Non tutti gli astronomi del tempo erano però d’accordo con le conclusioni di Sha-pley. Anzi, in molti le osteggiavano decisamente. Tra gli oppositori più tenaci è d’obbligo menzionare Heber Curtis, per il fatto che con Shapley, nell’aprile 1920, fu protagonista di quello che è passato alla storia come il Grande Dibattito, un pub-blico contraddittorio al quale i due si presentarono come alfieri di due visioni an-titetiche relativamente alla natura e alle dimensioni della nostra e delle altre galassie: un evento scientifico-mediatico che non portò di per sé alla chiarificazione delle problematiche, ma che contribuì a mettere a fuoco le differenti tesi, a indivi-duare i rispettivi errori e a guidare nella direzione appropriata le successive ricer-che.
Nel Grande Dibattito venne esposta la summa delle conoscenze sull’Universo
Analizzando le orbite degli ammassi globulari (contrassegnati da cerchietti in questa immagine a largo campo), Shapley si accorse che erano centrate attorno a un punto (croce) nella costellazione del Sagittario e identificò quel punto come il centro della Galassia.
accumulate nel secolo e mezzo appena trascorso, e che stavano conoscendo un’ac-celerazione impetuosa proprio in quegli anni; al tempo stesso, il confronto dialettico tra i due astronomi, al cospetto di un pubblico di eminenti scienziati americani, rappresentò l’atto finale di una concezione antica dell’Universo che le ricerche mo-derne stavano demolendo e di cui i contendenti, senza rendersene conto, e ciascuno a suo modo, erano latori: Curtis come sostenitore della posizione centrale del Sole nella Galassia, Shapley come difensore di una visione angusta che racchiudeva l’intero Universo dentro i confini del nostro sistema stellare.
Heber Curtis, a detta di tutti i suoi colleghi, era una persona squisita e gioviale.
Era nato a Muskegon, nel Michigan, nel 1872; aveva seguito studi classici, anche all’Università, e per un certo tempo insegnò greco e latino nelle scuole superiori e anche all’Università del Pacifico, in California. Fu lì che si appassionò all’astro-nomia, guardando dentro l’oculare dei piccoli telescopi in dotazione all’Università e, pur senza aver mai seguito corsi di fisica o di matematica, cominciò a studiare astronomia da autodidatta, accompagnando i suoi studi con le osservazioni ai tele-scopi del Lick Observatory quando era libero dagli impegni di insegnante. Era un tenace lavoratore e ben presto acquisì una manualità straordinaria sia nell’autoco-struzione di telescopi, sia nel perfezionamento della meccanica degli strumenti con cui entrava in contatto, sia, infine, nelle tecniche d’osservazione fotografiche e spettroscopiche.
Quando aveva trent’anni, nel 1902, William Campbell lo chiamò al Lick, ove restò per quasi vent’anni. Come anche per Shapley, subito dopo il Grande Dibattito la sua carriera conobbe un balzo verso l’alto e divenne direttore dell’Osservatorio Allegheny a Pittsburgh (Pennsylvania).
Al Lick, Curtis si era specializzato nello studio dei sistemi binari spettroscopici, quei sistemi la cui duplicità viene riconosciuta non già perché si riesca a risolvere singolarmente le due stelle (il telescopio non può separarle poiché orbitano troppo vicine tra loro), ma solo grazie agli spostamenti Doppler delle righe spettrali delle due componenti, oppure di una sola, la più brillante della coppia, dovuti al moto orbitale. Con Campbell pubblicò un catalogo di 140 doppie spettroscopiche nel 1905; e subito sorse la necessità di compiere un’analoga impresa nell’emisfero sud, sicché Campbell decise di dotare di un buon riflettore la Stazione Cilena del Lick, incaricando Curtis del programma di survey.
Solo nel 1909 Curtis fu richiamato al Lick e questa volta per prendere il posto che era stato di James Keeler e poi di Charles Perrine, con il compito di realizzare riprese fotografiche di nebulose al riflettore Crossley di 91 cm. Questo fu il lavoro che lo assorbì per il successivo decennio e che lo portò a livelli d’eccellenza.
Quante nebulose fotografò Curtis con il Crossley? Forse alcune migliaia; co-munque, giungendo al limite delle possibilità del suo strumento, stimò che ne esi-stessero almeno 700mila sull’intera volta celeste. Le catalogò, separando le spirali dalle altre; confrontò le sue riprese con quelle di Keeler e Perrine, conservate negli archivi, e giunse alla conclusione che le spirali, con i loro spettri di tipo stellare, con i loro bracci più o meno aperti, erano oggetti che appartenevano indubbiamente a una medesima classe: sistemi stellari a forma di lente, ossia piatti con un rigon-fiamento centrale. Le differenziava semmai l’inclinazione rispetto alla nostra linea visuale, che le faceva apparire più o meno tondeggianti, oltre che la magnitudine apparente. Ma questa era indubbiamente legata alla diversa distanza da noi, tanto è vero che, di norma, le spirali più deboli risultavano essere anche le più piccole per dimensioni angolari. Se non si riusciva a risolvere le singole stelle al loro
in-terno era solo perché le distanze in gioco erano incomparabilmente maggiori di quelle delle stelle della Via Lattea.
Per Curtis, la Galassia di Shapley, coincidente con la totalità dell’Universo, era un’assurdità. Invece, la nostra Via Lattea era solo una spirale come le altre, dello stesso rango per dimensioni e nu-mero di stelle; inoltre, le spirali si distri-buiscono uniformemente nell’Universo, come tante isole in un immenso oceano, fino a distanze grandissime, che ancora non si era in grado di stimare. È vero che le vediamo soprattutto nelle regioni di elevata latitudine galattica e che an-ch’esse, come gli ammassi globulari, sembrano “evitare” il piano della Via Lattea, ma ciò potrebbe essere il risul-tato di qualche forma di estinzione della luce da parte di materia assorbente come quella che è presente sui bordi di molte spirali e che si scorge chiaramente come una fascia oscura nelle fotografie dei si-stemi che si offrono di taglio.
L’anello polveroso potrebbe essere una caratteristica comune a tutte le spi-rali: se anche la Via Lattea è cinta da
nubi opache alla periferia del suo disco, vedere le lontane spirali poste nelle dire-zioni giacenti sul piano galattico sarebbe difficile, se non impossibile, e ciò risol-verebbe elegantemente la questione della loro peculiare distribuzione. Ben più arduo sarebbe spiegarla se le spirali fossero oggetti della Galassia, come sosteneva Shapley. Perché infatti dovrebbero evitare proprio le regioni ove invece è maggiore la densità delle altre componenti galattiche, come stelle e gas?
Infine, se nella Via Lattea non ci sono evidenze dell’esistenza di quei bracci che avvolgono il centro e che sono invece così ben delineati nelle nebulose spirali che si scorgono in cielo, questo è, ancora una volta, per via della nostra particolare po-sizione che ci impedisce di vederli, posti come siamo proprio dentro il disco galat-tico, al suo centro o poco discosti da esso.
Curtis adottava il modello di Galassia che discendeva dai conteggi stellari di Kapteyn: la distribuzione delle stelle sembrava essere sostanzialmente isotropa, simmetrica rispetto al Sole e al piano galattico; oltretutto, la densità delle stelline più deboli (verosimilmente le più lontane) pareva che subisse un vero crollo, come se il telescopio avesse raggiunto il confine della Galassia. Da qui prendeva corpo la convinzione che il Sole stesse al centro del nostro sistema stellare, del nostro Universo-isola, e che l’estremo a cui giungevano i telescopi non si trovasse alle distanze esagerate che Shapley suggeriva, ma a meno di 10-15mila anni luce, come avevano trovato Kapteyn, Wolf, Schwarzschild, Eddington, Easton e altri ancora.
Questo era per Curtis il vero raggio della Galassia, almeno dieci volte minore di quello stimato da Shapley.
Heber Curtis (1872-1942).