L’atmosfera che avvolge il nostro pianeta, l’aria amica della vita che ossigena il sangue dei viventi, è nemica degli astronomi. Le turbolenze atmosferiche su piccola scala fanno sì che la luce di una stella non segua sempre lo stesso percorso rettilineo prima di giungere all’obiettivo del nostro strumento: anche se ci trasferiamo a os-servare nelle poche regioni del pianeta ove il cielo è più calmo, le deviazioni quasi impercettibili che il raggio luminoso subisce fanno sì che le immagini degli oggetti celesti siano degradate: nel migliore dei casi, la risoluzione angolare più spinta rag-giungibile dal suolo è dell’ordine di mezzo secondo d’arco, ma solo per qualche ora di una o due notti all’anno. Nelle altre notti, quando va bene, ci si deve accon-tentare di un secondo d’arco.
Ora che i nostri strumenti sono dotati di dispositivi di ottica adattiva, oppure che volano sopra l’atmosfera, la situazione è cambiata, ma all’inizio del XX secolo era davvero problematico misurare con la dovuta precisione la parallasse stellare di stelle che fossero più distanti di poche decine di anni luce, per le quali l’angolo parallattico è minore di un decimo di secondo d’arco. Era invece ormai chiaro che la Via Lattea misurava migliaia di anni luce e forse più. Dunque, per indagarne la struttura, bisognava escogitare qualche altro metodo di rilevazione delle distanze, un “metro” magari non così preciso come la parallasse, ma che potesse essere uti-lizzato su scale decisamente più lunghe.
In linea di principio, un metodo ci sarebbe, ed è il confronto tra la luminosità che misuriamo di una sorgente (la sua magnitudine apparente m) e la sua luminosità intrinseca (espressa dalla magnitudine assoluta M), ipotizzando che il calo della luminosità sia dovuto unicamente alla lunghezza del cammino che la luce ha per-corso per giungere sino a noi. La formuletta che gli astronomi utilizzano a questo scopo viene spiegata nel box d’approfondimento a pag. 31. Poiché si basa sul con-cetto di magnitudine, vale la pena di soffermarci sulla definizione di questa impor-tante grandezza astronomica, per prendere un poco di confidenza con essa.
La scala delle magnitudini utilizzata dagli astronomi è stata ereditata (con gli opportuni adattamenti) dagli osservatori del cielo di duemila anni fa. Gli antichi parlavano di astri di prima grandezza, di seconda grandezza e così via, senza tut-tavia definire chiaramente cosa intendessetro per “grandezza stellare”. Gli astro-nomi moderni hanno introdotto il concetto di magnitudine, definendolo in modo preciso, matematico, e facendo in modo che la nuova scala delle magnitudini ri-calcasse in una certa misura quella antica, per amore di tradizione.
Così, a una stella brillante come Spica, l’alfa della Vergine, ritenuta dagli antichi astro di prima grandezza, gli astronomi moderni attribuiscono una magnitudine ap-parente m = 1; Mizar, la zeta dell’Orsa Maggiore, è definita di m = 2 ed è più debole di Spica di circa 2,5 volte. Pherkad, la gamma dell’Orsa Minore, di m = 3, è 2,5 volte più debole di Mizar e perciò 2,52= 6,3 volte più debole di Spica. Alcor, la compagna di Mizar (le due costituiscono un sistema stellare binario), di m = 4, è 2,5 volte più debole di Pherkad, e dunque 6,3 volte più debole di Mizar, nonché 2,53= 15,6 volte più debole di Spica. E via di questo passo: il valore numerico della magnitudine va aumentando quanto più deboli sono le stelle. Ad ogni “gra-dino” di magnitudine si scende esattamente di un fattore 2,512 nel flusso luminoso.
Questo numero venne convenzionalmente introdotto da N.R. Pogson nel 1856 in quanto pareva il più vicino a rappresentare fedelmente la scala delle “grandezze stellari” degli antichi e anche perché 2,5125fa esattamente 100. Quando il flusso
luminoso proveniente da una stella A è 100 volte maggiore di quello proveniente dalla stella B, le due stelle hanno magnitudini che differiscono esattamente di 5 unità: per esempio, mA= 3,2 e mB= 8,2. Da notare che la scala delle magnitudini non termina al valore 0, ma prosegue anche per valori negativi: Sirio, la stella più brillante del cielo, ha magnitudine –1,5. Venere in certe fasi ha magnitudine attorno a –4. Per la Luna Piena è m = –12,6 e per il Sole m = –26,8.
Anche la scala delle magnitudini assolute (M) procede per “gradini” rappresen-tati da un rapporto di 2,512 nel flusso. La magnitudine assoluta del Sole è M = 4,8.
Una stella di M = 3,8 è 2,512 volte intrinsecamente più luminosa del Sole; una stella di M = –0,2 è 100 volte più luminosa.
Magnitudini assolute e apparenti hanno un punto di contatto: si assume, per con-venzione, che il valore numerico della magnitudine apparente (m) di una stella coincide con quello della sua magnitudine assoluta (M) se la stella sta esattamente a 10 pc da noi, ossia a 32,6 anni luce. Se un alieno ci osservasse da 10 pc di distanza, il Sole (M = 4,8) gli apparirebbe come una stellina di m = 4,8.
Ora immaginiamo che, a una certa distanza da noi, esista in cielo una stella che si renda visibile con una magnitudine apparente m = 6. È una stellina molto poco brillante, che a fatica possiamo scorgere a occhio nudo: ebbene, ci appare tale perché è una stella intrinsecamente poco luminosa, oppure perché è molto distante da noi? Con il solo dato della magnitudine apparente, non siamo in grado di fornire una risposta. Certamente, se conoscessimo anche la distanza sarebbe immediato ricavare la magnitudine assoluta M. Se, per esempio, si trovasse a 10 pc, per quanto appena detto sarebbe M = 6, e così capiremmo che è una stellina (2,5121,2= 3) tre volte intrinsecamente più debole del Sole; se invece fosse, diciamo, a 40 pc, quattro volte più lontana, vorrebbe dire che è 16 volte intrinsecamente più luminosa e, poiché abbiamo visto che a un fattore circa 16 nel flusso corrisponde una differenza di 3 magnitudini, la stella sarebbe di M = 3, ossia cinque volte più luminosa del Sole. Come si vede, dalla distanza si ricava la gnitudine assoluta. E naturalmente vale anche il contrario: dalla conoscenza della ma-gnitudine assoluta, oltre che di quella apparente, si può ricavare la distanza (che è poi ciò che qui ci interessa). Per come fare nel concreto, si veda la formuletta nel box d’ap-profondimento.
Metodo complesso? No certo, anzi è persino banale, e noi stessi lo mettiamo in pra-tica cento volte al giorno, senza neppure accorgercene. Quando, di notte, dobbiamo at-traversare una strada e c’è una motocicletta che sta sopraggiungendo, ci basta dare un’occhiata al suo fanale per avere l’immediata percezione della distanza a cui si trova, ciò che ci fa decidere se attraversare o aspettare che passi. Questo perché, rispondendo a un riflesso inconscio, il nostro cervello confronta il flusso luminoso che l’occhio riceve (la magnitudine apparente) con quello che, per esperienza, sappiamo essere la luminosità tipica (la magnitudine assoluta) di un fanale di moto. Oppure, di giorno, il cervello confronta la larghezza angolare (apparente) di un’auto che si sta avvicinando con la tipica larghezza lineare (assoluta) di un cofano d’auto, e subito abbiamo un’idea di quanto sia distante da noi. Il succo è sempre quello: confronto tra ciò che appare e ciò che sappiamo essere com’è. Ma dobbiamo saperlo com’è, e saperlo per certo!
Di una stella lontana anche migliaia o milioni di anni luce saremmo in grado di calcolare la distanza se potessimo sapere con certezza quanta energia riversa nello spazio, ossia qual è la sua luminosità intrinseca, misurabile attraverso la magnitudine assoluta M. Ma esistono stelle di magnitudine assoluta nota, quelle che gli astronomi chiamano candele-standard? Per nostra fortuna esistono e le scoprì Henrietta Swan Leavitt nel 1908, lavorando all’Osservatorio dell’Harvard College di Cambridge
Magnitudini e distanze
C’è una relazione molto utilizzata in cosmologia, tra la magnitudine apparente m di una stella, la sua magnitudine assoluta M e la distanza d alla quale essa si trova.
Non la staremo a ricavare. Qui ci limiteremo ad esprimerla e mostreremo come utilizzarla con qualche esempio pratico:
m – M = 5log d – 5
dove d è espresso in parsec (pc) e log è il logaritmo in base 10. La differenza (m – M) è detta modulo di distanza.
Facciamo qualche esempio. Se una stella si trova alla distanza di 10 pc, poiché log 10 = 1, il modulo di distanza è uguale a 0, che significa m = M. È proprio quanto ci aspettavamo: per convenzione, la magnitudine apparente di una stella distante 10 pc è infatti pari alla sua magnitudine assoluta.
La magnitudine assoluta del Sole è M = 4,8. Supponiamo che per una stella A sia MA= 1,6. La sua luminosità sarà 2,512(4,8 – 1,6)= 2,5123,2= 19 volte quella del Sole.
Supponiamo di osservare al telescopio questa stella e di trovarla di m = 7,5. Quant’è distante da noi? Utilizziamo la (2.2): il modulo di distanza vale (7,5 – 1,6) = 5,9.
Allora sarà:
log d = (5,9 + 5) / 5 = 2,18 da cui: d = 102,18pc = 151 pc = 492 anni luce.
Il modulo di distanza diventa molto grande quando si ha a che fare con oggetti molto lontani, come le galassie. Una galassia simile alla nostra può avere una ma-gnitudine assoluta M = –21. Si noti la mama-gnitudine negativa: la luminosità è eleva-tissima, circa 25 miliardi di volte quella del Sole (lasciamo al lettore il compito di verificare questa affermazione). Supponiamo di vederla al telescopio di magnitudine apparente m = 16. Il modulo di distanza sarà (m – M) = 37. Si potrebbe usare la re-lazione (2.2), ma quando le distanze sono così grandi è forse più comodo utilizzare quest’altra relazione che discende dalla (2.2), come il lettore può verificare da sé:
m – M = 5log d + 25
con l’avvertenza che ora d risulta espresso non più in parsec, ma in Megaparsec (Mpc), in milioni di pc. Nel nostro caso:
log d = (37 – 25) / 5 = 2,4
da cui: d = 102,4Mpc = 251 Mpc = 818 milioni di anni luce.
Verifichiamo infine, come esercizio, quanto si riporta nel testo, a pag. 35, a pro-posito delle due Cefeidi della Piccola Nube di Magellano, la A e la B, con mA = 14 e mB= 16. Se la distanza dal Sistema Solare fosse di 30mila pc, il modulo di distanza sa-rebbe (m – M) = 5log 30.000 – 5 = 17,4 e dunque MA= 14 – 17,4 = –3,4 e MB= –1,4.
Se fosse di 50mila pc, sarebbe (m – M) = 18,5 e dunque MA= –4,5 e MB= –2,5. In realtà, la distanza della Piccola Nube di Magellano è di 61mila pc, come verificheremo nel prossimo box d’approfondimento.
(2.2)
(2.3)
(Massachusetts, USA). Si tratta di una classe del tutto particolare di stelle variabili, preziosissime perché grazie ad esse si aveva finalmente a disposizione un metodo per prendere le misure alla Via Lattea e, in seguito, all’intero Universo.
Quella della Leavitt fu una scoperta di importanza capitale per la cosmologia e per la nostra conoscenza dell’Universo, meritevole più di altre del Premio Nobel:
purtroppo, si tardò a riconoscere quanto fondamentale fosse stato quel contributo e quando la proposta fu avanzata Henrietta non c’era già più, portata via prematura-mente da un male incurabile nel 1921.