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La legge di Hubble

Milton Lasell Humason (1891-1972) non aveva studi alle spalle, solo un diploma di scuola media inferiore, e lavorava a Monte Wilson da una vita. Aveva iniziato come conducente di muli nel trasporto di generi vari alla montagna, poi era diventato custode dell’Osservatorio, poi tecnico, apprendendo da Shapley l’arte di fotografare al telesco-pio, poi assistente astronomo e infine astronomo, probabilmente l’ultimo astronomo della storia che sia stato assunto in un Osservatorio statale senza una laurea, né un di-ploma. Così aveva voluto Hale, con un’intuizione geniale sulle potenzialità dell’uomo.

In effetti, Humason ebbe un ruolo fondamentale nelle ricerche condotte da Hubble negli anni Venti e Trenta a Monte Wilson. La posizione se l’era sudata, generando anche qualche invidia, ma nessuno avrebbe potuto insinuare che non se la meritasse.

A proposito di sudori, i primi spettri raccolti da Humason furono il frutto di imprese eroiche, come quelle di Slipher, con pose che duravano ore e che proseguivano in varie notti successive. Ma ne valeva la pena: ora si misuravano redshift corrispondenti a ve-locità dell’ordine di 3000 km/s, ben al di là del limite raggiunto da Slipher. Ben presto Humason richiese e ottenne uno spettrografo molto più efficiente e una nuova camera fotografica, con i quali rideterminò uno per uno i redshift che erano già stati misurati dall’astronomo del Lowell e ne aggiunse molti altri ancora. Ne sfornava in media uno ogni tre giorni e, in capo a un anno, giunse a evidenziare velocità in allontanamento fino a 20.000 km/s.

Da parte sua, Hubble si ingegnava nella ricerca di un metodo valido per determinare le distanze. Se le galassie erano così lontane da non consentire che si osservasse alcuna Cefeide, si poteva sfruttare come candela-standard la loro stella blu più brillante, che certamente risplendeva molto più intensamente di qualsiasi Cefeide e perciò poteva mostrarsi al telescopio anche in sistemi remoti. La stella andava però calibrata. Allo scopo, Hubble sceglieva un certo numero di galassie vicine e di distanza nota (grazie alle Cefeidi). Dalla distanza risaliva alla luminosità intrinseca delle rispettive stelle blu più brillanti e, verificando che questa era all’incirca la stessa per tutte, si sentiva legit-timato a utilizzarle come nuovi e più potenti indicatori di distanza.

Per spingersi ancora più in là, veniva adottata come candela-standard la luminosità totale dell’intera galassia o, meglio ancora, quando l’oggetto apparteneva a un ammasso, la luminosità media delle dieci galassie più luminose. C’era infatti da aspettarsi che gli ammassi, soprattutto se ricchi, si assomigliassero fra loro e la luminosità mediata fra una decina di sistemi dava maggiori garanzie di omogeneità che non quella di una

sin-gola galassia. Seguendo questa logica, Hubble poteva penetrare sempre più in profon-dità nell’Universo, misurando distanze via via crescenti per il tramite di una sequenza di indicatori che traevano ciascuno legittimazione dalla validità di quelli sottostanti. Il solido fondamento di questa ardita costruzione piramidale era ancora la vecchia legge P-L della Leavitt e di Shapley.

Nel 1929, Hubble disponeva di misure di velocità relative a 46 galassie, ma solo di 24 misure di distanza. Tanto però bastava per intravedere già una ben precisa relazione:

quanto più le galassie erano lontane tanto più veloce era il loro moto in allontanamento.

Cauto come sempre, prima di rendere noti i dati li aveva tenuti nel cassetto per oltre un anno, alla ricerca di ulteriori verifiche. Quando li pubblicò, in un articolo comparso nei

La figura originale pubblicata da Hubble in The Realm of the Nebulae consente di cogliere con immediatezza la relazione fra il redshift e la distanza delle “nebulose extragalattiche”, come Hub-ble si ostinava a chiamare le galassie. Lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali H e K del calcio è segnalato dalla frecciolina e la corrispondente velocità viene indicata sotto ogni spettro.

Nella colonna di destra le foto testimoniano come, al crescere del redshift, i diametri e le luminosità delle galassie vadano calando vistosamente, per effetto della sempre maggiore distanza. Le di-stanze riportate sotto le foto sono sottostimate circa di un fattore 8.

Proceedings della National Academy of Sciences, non mancò di rimarcare come le mi-sure necessitassero di riscontri, ma egli era ormai più che certo che il risultato non sa-rebbe stato messo in discussione dalle misure successive, più profonde, poiché quelle misure erano già nelle sue mani.

L’articolo del 1929 uscì in primo luogo per certificare la priorità della scoperta, visto che ormai erano in molti a parlare di una strana correlazione tra velocità e dimensioni delle galassie: come mai le più veloci erano anche le più piccole? Quel lavoro era inoltre una sorta di ballon d’essai, giusto per capire quale sarebbe stata la reazione dei colleghi alla scioccante conclusione a cui lui era giunto: le galassie erano animate da moti re-cessivi, come se sfuggissero la Via Lattea, e le loro velocità crescevano proporzional-mente alla distanza. Qualcuna, in realtà, si avvicinava, come M31, ma l’andamento complessivo, al netto dei movimenti locali, indotti dall’interazione gravitazionale nei gruppi, era quello di un generale moto espansivo, in allontanamento.

Il grafico pubblicato nei Proceedings era abbastanza convincente. I puntini relativi alle 24 galassie di distanza nota si allineavano su una retta che esprimeva chiaramente la relazione di proporzionalità tra velocità e distanza. Questo, tra l’altro, significava che la legge appena trovata, ammesso che fosse di validità generale, sarebbe potuta servire per stimare la distanza delle 22 galassie di cui si conosceva solo la velocità. Ad ogni velocità recessiva corrispondeva infatti una ben precisa distanza. Una volta nota la distanza, sarebbe stato possibile ricavare la magnitudine assoluta di quelle galassie e verificare se i valori ottenuti fossero ragionevoli, oppure no. In effetti, lo erano: tutto sembrava accordarsi egregiamente.

Dunque la legge funzionava, e Hubble lo sapeva bene, perché già stava lavorando al secondo articolo sull’argomento che sarebbe comparso nel 1931 sul The Astrophy-sical Journal. Humason, che firmerà l’articolo con lui, aveva raccolto una cinquantina di nuovi spettri di galassie per le quali Hubble aveva saputo ricavare la distanza usando come metro la piramide degli indicatori. Il nuovo grafico del 1931 estendeva quello vecchio di quasi venti volte in profondità, da 5-6 milioni di anni luce fino a oltre 100 (stime sue, errate per difetto di un fattore circa 10). Ormai la relazione lineare tra la di-stanza e la velocità emergeva in modo chiarissimo:

v = H0· d.

Più le galassie sono lontane più velocemente fuggono via dalla Via Lattea. Una galassia distante 120 milioni di anni luce si allontana con una velocità doppia di quella di una ga-lassia che ne disti solo 60 e tripla di quella di una gaga-lassia a 40 milioni di anni luce.

Il parametro H0presente nella formula è la cosiddetta costante di Hubble. Nell’articolo del 1931, il suo valore veniva fissato a circa 550 km/s per ogni milione di parsec (ossia

4,4

Un moderno diagramma di Hubble relativo a ga-lassie vicine (A. Sandage et al., 2006). La velo-cità è riportata in scala logaritmica: per esempio, 3,6 corrisponde a 4000 km/s; 4,0 a 10.000 km/s; 4,4 a 25.000 km/s. Si confronti questo diagramma con quello originale di Edwin Hubble (nel riquadro a pag. 74), per avere un’idea di quanto questo giunga a velocità più elevate e di quanto meno disperse siano oggi le misure, gra-zie a indicatori di distanza più affidabili.

(4.1)

per ogni 3,26 milioni di anni luce): tale è il tasso di crescita della velocità in funzione della distanza. Dunque, la galassia del nostro esempio, a 120 milioni di anni luce, si al-lontanerebbe a una velocità di poco superiore ai 20mila km/s. Oggi sappiamo che questo valore è esagerato: il valore della costante H0è stato via via ridimensionato negli ottan-t’anni trascorsi da allora grazie al lavoro di una generazione di astronomi allievi di Hub-ble che proseguirono il suo programma a Monte Palomar e, per ultimo, grazie al Telescopio Spaziale che porta il suo nome. Il valore che attualmente si adotta è otto volte minore: H0= 72 km s–1Mpc–1, con un’incertezza del 5%.