lontana sorgente ci consegna dunque un’informazione impor-tante riguardo all’andamento della funzione R(t), benché non esaustiva. Ci parla infatti della crescita relativa del fattore di scala, ma non ci rivela di per sé in quanto tempo questa crescita sia avvenuta.

È come se al viaggiatore su un treno si dicesse che, tra le ultime due fermate, il tragitto totale finora percorso, misurato dalla partenza, è cresciuto del 20%, senza però che egli abbia potuto cronometrare quanto tempo sia trascorso dall’ultima fer-mata, né che abbia un’idea precisa di quanti chilometri dividano le ultime due sta-zioni. Chiedergli quanto tempo e quanti chilometri lo separino attualmente dalla partenza sarebbe davvero chiedergli troppo, anche perché non si sa se il treno viaggi a velocità costante, se stia accelerando, oppure rallentando. Egli potrebbe dare una risposta solo se avesse la certezza del tipo di moto e del valore dei principali para-metri cinematici, che è poi ciò che gli astronomi si sforzano d’ottenere dalle osser-vazioni e che i cosmologi riversano nei loro modelli.

Insomma, il redshift di una sorgente ci dice molto, ma per dirci tutto lo si deve interpretare alla luce di un modello. Per esempio, se fosse corretto il modello stan-dard che si assume al momento in cui si scrive questo libro, il redshift z = 2

corri-(6.3)

sponderebbe a una sorgente con una distanza all’emissione (da) di 5,7 miliardi di anni luce, distante attualmente (dpr) 17 miliardi di anni luce e con distanza di lumi-nosità (dl) di 51 miliardi di anni luce. Il lookback time è di 10,2 miliardi di anni. Si noti la relazione di cui si è già detto fra le tre distanze: dl = (1 + z) dpr= (1 + z)2da.

La legge di Hubble espressa con la velocità al primo membro, invece che il red-shift, è più facile da memorizzare, ed è anche più intuitiva, essendo la velocità un concetto più vicino alla nostra mente che un redshift. Peccato che rischi di essere fuorviante. È comunque la formulazione che si ritrova più spesso sui libri divulga-tivi e sui testi scolastici, dove normalmente troviamo scritto che tutte le galassie si stanno allontanando dalla nostra (il che è vero, ma sarebbe meglio aggiungere:

“standosene ferme nel sistema comovente”). Obiettivamente, si fa fatica ad abban-donare il concetto di velocità. Allora proviamo a interpretarlo intuitivamente in un altro modo.

Orizzonti

Ritorniamo per un momento a volare sopra l’Universo e ad abbracciare con lo sguardo la mappa del mondo. Da là fuori rivolgiamo la nostra attenzione alla Via Lattea e a una galassia che, per un astronomo terrestre, ha un redshift z = 0,2. Sic-come possiamo assumere della lunghezza che meglio ci aggrada il regolo elastico indicativo dell’espansione del fattore di scala, lo immagineremo esteso quanto la

Nell’Universo in espansione, la luce che l’osservatore terrestre riceve ha una lunghezza d’onda mag-giore di quella che fu emessa dalla sorgente. L’incremento relativo (Δλ/λ0) è pari all’incremento re-lativo della distanza della sorgente (Δd/d), o anche del fattore di scala (ΔR/R), intervenuti nel tempo impiegato dalla luce per raggiungerci. Se, per esempio, la lunghezza d’onda di una certa riga spet-trale che riceviamo è maggiore del 20% del suo valore di laboratorio (z = 0,2), vuol dire che, nel tempo trascorso tra l’emissione e la ricezione, tutte le distanze nell’Universo sono cresciute del 20%.

Il redshift cosmologico segnala l’intervenuta espansione dello spazio e non ha niente a che vedere con il redshift dell’effetto Doppler, che segnala il moto di una sorgente nello spazio.

distanza d che separa le due galassie. Affidiamo un’estremità del regolo all’astro-nomo, mentre l’altra, all’altezza della lontana galassia, si allungherà in continua-zione, trascinata dall’espansione cosmica proprio come la sottostante galassia.

Quella che interpretavamo come velocità della galassia, intendendo erroneamente che si trattasse di un suo moto nello spazio, è in realtà la velocità con cui si allontana dall’astronomo terrestre l’altra estremità del regolo elastico: precisamente, è la ve-locità a cui si espande attualmente una regione spaziale estesa quanto la distanza che c’è tra la Via Lattea e la galassia considerata; se tale regione fosse estesa solo la metà, anche la velocità sarebbe la metà, sarebbe doppia se fosse doppia e così via in proporzione. Se proprio vogliamo continuare a parlare di “velocità”, perché siamo particolarmente affezionati a quel concetto, sforziamoci di immaginarla come la velocità d’allungamento di un impalpabile regolo elastico. Niente a che vedere con la velocità nello spazio di una sorgente celeste. Niente a che vedere con la Relatività Ristretta e con l’effetto Doppler.

Nel nostro esempio, l’estremità del regolo elastico recede di circa 60mila chilo-metri ogni secondo (0,2 · c). Se consideriamo galassie ancora più lontane, e con-seguentemente regoli sempre più lunghi, l’allungamento della barra elastica avverrà a tassi sempre maggiori: 80, 100, 200mila chilometri al secondo e oltre. Prima o poi, raggiungeremo una distanza alla quale la velocità di crescita sarà di 300mila chi-lometri ogni secondo, pari alla velocità della luce. La distanza a cui ciò si verifica di-pende solo dal valore di H0e viene detta lunghezza di Hubble (LH): LH= c / H0. La definizione è diretta conseguenza della legge di Hubble, in cui si è posto v = c. Con H0 = 72 km s–1Mpc–1(= 2,3 · 10–18s–1), si ha LH= 13,6 miliardi di anni luce. Questa è la lunghezza di Hubble attuale.

La sfera di raggio LH, centrata sulla Via Lattea, è detta sfera di Hubble: la sua superficie rappresenta il confine tra la regione spaziale entro la quale le galassie recedono a velocità minore di quella della luce e la regione in cui la recessione è superluminale. Ogni galassia ha la sua sfera di Hubble e a ogni epoca cosmica il raggio sarà diverso, poiché diverso è il valore di H(t).

Al di là della lunghezza di Hubble cosa succede? Le galassie si allontanano a una velocità superluminale, senza per questo infrangere alcuna legge fisica. La Re-latività Ristretta stabilisce infatti che nessun corpo materiale può muoversi attra-verso lo spazio a velocità superluminale, ma la recessione delle galassie, che ubbidisce alle leggi della Relatività Generale, non è un moto attraverso lo spazio:

è un’altra cosa. Per le galassie che si muovono trascinate dall’espansione dello spa-zio non è fissato alcun limite di velocità. Quindi, in un Universo infinito ci sono infinite galassie – tutte quelle più distanti della lunghezza di Hubble – che si stanno allontanando da noi molto più velocemente della luce. Anche cento o mille volte più veloci.

Possiamo vedere queste galassie “superluminali”? Generalmente, la risposta che si dà è negativa: esse rimarrebbero per sempre nascoste alla nostra vista. Ma non è vero. Alcune le possiamo osservare, e proveremo a spiegarlo pur sapendo che ri-schiamo di creare qualche confusione nella testa del lettore. Del che ci scusiamo in anticipo, ma d’altra parte i concetti che andremo a toccare nelle prossime righe sono tra i più tortuosi che si incontrano in cosmologia.

Pensiamo a un fotone che parta da una di queste galassie e che decida di rag-giungerci: vede la nostra barra elastica e pensa bene di utilizzarla come un ponte verso la Via Lattea. Si incammina lungo di essa, ma la barra si allunga sotto i suoi piedi: è come se il fotone corresse su un tapis roulant impazzito, regolato a una

velocità eccessiva. Nel sistema di riferimento locale della galassia che lo emette, il fotone galoppa alla velocità della luce, si allontana dalla sua sorgente di 300mila chilometri ogni secondo, ma il regolo elastico è più veloce, e ogni suo sforzo nel tentativo di raggiungerci risulterà vano. Per noi il fotone recederà, trascinato sempre più lontano dall’espansione cosmica, ma non è necessariamente vero che non potrà raggiungerci mai.

Quando si scrive che è impossibile ricevere segnali da una galassia che recede con velocità superiore a quella della luce, si fa l’errore di confondere la sfera di Hubble con il volume dell’Universo osservabile, quello contenuto entro l’orizzonte cosmologico (detto anche orizzonte delle particelle). In realtà, si tratta di concetti diversi e ben distinti. Per esempio, non sono le sorgenti che stanno sulla sfera di Hubble ad avere un redshift infinitamente grande, ma quelle poste alla distanza dell’orizzonte cosmologico.

La porzione d’Universo accessibile alle osservazioni è quella che risiede entro la massima distanza che la luce ha potuto percorrere dal tempo in cui è nato l’Uni-verso. E qui verrebbe ingenuamente da dire che tale distanza è “circa 14 miliardi di anni luce”. L’affermazione è sbagliata e la correggeremo più sotto, ma per ora prendiamola per buona e continuiamo il ragionamento. Se l’Universo esiste da 14 miliardi di anni, supponendo per semplicità che anche le galassie esistano e risplen-dano da quell’epoca, al massimo potremo raccogliere la luce proveniente da 14

mi-La freccia segnala un quasar osservato al redshift z = 4. Vediamo l’oggetto anche se attualmente si sta allontanando a una velocità superluminale (circa 520mila km/s): la sua distanza propria, 23,5 miliardi di anni luce, è quasi doppia della lunghezza di Hubble (LH= 13,6 miliardi di anni luce). (ESO)

liardi di anni luce di distanza: in un Universo infinito, esisterà dunque un numero infinito di galassie poste al di là di questa distanza che non possiamo vedere perché la loro luce non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci.

La sfera di Hubble ha un raggio che dipende solo dalla costante di Hubble. Se la costante si mantenesse stabile nel tempo, anche il raggio sarebbe sempre lo stesso. Se invece H(t) andasse diminuendo (si badi che può diminuire anche se l’espansione cosmica è accelerata: in effetti, nel modello cosmologico standard di-minuisce!), la sfera di Hubble si allargherebbe sempre più, di modo che galassie che in precedenza erano superluminali potrebbero ritrovarsi ad essere “risucchiate”

all’interno di essa: continuano a recedere, ma ora con una velocità minore di quella della luce. In ogni caso, per decidere se una galassia sia osservabile, oppure no, si deve confrontare la sua distanza non con il raggio della sfera di Hubble, ma con quello dell’orizzonte cosmologico.

In un Universo con una vicenda dinamica complessa come il nostro, in cui l’espansione, come vedremo più avanti, è passata da una fase decelerata a una ac-celerata, possono verificarsi situazioni abbastanza bizzarre. La velocità di reces-sione di ogni sorgente celeste varia nel tempo (sono infatti funzioni del tempo sia la distanza propria, sia la costante di Hubble) e i cosmologi ci assicurano che le sorgenti che emisero prima di 9 miliardi di anni fa (lookback time) la luce che oggi riceviamo si trovavano al di là della sfera di Hubble all’epoca dell’emissione: dun-que, riceviamo radiazioni da sorgenti che, quando le emisero, recedevano a velocità superluminali. Addirittura, potremmo riceverle anche da sorgenti che sono rimaste sempre al di là della sfera di Hubble, e che lo sono tuttora. L’apparente paradosso è spiegabile considerando che la sfera di Hubble, espandendosi, in qualche epoca passata potrebbe aver inglobato la regione in cui si stavano muovendo i fotoni di-retti verso di noi, benché non ancora quella in cui risiede la sorgente da cui sono partiti miliardi di anni fa.

In definitiva, i cosmologi ci dicono che tutte le galassie, gli ammassi, i quasar che osserviamo con un redshift maggiore di circa 1,4 hanno una distanza propria maggiore della lunghezza di Hubble e perciò si stanno attualmente allontanando da noi con una velocità superiore a quella della luce. Sono sorgenti superluminali, eppure osservabili.

Quanto all’orizzonte cosmologico – e qui correggiamo l’affermazione fatta più sopra –, le regioni più lontane che, di fatto, possiamo osservare sono quelle della superficie dell’ultimo scattering, che tappezza l’intera volta celeste e da cui ci perviene la radiazione cosmica di fondo, di cui parleremo diffusamente nel se-guito. Più in là di così non è possibile andare, per i motivi che avremo modo di spiegare. Il redshift della superficie dell’ultimo scattering è pari a circa 1090.

Quanto distano da noi quelle regioni? “Circa 14 miliardi di anni luce”, abbiamo detto; ma sbagliavamo, perché non si deve confondere il lookback time con la distanza propria attuale, quella che si misura sulla mappa del mondo. Si deve in-fatti tener conto di quanto si è espanso l’Universo nel corso della sua storia, di quanta strada ha effettivamente percorso un fotone della radiazione di fondo nel sistema di riferimento comovente, una strada che si andava via via allungando sotto i suoi piedi. Calcoli alla mano, risulta che la superficie dell’ultimo scatte-ring si trova attualmente a circa 45 miliardi di anni luce di distanza. Dunque, i punti da cui ci perviene il fondo cosmico a microonde sono abbondantemente al di là della sfera di Hubble e infatti stanno attualmente espandendosi a oltre tre volte la velocità della luce.