Il merito di Alexander Friedmann, come si è detto, fu di aver proposto una solu-zione generale al problema cosmologico, impostato alla luce della Relatività Ge-nerale di Einstein. In particolare, nell’ipotesi che il contenuto dell’Universo sia assimilabile a un fluido a pressione nulla, egli sviluppò un’equazione da cui è pos-sibile ricavare l’andamento nel tempo del fattore di scala R(t). Possiamo, se non comprenderla fino in fondo, e risolverla, almeno intuire il senso e la portata di questa equazione? Certamente.
Anzitutto diciamo che l’equazione di Friedmann non è un’usuale equazione algebrica, come quelle che impariamo a risolvere al liceo, con un’incognita x nu-merica. È invece un’equazione differenziale (le si studia all’Università), che ha per incognita una funzione matematica: dunque, non un numero, ma un’espres-sione, più o meno complessa, che contiene una variabile e diversi parametri nu-merici. Nello specifico, la funzione è il fattore di scala R(t) e la variabile è il tempo t; i parametri che poi le osservazioni dovranno determinare sono la densità media della materia cosmica, il valore della costante cosmologica e il parametro di cur-vatura, che fissa la geometria dell’Universo. Nell’equazione di Friedmann sono contemporaneamente presenti sia R(t) che il tasso della sua variazione, quel T(t) che abbiamo già incontrato in precedenza e che è legato alla costante di Hubble H dalla relazione: H(t) = T(t)/R(t).
Ovviamente, non è opportuno che noi si provi a ripercorrere la catena di ragio-namenti che condussero Friedmann alla formulazione dell’equazione: il nostro bagaglio tecnico è inadeguato e non saremmo in grado di seguirlo lungo la strada impervia da lui indicata, lastricata di concetti tipicamente relativistici. Quello che faremo sarà di imboccare una via parallela, più liscia, pavimentata solo di concetti newtoniani, che porta curiosamente a un risultato pressoché identico nella forma, come già ebbero a rimarcare E. Milne e W. McCrea a metà degli Anni Trenta del secolo scorso. Al solito, dovremo poi resistere alla tentazione di confondere la scorciatoia con la via maestra, evitando di affezionarci oltre il lecito alla visione newtoniana: il nostro è infatti un semplice artificio, attraverso il quale, lungi dal ricavare in modo rigoroso l’equazione di Friedmann, cerchiamo solo di intuirne il significato generale.
L’analogia newtoniana viene sviluppata nel box d’approfondimento a pag. 127.
Qui ci limitiamo a riportare l’equazione di Friedmann nella sua forma canonica:
T2= 8πGR2
(
ρ + Λc2)
– kc2. 3 8πGAccanto a questa, si deve scrivere una seconda equazione, la ρR3= cost., che esprime la conservazione della massa totale dell’Universo: poiché il volume cresce come il cubo del fattore di scala, la densità media ρ decrescerà della medesima mi-sura. Si tenga presente che R, T e ρ non sono parametri numerici, ma funzioni del tempo: R(t), T(t) e ρ(t). La R(t) è il Santo Graal della cosmologia, la funzione che de-scrive l’andamento del fattore di scala, mentre T(t) è il tasso della sua variazione nel tempo.
La costante k, detta parametro di curvatura, stabilisce quale sia la geometria su larga scala dell’Universo e può assumere solo tre valori numerici discreti: –1, 0 e +1.
Se k = 1 lo spazio è “chiuso”, a geometria sferica, finito e illimitato, come (6.4)
quello che Einstein aveva imposto al suo modello. In questo Universo, la somma degli angoli interni di un trian-golo è maggiore di 180° e linee che sono parallele, alla lunga, tendono a convergere.
Se k = –1 lo spazio si dice “aperto”, a geometria iperbolica, infinito e illimi-tato. In uno spazio come questo, la somma degli angoli interni di un trian-golo è minore di 180° e le rette parallele tendono a divergere.
Infine, se k = 0 abbiamo l’usuale spa-zio euclideo “piatto”, a geometria piana, infinito e illimitato. In esso vale la geo-metria che abbiamo studiato nella scuola media.
Dall’equazione di Friedmann pos-sono scaturire varie e diverse soluzioni per R(t), in dipendenza dei valori che possono assumere i parametri k e Λ.
Ciascuna soluzione è un diverso mo-dello, che dovrà essere confrontato con i dati che scaturiscono dalle osserva-zioni per stabilire se sia compatibile con la realtà o se sia da scartare. In totale, i modelli possibili sono undici, raggruppabili in tre famiglie.
Se si attribuisce un valore negativo alla costante cosmologica Λ, abbiamo tre possibili modelli nei quali, qualunque sia il valore del parametro di curvatura, ri-sulta che R(t), dopo un’espansione iniziale e dopo aver toccato un massimo, inizia a decrescere e in un tempo finito crolla a zero. Passa cioè da un Big Bang, la fase immediatamente successiva al tempo t = 0, quando era R = 0, a un Big Crunch,
“il grande stritolamento”, quando il fattore di scala torna di nuovo ad azzerarsi al termine della contrazione. Nessuna meraviglia che ciò succeda: la costante co-smologica è stata introdotta da Einstein con un valore positivo per contrastare la gravità; se assume un valore negativo, da rivale si trasforma in alleata della gravità nel contrasto all’espansione.
Parlando di Big Bang e di Big Crunch, si è portati a pensare alla totalità l’Universo racchiusa in una capocchia di spillo, come se R(t) fosse il raggio del-l’Universo. Questa rappresentazione avrebbe semmai un senso se fosse k = 1, ossia in presenza di una geometria sferica, con un Universo finito. Negli altri casi, quando il parametro di curvatura è nullo oppure è pari a –1, l’Universo è infinito e quindi non ha un raggio misurabile. Conviene dunque ribadire che R(t) non è il
“raggio” dell’Universo, ma solo il fattore di scala: è il termine per cui va molti-plicata la distanza delle coordinate tra due punti comoventi se vogliamo conoscere la distanza fisica effettiva. Per quanto l’idea sembri abbastanza singolare, nel Big Crunch di un Universo a geometria piana o iperbolica dobbiamo figurarci una si-tuazione in cui tutte le distanze tra gli ammassi vanno riducendosi fino tenden-zialmente ad azzerarsi, mentre lo spazio continua ad essere infinitamente esteso.
E così nel Big Bang, a direzione invertita: le distanze vanno crescendo punto per
Il parametro di curvatura k stabilisce quale sia la geometria su larga scala dell’Universo. Per k
= 1 lo spazio è a geometria sferica, per k = –1 ha geometria iperbolica, per k = 0 la geometria è piana. La somma degli angoli interni di un triangolo è, rispettivamente, maggiore, minore e uguale a 180°.
punto e tutte le regioni vanno localmente espandendosi in un Universo che è già senza limiti e confini.
Se si ipotizza un valore positivo per la costante cosmologica, i possibili modelli sono cinque, che si differenziano fra loro per il parametro di curvatura, oppure per il valore di Λ: sono caratterizzati per lo più da una fase finale in cui l’espan-sione risulta accelerata. Tra questi v’è il modello che attualmente raccoglie i mag-giori favori.
Infine, particolarmente interessante è la famiglia dei tre modelli con Λ = 0, che sono stati in auge per tutta la seconda metà del secolo scorso e che venivano in-dicati come i più verosimili prima che emergessero prove convincenti del fatto che è in atto un’espansione accelerata. Sessant’anni dopo che Einstein stesso l’aveva disconosciuta, e in assenza d’osservazioni che puntassero a una sua riabi-litazione, quasi nessuno più credeva che la costante cosmologica dovesse giocare qualche ruolo significativo: pareva essere solo un logoro e inutile argomento da consegnare alla storia. Di conseguenza, tra gli undici modelli possibili che scatu-rivano dall’equazione di Friedmann si scartavano gli otto che prevedevano un suo valore diverso da zero e restavano questi tre, che iniziano tutti con un Big Bang, ma che in seguito si differenziano nettamente: con k = 1 si ha il modello “chiuso”, che termina con un Big Crunch; con k = –1 si ha il modello “aperto”, con l’espan-sione che rallenta pur mantenendo ritmi serrati fino all’infinito; con k = 0 si ha il
L’andamento del fattore di scala in quattro diversi modelli d’Universo. Il modello d’Universo “chiuso”
prevede un Big Bang, un’espansione, una successiva contrazione e un Big Crunch. Il modello “cri-tico” prevede un’espansione rallentata in cui il tasso d’espansione tende asintoticamente a zero dopo un tempo infinito. Nel modello “aperto” l’espansione rallenta senza però che il tasso d’espan-sione tenda mai a zero. Il quarto modello è quello attualmente favorito: all’inizio l’espand’espan-sione è rallentata, da un certo momento in poi è accelerata. I primi tre modelli erano in auge fino alla fine del secolo scorso: si ipotizzava che non ci fosse costante cosmologica e allora l’andamento del fattore di scala, così come il destino dell’Universo, era determinato solo dal valore della densità media. Una densità maggiore di quella critica portava a un Universo chiuso; una densità minore di quella critica portava a un Universo aperto; la densità pari al valore critico determinava il caso intermedio.
R R
R R
t t
t t
chiuso critico
aperto accelerato
modello “critico”, in cui la velocità dell’espansione rallenta e tende asintotica-mente a zero all’infinito.
Ecco il motivo per cui, negli ultimi trent’anni del XX secolo, il dibattito co-smologico è ruotato intorno alla questione della geometria dell’Universo che, nei modelli a Λ = 0, diventa discriminante anche nei riguardi dell’evoluzione futura.
Poiché si tendeva a scartare la soluzione a geometria sferica, che richiedeva valori eccessivi per la densità di materia, restavano le altre due opzioni, tra le quali si sarebbe potuto scegliere sulla base dell’entità della decelerazione, più marcata per il modello “critico”, meno marcata per il modello “aperto”. Le osservazioni mira-vano a evidenziare proprio questo: in che misura l’espansione rallentasse. Si può dunque capire lo sbigottimento dei cosmologi quando, nel 1998, ci si rese conto che l’espansione non solo non rallenta, ma addirittura accelera!
Il caso del modello “critico”, con Λ = 0 e k = 0, oltre che raccogliere i maggiori consensi, era quello che più di ogni altro semplificava l’equazione di Friedmann, annullando un paio di termini ingombranti, al punto da renderla facilmente risol-vibile per via analitica. L’equazione si riduce infatti alla:
T2= 8πGρR2/3
che ha una soluzione del tipo R(t) = cost. · t2/3, dove cost. è una costante di pro-porzionalità. Il fattore di scala cresce come la radice cubica del quadrato del tempo:
per capirci, tra 5 e 10 miliardi di anni cresce del 59%, tra 10 e 15 miliardi di anni del 31%, tra 15 e 20 miliardi di anni del 21% e così via, progressivamente rallen-tando. In questo modello, il valore della costante di Hubble varia in maniera in-versamente proporzionale al tempo*2: H = 2/3t; dunque, la costante di Hubble è indicatrice dell’epoca cosmica in cui si vive, ragione per cui basta misurare l’at-tuale valore della costante H0per conoscere quanto tempo è trascorso dall’inizio dell’espansione: t0= 2/(3H0).
Questa semplice conclusione è stata a lungo fonte di perplessità e di imbarazzo tra i cosmologi perché con il valore che vent’anni fa veniva attribuito alla costante di Hubble si ricavava un’età dell’Universo dell’ordine di una decina di miliardi di anni, quando le stelle più vecchie della Via Lattea mostravano di averne almeno una dozzina. Evidentemente, qualcosa non quadrava se le stelle risultavano essere più antiche dell’Universo (le figlie più anziane della madre!). C’era un campanello d’allarme che squillava forte, ma a quel tempo nessuno lo voleva sentire.