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MARIO CEROLI E IL TEATRO

3.4 «1968 O DEL TEATRO»

3.5 MARIO CEROLI E IL TEATRO

«Perché Ceroli abbia incontrato la scenografia, sul suo felice cammino di artista, è facilmente intuibile. Peraltro questo incontro avviene con anticipo su una situazione

206 Kounellis dichiara: «I miei materiali non integrano, pretendono uno spazio proprio e, assieme, creano uno spazio complessivo che tende

non già a far dimenticare la funzione del luogo teatrale quanto a rimetterla in discussione, a provocarla, a rivelarne le costrizioni che comporta. Inoltre, questi materiali danno volutamente fastidio all’attore, lo obbligano a guardarsi intorno, a difendersi, a cancellare ciò che in lui appartiene alla tradizione del bel recitare». Cfr. Jannis Kounellis, Non mi interessa la galleria d’arte sul palcoscenico, da Pittori e scultori all’assalto dello spazio scenico, in Guido Boursier, Italo Moscati, Marisa Rusconi (a cura di), Dopo la scenografia, «Sipario», aprile 1969, n°276, p. 13.

207 Paolo Scheggi, Riempire un tempo come tempo della teatralità, in Guido Boursier, Italo Moscati, Marisa Rusconi (a cura di), Dopo la

scenografia, cit., pp. 15-17.

208 Visita alla prova de L’isola purpurea di Michail Bulgakov, adattamento di Giuliano Scabia, regia di Raffaele Maiello, scene di Ezio Frigerio,

costumi di Luisa Spinatelli, oggetti scenici di Paolo Scheggi, Milano, Piccolo Teatro, 5 dicembre 1968. Cfr.

http://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?IDtitolo=129, data ultima consultazione: 26 aprile 2012.

209 Materiali per 6 personaggi di Roberto Lerici, regia di Roberto Lerici, Milano, Teatro Durini; Cancellazione di Emilio Isgrò, Bologna, Museo

d’Arte Moderna; Azione-teatro per una strada, realizzata per un film di Raffaele Maiello; Oplà-stick, passione secondo Paolo Scheggi, Milano, Galleria del Naviglio. Tutti questi interventi risalgono al 1969.

210 Paolo Scheggi, Riempire un tempo come tempo della teatralità, in Guido Boursier, Italo Moscati, Marisa Rusconi (a cura di), Dopo la

scenografia, cit., p. 17.

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L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, regia di Valerio Zurlini, scene e costumi di Alberto Burri, San Miniato al Tedesco, Sagrato del Duomo, 3 agosto 1969. Sorretti da intelaiature metalliche a vista, i fondali ideati da Burri sfruttavano in funzione del testo i materiali tipici dell’artista: i sacchi strappati e ricuciti per simboleggiare la vita penitente, la plastica rossa per alludere allo sfarzo della corte papale, le bruciacchiature per significare la rinuncia e la persecuzione. Cfr. Vittorio Rubiu, Alberto Burri, Einaudi, Torino 1975, pp. 19-20.

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destinata a ingrossarsi, nel fitto crocicchio di intersezioni tra arti della visione e dello spettacolo che hanno caratterizzato gli anni Settanta, non di rado dissanguando le prime a beneficio delle seconde. La personale e solida variante di Ceroli è che il suo contributo non è stato nel senso di una trasfusione (da un corpo così destinato al languore), ma nel trasloco da uno spazio all’altro o, per meglio dire, dentro ad una medesima spazialità, in un processo di andata e ritorno. È infatti nella spazialità ceroliana, fin dalle prime sculture, ma poi soprattutto dagli environments intorno al 1966-1967, che si intuisce la vocazione teatrale, e non solo per la tendenza all’espansione e all’occupazione fisica ma, soprattutto, per il senso dell’animazione degli spazi, questo è sempre l’istinto di Ceroli scultore e “scenografo”. Scenografo tra virgolette perché, appunto, poi, le sue scenografie non sono tali, non sono scenografie, cioè accessori teatrali, ma teatro in prima persona. Penso che sia qui il punto centrale e […] il più nuovo, il protagonismo degli apparati teatrali di Ceroli, la cui “azione” corre in parallelo allo svolgimento drammatico, all’occorrenza assumendolo in toto»213.

In queste brevi ma significative righe, scritte da Calvesi in occasione della mostra Mario Ceroli,

Progetti scenici per opere teatrali 1968-1978 allestita nel 1979 alla Galleria di Franca Mancini a

Pesaro214, si condensa tutto il significato dell’apporto dell’artista in ambito teatrale, a cui l’artista approda, per sua stessa ammissione, «con naturalezza»215.

Il 1968 è per Ceroli l’anno della sua prima collaborazione teatrale. A febbraio, infatti, realizza le scenografie per il Riccardo III di Shakespeare messo in scena prima a Torino, poi a Roma e a Prato, da Vittorio Gassman con la regia di Luca Ronconi. Le sue scenografie appaiono sin da subito come una sorta di logico sviluppo delle sue ricerche scultoree, riempiendo la scena fino a inglobare «il tempo, il colore, il suono e soprattutto l’azione»216, e sottoponendo lo spettatore ad una percezione dello spazio più pregnante.

Il Riccardo III è il primo di una lunga serie di spettacoli teatrali a cui Ceroli lavora fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, stringendo diverse collaborazioni con vari registi. Di Luca Ronconi, oltre al già succitato spettacolo, Ceroli firma, ancora nel 1968, la scenografia del Candelaio di

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Maurizio Calvesi, Il rinnovamento scenico di Mario Ceroli, in Maurizio Calvesi (a cura di), Mario Ceroli, Progetti scenici per opere teatrali 1968-1978, brochure della mostra, Pesaro, Galleria di Franca Mancini, 24 marzo – 30 maggio 1979.

214 Nel 1969 Franca Mancini diventa socia della Galleria Il Segnapassi di Pesaro fondata e diretta da Renato Cocchi, che contribuisce

all’organizzazione del ciclo di mostre Sculture nella Città: con le mostre di Arnaldo Pomodoro nel 1971, Mario Ceroli nel 1972, Ettore Colla nel 1973 e Alberto Burri nel 1976, le sculture degli artisti occupano gli spazi storici più prestigiosi della città. La mostra di Ceroli è documentata da Mario Ceroli: Pesaro, dal 8 luglio al 30 settembre 1972, “catalogo diario” della mostra in cui sono registrate le fasi di montaggio, giorno per giorno, da due fotografi d’eccezione, Ugo Mulas e Giorgio Colombo. Il Segnapassi si scioglie nel 1976 e nel 1977 si inaugura la Galleria Franca Mancini, il cui «orientamento non è stato di seguire una linea di tendenza specifica, bensì di ricercare tra i vari movimenti artistici moderni e contemporanei le connessioni fra le avanguardie storiche e l’attualità». In questo programma di ricerca rientrano le mostre della Galleria, che iniziano con una serie di mostre sul teatro allestite nel biennio 1978-1979: oltre a Futura, Poesia sonora, a Nam June Paik, Charlotte Moorman e il movimento Fluxus, e a Giacomo Balla. Progetti scenici per sintesi futuriste 1915-1925, la Galleria ospita Mario Ceroli. Progetti scenici per opere teatrali 1968-1978, mostra presentata da Maurizio Calvesi in cui vengono esposti i disegni su carta dell’artista per Riccardo III di W. Shakespeare, Norma di V. Bellini, Aida di G. Verdi, Addio Fratello crudele di J. Ford e Sancta Susanna di P. Hindemith. L’interesse di Mancini nei confronti degli artisti che hanno lavorato per il teatro l’ha spinta anche negli anni successivi a continuare in questa direzione: nel 1980 è divenuta Presidente dell’Associazione Culturale Il Teatro degli Artisti che, in collaborazione con il Comune di Pesaro ed il Rossini Opera Festival, organizza mostre di artisti che hanno anche lavorato per l’Opera e il teatro. Cfr. Il Teatro degli Artisti, Rossini Opera Festival, Les rencontres rossiniennes 1980-2005: venticinque anni di mostre del Teatro degli Artisti a Pesaro, Umberto Allemandi, Torino 2005. Presso la Galleria Franca Mancini ho avuto il piacere di visionare la cartella Progetti originali per il teatro, contenente le riproduzioni di otto disegni di Ceroli presentati nella suddetta mostra del 1979.

215 Mario Ceroli, in Fabio Doplicher (a cura di), Mario Ceroli: scenografia come scultura, «Sipario», febbraio 1973, n°321, p. 26. Anche Anna

Maria Positano sottolinea che «il carattere “invasivo” del suo [di Ceroli] lavoro lo ha portato in modo naturale allo sconfinamento in ambiti che solo un’idea angusta dell’opera d’arte assegna a categorie inferiori: il teatro in primo luogo; il cinema […] fino ad un progetto mai completato di teatro». Cfr. Gloria Porcella (a cura di), Mario Ceroli: c’era una volta un pezzo di legno, catalogo della mostra, Roma, Biblioteca Vallicelliana, 26 novembre – 7 dicembre 2002, Galleria Ca’ D’oro, Roma 2002.

216 Cesare Brandi, Il meglio delle scene, «La Fiera Letteraria», Milano, anno XLIII, n°12, marzo 1968, p. 24, ora in Arturo Carlo Quintavalle (a

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Giordano Bruno, presentato al Teatro La Fenice di Venezia nell’ambito del XXVII Festival

Internazionale del Teatro di Prosa, mentre nel 1969 il progetto, poi ritirato, per le scene dell’Orlando Furioso da presentare al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Con e di Pier Paolo Pasolini allestisce, al

Deposito D’Arte Presente di Torino nel novembre 1968, Orgia, confrontandosi quindi sin da subito con il primo dei testi scritti dall’intellettuale bolognese appositamente per il suo nuovo «Teatro di Parola». A partire dagli anni Settanta, oltre a ricevere l’assegnazione della cattedra di scenografia presso l’Accademia di Belle Arti a L’aquila, Ceroli avvia una feconda collaborazione protrattasi nel tempo con due importanti registi: Giuseppe Patroni Griffi e Mauro Bolognini. Del primo cura gli allestimenti scenografici di Confessione scandalosa di Ruth Wolff, nel 1977 al Teatro La Pergola di Firenze, e di Assassinio nella cattedrale di Thomas Stearn Eliot, nel 1984 al Teatro Donizetti di Bergamo, per il teatro di prosa, mentre per quello lirico cura Il trovatore di Giuseppe Verdi, nel 1985 all’Arena di Verona. Tuttavia il sodalizio con Patroni Griffi, palesato anche dal Ritratto seduto del 1966 che Ceroli gli dedica (fig. 19), risale ai primissimi anni Settanta, quando Ceroli è chiamato come

art director nei film Addio fratello crudele e Identikit, rispettivamente del 1970 e del 1973217. Della regia di Mauro Bolognini, anch’egli immortalato in una scultura lignea che è diventata il logo del

Centro Mauro Bolognini (fig. 20), Ceroli cura le scenografie di cinque messinscene per il teatro lirico:

nel 1972 Norma di Vincenzo Bellini al Teatro alla Scala di Milano; nel 1978 Aida di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice di Venezia; nel 1980 La Fanciulla del West e nel 1990 Tosca, entrambe di Giacomo Puccini e tutte e due presentate al Teatro dell’Opera di Roma; nel 1991, infine, Don Carlo di Giuseppe Verdi, di nuovo al Teatro La Fenice di Venezia. Il rapporto tra regista e scultore si fa in questo caso particolarmente intenso, tanto che, come evidenzia acutamente Luca Scarlini, Bolognini nella collaborazione con Ceroli abbandona eccezionalmente la propria linea principale di lavoro, basata sulla messinscena filologica del melodramma218.

Nel 1975, al Teatro Olimpico di Roma, Ceroli allestisce le scene per Beatitudines di Goffredo Petrassi per la regia di Carlo Emanuele Crespi, facente parte di un concerto di musica sacra prodotto dall’Accademia Filarmonica Romana. Nello stesso anno, per la regia di Antonio Calenda, cura inoltre le scenografie del Lear di Edward Bond presentato al Teatro Stabile d’Abruzzo a L’Aquila. Nel 1978 realizza invece l’allestimento di Sancta Susanna di Paul Hindemith, presentato con la regia di Giorgio Pressburger al Teatro dell’Opera di Roma. Risale al 1981 la scena per Girotondo di Arthur Schnitzler, allestito al Teatro Eliseo di Roma per la regia di Gian Maria Volontè, a cui Ceroli ha dedicato un bellissimo disegno a matita e pastello, intitolato “Il Teatro” (Al mio amico Volontè), in cui il profilo del volto del regista compare a fianco di una lunga scala219. Nel 1987 Ceroli debutta come scenografo di balletto preparando le scene del Romeo e Giulietta messo in scena dall’Aterballetto al Teatro Valli di Reggio Emilia, per la regia di Amedeo Amodio. Infine va ricordato che Ceroli collabora anche con il regista Giulio Macchi, curando tra 1968 e 1969 le scenografie del programma televisivo Rai Orizzonti

della scienza e della tecnica.

Questi allestimenti teatrali sono frutto, nella maggior parte dei casi, del solo Ceroli. Tuttavia, soprattutto negli ultimi, l’artista è frequentemente affiancato da valenti collaboratori o co-autori, tra i quali vanno ricordati principalmente l’architetto Gianfranco Fini, che con lui lavora già per Norma e per Lear e poi in maniera pressoché continuativa a partire da Assassinio nella cattedrale, ed Enzo

217

Cfr. capp. 5.6 e 5.8.

218 Cfr. Luca Scarlini (a cura di), Il palcoscenico del desiderio: Mauro Bolognini regista d’opera, pubblicato in occasione della quarta edizione

del Mauro Bolognini Film Festival, Tipografia CF Press, Serravalle Pistoiese 2010.

219 Cfr. Carmine Benincasa (a cura di), Ceroli, Torino, Seat 1984, tavola n°26. L’opera è costituita da 12 pagine sciolte di testo e da 40 tavole

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Cucchi, che dà un contributo pittorico fondamentale per la Tosca di Bolognini al Teatro La Fenice di Venezia.

Nonostante questo fitto elenco di collaborazioni, bisogna considerare che l’approccio di Ceroli al mondo teatrale avviene del tutto casualmente. Ricorda Ceroli:

«Prima di lavorare per il Riccardo III io non avevo mai messo piede in un teatro, non avevo mai visto uno spettacolo. Il teatro esercitava su di me un fascino enorme, tuttavia quello che si fa in Italia mi è sempre sembrato inutile, così avevo rifiutato altre offerte di scenografie. Vedevo lo spettacolo teatrale soprattutto come movimento di oggetti, nel filone del costruttivismo russo-tedesco, ma non mi interessava la partecipazione dell’uomo, dell’attore, in mezzo a questi oggetti […]. E, restando su questa idea del teatro come dinamismo di oggetti, devo dire che avevo sempre pensato che il mio lavoro di scultore fosse già teatro in sé e proprio in questo senso, per cui trovavo sciocco fare muovere le mie cose dagli attori. Ma l’idea di affrontare Shakespeare e, insieme, per la prima volta, il palcoscenico, era troppo terrificante per non diventare anche tremendamente affascinante. Tanto più che il regista era Luca Ronconi con il quale si stabilì al primo incontro un metodo di lavoro in comune che diventò anche comunanza di vita»220.

Ronconi, artista in grado di creare e governare la complessità, nell’approccio ai testi come nell’uso sapiente e anticonvenzionale dello spazio e del tempo e, di conseguenza, nella gestione di macchine sceniche articolate e spesso in costante movimento, per il Riccardo III di Torino non chiama uno scenografo, ma utilizza le sculture di legno e ferro di Ceroli, con le quali crea una claustrofobica scatola scenica di originaria potenza. Casuale, si è definito qualche riga più sopra, l’approccio di Ceroli al teatro: questo perché Ronconi decide di avvalersi dell’innovativo contributo dell’artista sulla base della singolare corrispondenza individuata tra l’idea che si era fatto del Riccardo shakespeariano e le sue sculture. E sono proprio queste ultime ad essere portate sul palcoscenico e a diventare la scenografia, se non addirittura, come ha affermato Cesare Brandi, «il vero protagonista»221 del dramma.

Una volta intrapresa questa nuova strada, il cammino di Ceroli prosegue nettamente in direzione del teatro, che arriva ad appassionarlo costantemente nel tempo, finanche alla progettazione ideale, nel 1971 insieme ad Enrico Job, «di un teatro per Faust»: una «scultura in 13 quadri»222, «un Faust con un solo personaggio, Margherita; il resto», afferma l’artista, «è ambientazione da me creata: insomma, tutta la sperimentazione»223 con le sue sole opere. Quella di costruire l’impianto scenico, sia di ambito teatrale, sia cinematografico che televisivo, avvalendosi esclusivamente della propria produzione artistica, diventa una peculiarità saliente di Ceroli, che in tutta la sua prolifica carriera in questo campo porta sul palcoscenico le sue sculture per «farle vivere in ambiente diverso»224. Ceroli, nella fondamentale intervista rilasciata a Franco Quadri nel 1983, dichiara:

220

Mario Ceroli, Un modo di far vivere le sculture in ambiente diverso, in Guido Boursier, Italo Moscati, Marisa Rusconi (a cura di), Dopo la scenografia, cit., p. 17.

221 Cesare Brandi, Il meglio nelle scene, «La fiera letteraria», 21 marzo 1968, riportato in Quintavalle Arturo Carlo (a cura di), Ceroli, cit., pp.

46-48.

222

http://www.marioceroli.it/Opere/Teatro-Cinema-Tv/3/FAUST/1527/, data ultima consultazione: 27 aprile 2012. Il sito è corredato da ben 9 bellissime riproduzioni dei disegni dell’artista per questo progetto.

223

Fabio Doplicher (a cura di), Mario Ceroli: scenografia come scultura, cit., p. 27.

224 Mario Ceroli in Marisa Rusconi (a cura di), Mario Ceroli: un modo di far vivere le sculture in ambiente diverso, in Guido Boursier, Italo

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«La mia collaborazione all’interno del teatro mi ha affascinato moltissimo e solamente oggi riesco a capirne l’importanza: perché ho avuto a disposizione, non volendo, occasioni pazzesche, l’occasione cioè di far vedere il mio lavoro anche in un contesto completamente diverso da quello che è la galleria. Cioè la possibilità di esporle in palcoscenico è stata fantastica. […]. Forse solo oggi mi sono accorto che per me il teatro, il palcoscenico è stata la grande sala per l’esposizione delle mie opere. E poi credo che il teatro ti offra la possibilità di far muovere gli oggetti che tu costruisci, mentre non lo puoi fare in galleria. […]. [L’operato artistico sul palcoscenico] non soffre della staticità della galleria. Non soffre della staticità dell’opera dentro un museo, dentro una collezione. Invece vive in un clima completamente diverso, si muove, la gente sta lì per due, tre ore a guardarla, una cosa fantastica. E il rapporto per l’autore è del tutto diverso, destinato a un tipo di maggiore completamento»225.

Quindi Ceroli costruisce le scenografie portando in teatro le proprie opere, ovviamente rivedendole e rivisitandole da un punto di vista dimensionale per adattarle al palcoscenico, e, altro fattore importante, facendole muovere. Gli spettacoli a cui Ceroli collabora, soprattutto quelli lirici, non sono rigidamente delimitati da un punto di vista spaziale, me sono invece caratterizzati, in via generale, da molti movimenti e cambi di scena che avvengono a vista. Per lo scultore

«il teatro è una cosa vitale e, importante, la scena deve muoversi, come ci ha insegnato il costruttivismo russo-tedesco. Nelle mie scene, le mie stesse proposte non sono mai fissate nel tempo, si muovono con i personaggi, i cambiamenti a vista non comportano interruzioni»226.

Il dinamismo implicito negli allestimenti scenografici di Ceroli non è mai fine a sé stesso, non ha mai valore accessorio, prettamente decorativo o illustrativo, bensì funzionale, narrativo o interpretativo, tanto da determinare spesso tutta l’azione drammatica. Ceroli si allontana quindi nettamente dai concetti della scenografia tradizionale di tipo descrittivo-decorativo, arriva addirittura a non voler sentirsi definire uno scenografo, che nella maggior parte dei casi per lui equivale meramente a «arredatore di teatro»:

«Per un attimo, voglio considerarmi uno scenografo, anche se tengo a ribadire che a teatro il mio intervento è quello dell’artista»227, «perché puoi pensare che uno scultore faccia una cosa completamente diversa rispetto alla funzione dell’arredatore di teatro»228.

Ceroli quindi, sin dal suo esordio al Teatro Stabile di Torino nel 1968 e fino alle collaborazioni più recenti, ha modo di portare sulla scena teatrale la forte determinazione spaziale sia dei suoi insiemi ambientali, sia delle sue singole proposizioni plastiche di rapporto ambientale, impossessandosi quindi in un certo senso dello spazio teatrale, del palcoscenico. In questo modo apre un ambito di attività assai fertile, intimamente connesso al suo lavoro di scultore, che lo ha portato lungo una

225 Franco Quadri (a cura di), Questo è il teatro di Ceroli, in Maurizio Calvesi (a cura di), Ceroli, cit., pp. 96-99. 226

Fabio Doplicher (a cura di), Mario Ceroli: scenografia come scultura, cit., p. 27.

227 Ibidem, p. 26.

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trentina d’anni ad affermarsi fra «i più originali e consapevoli autori di una moderna e decisamente plastica scenografia in Italia»229. L’esito nuovo di straordinaria efficacia comunicativa proprio delle sue scenografie nasce da un gioco in termini di sfida immaginativa: deriva cioè dall’accostamento e dalla connessione dinamica sul palcoscenico delle sue soluzioni scultoree, che sceglie non perché in esse individua precise corrispondenze analogiche con i testi teatrali, bensì perché esse anticipatamente le pongono.

Ma Ceroli si distingue in ambito scenografico anche per un'altra ragione: se già prima di lui molti altri artisti, come ad esempio Renato Guttuso, Alberto Burri o Giorgio De Chirico, avevano fornito spunti per la scenografia con le loro opere, nessuno di loro, prima di Ceroli, era fino ad allora riuscito a identificare la scenografia con la propria opera: «in Ceroli c’è […] un’assoluta identità tra concezione artistica e concezione scenografica»230.

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