• Non ci sono risultati.

CEROLI E IL RICCARDO

5.ANALISI DEGLI ALLESTIMENTI SCENOGRAFICI PER IL TEATRO, IL CINEMA E LA TELEVISIONE

CEROLI E IL RICCARDO

La realizzazione del primo allestimento scenico di Ceroli, insieme a quella dei costumi di Enrico Job, costituisce per i laboratori del Teatro Stabile torinese «la più massacrante prova d’efficienza» mai affrontata: «tecnici espertissimi, ormai, i nostri non vanno certo “in crisi” per nessun apparato scenico da allestire. Ma questa volta l’impegno era maggiore che mai, dovendo realizzare una scena che figurerebbe benissimo in una avanzatissima mostra di arti figurative»277. Sono infatti ben duemila le ore di lavoro necessarie alle squadre di falegnami e fabbri per realizzare«un lavoro fuori dal consueto»278. Ceroli, insieme al capo degli allestimenti scenici Uberto Bertacca, interviene in questa costruzione, ci lavora personalmente per ben tre mesi che, come afferma lui stesso, «credo siano stati determinanti per il mio lavoro. Ho avuto la grande facilità di lavorare mentre Ronconi provava, e questa è una cosa che ha giocato a mio favore, perché di conseguenza mi è stata data la possibilità di modificare, perfezionare, aggiustare certe cose impossibili […], come la scala che aveva i gradini alti 38 centimetri: Gassman doveva salirvi con quell’armatura che aveva, con il costume che pesava sessanta chili, una cosa folle. Però questo fatto riusciva a rendere ancora di più lo sforzo, a evidenziare il corpo deforme di Riccardo […]. Tutte cose che hanno contribuito in maniera efficacissima allo spettacolo e alla regia di Ronconi»279.

Per il Riccardo III Ceroli, secondo quella che diverrà in seguito una prassi, non crea nulla di nuovo. Si comporta da scenografo reinventando in nuove dimensioni, certamente imponenti, e in altri rapporti di connessione, dinamicamente narrativi, le sue sculture precedenti, che utilizza come materiali scenici. L’esito straordinario e nuovo è quello di una grande efficacia comunicativa. Nell’intervista rilasciata a Franco Quadri nel 1983, ricorda di aver ovviamente letto il testo, ma solo come informazione per potervi attingere. «Ma devo dire francamente che io ho fatto soprattutto affidamento su quelli che erano gli elementi, gli oggetti che avevo a disposizione: la cosa di cui mi sono occupato moltissimo è la macchina teatrale. È possibile fare un riferimento alle esperienze di

275

Ibidem, pp. 95-96.

276 Morteo Gian Renzo (a cura di), Incontro con Luca Ronconi, cit., p. 47. 277

Quaderno del Teatro Stabile di Torino, n° 11, p.39.

278

Ibidem. In seguito si legge: «Su carrelli mobili (per i quali sono stati impiegate 100 ruote con cuscinetti a sfere) 46 uomini di legno di grandezza innaturale, 6 cavalli pure di legno, “invadono” la scena, una sorta di gabbia in cui campeggia una enorme sfera mobile di legno. Completiamo queste note con altri dati sempre riferentesi al materiale impiegato nella realizzazione, e li elenchiamo così, alla rinfusa: 50 mc di legname; 500 mq. di panforte; circa 100 mq. di compensato, 1000 bulloni, 50 kg. di colla, 1 quintale e mezzo di chiodi, ecc.».

72

Leonardo quando addobbava le feste, i carri per Vinci che erano delle macchine teatrali. Questa era l’ispirazione, ma naturalmente usavo i mezzi e gli oggetti […] che avevo già fatto»280.

Un altro aspetto peculiare dell’allestimento scenico consiste nel fatto che Ceroli, portando sul palco le proprie sculture, esalta «il materiale primario che si usa per il teatro, cioè il legno: il legno che io ho usato puro, vero, così com’è nella natura, senza mistificazioni dipinte oppure abbrunito»281. E lo fa in un modo così semplice, primitivo se si vuole, che appare una novità in un teatro alla ricerca di effetti e di materiali sintetici da sperimentare.

Sul palcoscenico dell’Alfieri Ceroli trasla i suoi lavori più significativi realizzati tra il 1963 e 1966, tanto da spingere i critici a definire il Riccardo III una grande mostra vivente, che in un certo senso diventava dinamica. È questo secondo aspetto che affascina l’artista, interessato non tanto alla possibilità di esporre le sue opere in un contesto diverso da quello usuale della galleria, quanto a quella di farle muovere, fornendo loro, di conseguenza, un maggior completamento. A distanza di quindici anni dalla andata in scena dello spettacolo Ceroli ricorda:

«La mia collaborazione all’interno del teatro mi ha affascinato tantissimo e solamente oggi riesco a capirne l’importanza: perché ho avuto a disposizione, non volendo, occasioni pazzesche, l’occasione cioè di far vedere il mio lavoro anche in un contesto completamente diverso da quello che è la galleria. Cioè la possibilità di esporle in palcoscenico è stata fantastica. […]. Credo [che] il teatro ti offra la possibilità di far muovere gli oggetti che tu costruisci, mentre non lo puoi fare in galleria. È una cosa che mi piace moltissimo»282.

Il desiderio dell’artista di conferire dinamismo alle sue opere si lega bene a un’esigenza di Ronconi, nei cui spettacoli «spesso le scene si muovono. Il motivo non è perché è bello far muovere il palcoscenico ma perché, probabilmente, siamo condizionati dal cinema, ed è importante che nel campo visivo ci sia solo ciò che serve in quel momento e che vada via quando non serve più». In più, «se lo scenografo è un artista come Mario Ceroli, la cosa migliore è usare le sue opere e non costringerlo a concepire una scenografia, che non è il suo mestiere. Per esempio, nel caso di Riccardo

III, Ceroli aveva già fatto quella scala e quelle sagome»283.

Da un punto di vista semantico, è singolare che il ricorso di Ceroli alle sue opere si riallacci pure, ed in modo diretto, alle teorie teatrali tenute in grande considerazione da Ronconi, in particolare a quella di Kott sul teatro elisabettiano come “Grande Meccanismo”: anche l’autore polacco parla della storia feudale come una grande scala su cui sfila ininterrottamente il corteo dei re284.

Se invece si analizza la scenografia da un punto di vista spazio-prospettico285, ci si accorge che Ceroli opera consapevolmente una rivolta: l’artista va infatti contro la tradizione di messa in scena della cultura elisabettiana, che nega il punto di vista centrale, la simmetria, l’organicità e l’omogeneità dello spazio a favore dell’allusività medievale, del luogo deputato, del cartello indicativo del momento e del sito, e propone e realizza una versione scenica in prospettiva unicentrica. Le sue scene, quasi “pierfrancescane” in quanto a rigore prospettico, creano un netto contrasto con la recitazione violenta, i percorsi aggiranti, la convulsa tensione del dramma e dei personaggi, su cui 280 Ibidem, p. 95. 281 Ibidem, pp. 93-94. 282. Ibidem, pp. 96-97. 283

Luca Ronconi, in Ave Fontana, Alessandro Allemandi (a cura di) Ronconi, gli spettacoli per Torino, U. Allemandi, Torino 2006, p. 2.

284 Jan Kott, I re, in Shakespeare nostro contemporaneo, cit.

73

trionfa la mimica spezzata e architettonica di Gassman, catafratto nel costume-corazza, da

Übermensch meccanico. «La misura rinascimentale scelta dallo scenografo distrugge plasticamente,

prima ancora della fine narrativa della vicenda, la possibilità stessa di esistere di Riccardo. Il suo destino si verifica nello scontro fra l’assolutezza matematica delle strutture e l’ideologia stessa del contesto shakespeariano. Aver saputo inventare questo nuovo modo di rendere drammaticamente attuale il contesto è merito di Ceroli. […]. Per il Riccardo si deve parlare di costanza della ragione e di rigore struttivo, ma anche di negazione dello spazio dell’immagine umana: è appunto questa una tragedia di uomini ridotti, dal prepotere delle architetture, a larve di sé fino alla crisi finale che il rigore astratto-brunelleschiano dell’impianto unicentrico rende, se possibile, più dilaniante ed orrenda»286.

Oltre alla cultura rinascimentale287, che si palesa nella tensione architettonica e spaziale delle forme, altri due sono i riferimenti storici di Ceroli per la costruzione delle scene del Riccardo III: Appia e Craig per quanto riguarda la semplificazione strutturale e le scene costruite di luci e di piani; il Costruttivismo russo per quanto riguarda l’essenzializzazione della struttura, il controllo, il rigore della ragione.

Crispolti evidenzia come l’esperienza della scena, già a partire da questa prima prova, abbia probabilmente avuto delle influenze sulla progettualità immaginativa di Ceroli scultore alla fine degli anni Sessanta, introducendo una nuova disinvoltura nella capacità di proposizione di figure articolate, come ad esempio L’aquilone, o di cospicue presenze oggettuali d’ingombro a scala scenica, come per esempio Barca (fig.22 di cap. 5.7), entrambe del 1968288. Tra scultura e teatro Ceroli instaura un rapporto a doppio scambio, di dare e avere.

Outline

Documenti correlati