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LA RILETTURA CRITICA DI GIROTONDO DI VOLONTÈ INCARNATA NELLA SCENOGRAFIA DI CEROLI Se molto spesso le recensioni critiche descrivono con un certo puntiglio l’impianto scenico ideato da

LA FANCIULLA DEL WEST

LA RILETTURA CRITICA DI GIROTONDO DI VOLONTÈ INCARNATA NELLA SCENOGRAFIA DI CEROLI Se molto spesso le recensioni critiche descrivono con un certo puntiglio l’impianto scenico ideato da

Mario Ceroli, «è perché in esso si legge, in termini perentori, il progetto critico su cui si fonda la radicale rilettura di Girotondo da parte di Volontè»765. Il regista parte dalla constatazione che la commedia di Schnitzler è fondata sulla circolarità e sulla ripetizione: le dieci storie non solo si mordono la coda l’una con l’altra, ma sono la stessa storia iterata per lievi variazioni. La ronda in cui le vicende sono per di più risucchiate non è soltanto una giostra amorosa, ma è un vortice d’amore e di morte: ad attivare il turbinio d’immagini, sensazioni, parole e suoni dei personaggi non è tanto la memoria, quanto il delirio di un unico sogno ad occhi aperti, un sogno da raccontare ad alta voce, quasi sul lettino dello psicanalista. Ecco allora che nella messinscena al Teatro Eliseo le dieci coppie diventano una sola: vi è un Lui, interpretato sempre da Gian Maria Volontè, in nero gabbano e con il volto di biacca su una folta zazzera ricciuta; vi è una Lei, interpretata sempre da Carla Gravina, che appena cambia la sopraveste, qua il logoro pellicciotto della prostituta, là la redingote della signora adultera, ma che ha sempre lo stesso viso bistrato, la stessa smorfia di stanco disgusto. Per ogni vicenda lei scende da «quello scivolo degno del Prater»766; lui l’attende in basso, sdraiato sul letto immondo o sul rigido divano. Si dicono e ridicono le loro incomprensioni, le loro stizze, il sordo rancore, mediati dallo stesso attacco: “E allora, dottore?”. La voce è sempre e solo la loro, ruvida e roca, che si scompone in un frenetico brontolio spesso fastidiosamente amplificato da casse elettroniche o reso inintelligibile dal frequente ricorso al play-back di brani dello stesso dialogo e dai «rumori più disparati – di acqua e di carrozze, di uccelli e di campane – che giungono sul pubblico dal fondo sala»767.

Intorno ai due amanti, poi, s’aggirano cinque personaggi dello stesso incubo, che nelle intenzioni registiche altro non sono che le proiezioni dei due protagonisti, i loro doppi: «un servo di scena, dal torace glabro, una maschera trasparente, che ne propizia entrate ed uscite, muto psicopompo; una adolescente nuda, biondi i capelli, nera una cinta all’inguine; una viperina femmina d’angiporto; uno zerbinotto in grigia marsina; un efebo torreggiante avvolto in un manto rosso ad occhi di pavone»768. Questi «fantasmi»769, muti per tutta la messinscena, agiscono sul palcoscenico mentre Volontè e Gravina continuano senza distrarsi il loro dialogo, palesando l’abisso ripugnante che le parole dei due amanti occultano con turpi avvolgimenti dei loro corpi.

Infine, l’alcova si addobba di volta in volta di una simbologia fatta «di piccole e grandi gabbie, di castelli di vetro o di corone mortuarie»770, di «figure imbavagliate e incamiciate di forza e [di] un palo anch’esso avvolto di bende su cui pesano forti sospetti di feticismo sessuale»771.

Tutti questi elementi e tutti questi personaggi, sospesi tra sogno e realtà, vivono e agiscono in una scenografia a loro aderente: Ceroli è riuscito a visualizzare la nuova chiave di lettura che Volontè ha

765 Guido Davico Bonino, Volontè e la Gravina lugubri amanti nella giostra mortale di Schnitzler, cit. 766

Guido Davico Bonino, Volontè, la Gravina e un Girotondo con l’amore che si morde la coda, «La Stampa», 10 dicembre 1981.

767

Sergio Surchi, Un girotondo quasi glaciale, cit.

768 Guido Davico Bonino, Volontè e la Gravina lugubri amanti nella giostra mortale di Schnitzler, cit. 769

Autore anonimo, Anatomia di un dissenso, «Il Tempo», 28 ottobre 1981.

770 Sergio Surchi, Un girotondo quasi glaciale, cit.

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dato della commedia di Schnitzler. Ancora una volta l’artista ha creato una scenografia che non è semplicemente decorativa ma che ingloba il significato dell’evento messo in scena.

L’ACCOGLIENZA CRITICA DELL’ALLESTIMENTO CEROLIANO

L’allestimento scenico di Ceroli viene unanimemente stroncato dalla critica. Questo giudizio è tuttavia una conseguenza della bocciatura da parte dei recensori della regia e della nuova chiave di lettura della commedia di Volontè, a cui lo scultore si attiene scrupolosamente.

I recensori critici esprimono all’unisono pareri negativi nei confronti di questa messinscena teatrale, anche quando essa viene portata in tournée, nei successivi mesi di dicembre 1981, e nei primi tre mesi del 1982, su altri palcoscenici italiani, tra cui il Valli di Reggio Emilia, La Pergola di Firenze, il Carignano di Torino e il Manzoni di Milano. Addirittura Ronfani, nel recensire l’arrivo di Girotondo nel capoluogo lombardo, si chiede perché Volontè e Gravina «persistano nell’errore di portare in giro per l’Italia un ectoplasma di spettacolo noioso, presuntuoso, inutile»ed auspica un «arresto di questo Girotondo!»772, definito sulla Gazzetta di Reggio del 29 dicembre 1981 come «uno degli spettacoli più discussi dell’anno teatrale italiano»773. Anzitutto la critica nazionale si trova singolarmente concorde nel criticare Volontè poiché «ha “letto” il lavoro attraverso un’ottica che ha presente l’opera futura di Schnitzler, più accentuatamente cupa nei colori e costantemente immersa in un clima funebre»774 e perché, «con l’aiuto basilare dello scenografo Mario Ceroli, ha cercato di visualizzare gli incubi che “Girotondo” non contiene anche se lo stesso Schnitzler li covava, come dimostrano opere posteriori a questa»775. Il risultato di questa forzatura è che della commedia non resta traccia di malinconia, di ironia, né di pietà o indulgenza, e neppure di quell’erotismo che serpeggia fra le eleganze verbali e comportamentali dei personaggi originali. Ne rimane solo la perentoria staticità delle situazioni che si consumano e si accavallano in pochi metri tra un aprirsi e chiudersi di porte, durante le quali il regista-attore si fa allo stesso tempo analista e oggetto d’indagine. E ne viene accentuato quel senso di crisi e di morte che aleggia su tutta la messinscena e che viene accentuato, oltre dalla simbologia sopra elencata, anche dal colore nero che è proprio dei vestiti e degli accessori degli attori: «qui vi sono ragazze nude che si aggirano con occhiali neri e direttori di orchestra con una maschera di plexiglas e violini neri, e molte cose sono nere, e tutto cade a pezzi, i vetri delle boiseries settecentesche sono scheggiati, come da pallottole vaganti, o forse dalle fionde dei ragazzi che stanno compiendo il girotondo infantile fuori. Se il “dentro” è questo, chissà che cosa è il “fuori”, se mai riuscissimo a uscire da questa insensata prigione dei sensi ammorbati»776. Insomma, Volontè viene definito un «pasticciere che fa pasticceria acida»777, dove per pasticceria acida si intende «la sua messinscena che è in realtà un rimaneggiamento che confina con lo sconquassamento»778. La sua regia «piena di mistero»779 non riesce a restituire il senso ed il significato di Girotondo, anzi, li offusca ancora di più.

Data la stretta correlazione tra regia e scenografia, anche l’impianto scenico di Ceroli viene stroncato dalla critica. Scrive Tian: «Per quanto è possibile (ed è molto difficile) far congetture sulle intenzioni

772

Ugo Ronfani, Volontè, fermiamo questo Girotondo!, «Il Giorno», 5 marzo 1982.

773 Autore anonimo, Terminano domani le repliche di “Girotondo”, «La Gazzetta di Reggio», 29 dicembre 1981. 774

Autore anonimo, Uno Schnitzler fatto di alcove per Volontè tornato al teatro, «Il Resto del Carlino», 27 dicembre 1981.

775

Saverio del Gaudio, Di “Girotondo” c’è soltanto il titolo, cit.

776 Tommaso Chiaretti, Nero, come un incubo viennese, cit. 777

Ibidem.

778 Renzo Tian, È mezzanotte, dottor Freud, cit.

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di Volontè, è lecito supporre che egli si sia proposto di riportare questa commedia frivola solo in apparenza sul suo vero binario: quello della radiografia, non pedante ma penetrante, di una civiltà che correva verso il suo crollo, e che dietro al rito degli approcci erotici ridotto a ripetizione di abitudini nascondeva il premere dell’inconscio e cercava di eludere l’incalzare della crisi. Girotondo come crisi di una società vista attraverso la crisi della coppia vista attraverso la rimozione dell’inconscio vista attraverso le figurazioni di un sogno? Questo sistema di scatole cinesi (se le nostre congetture sulla regia sono esatte) non trova però le giuste misure di incastro. Rimane visibile quasi esclusivamente l’ultima, la più grande e quindi la più lontana dal nocciolo, che è una scenografia talentosa anche se eccessivamente fastosa e affastellata di Mario Ceroli […]. È un paesaggio onirico, ma che dichiara troppo apertamente di esserlo: è vero che il sogno rifiuta la logica rassicurante e monolitica dello stato di veglia, ma esso ha una sua interna logica segreta: è il linguaggio “dimenticato” di cui parla Fromm»780. Così l’operato di Ceroli viene definito di volta in volta «aggeggio»781 di cui non si capisce il significato e il funzionamento, «piccolo carillon dei sentimenti» dentro cui «si muovono non uomini o donne, ma semplicemente i loro contorni fisici»782, «kafkiano baraccone del Prater»783, «bordello, luna park, stabilimento balneare con grande scivolo per signore disponibili»784. Tirando le somme, si può dire che anche nei confronti della scenografia «sontuosa e slabbrata di Mario Ceroli, stile “crollo della Belle èpoque”»785 i critici provano un senso di confusione, di poca chiarezza. «Certo è che, dal momento che il testo di Schnitzler è stravolto con tagli, spostamenti di scene, inversioni di battute da un personaggio all’altro, interpolazioni che rendono irriconoscibile l’agile versione di Paolo Chiarini, irruzioni di musiche di Ferdinando Maffii che arieggiano atonalità schönberghiane, costumi di Aldo Buti che oscillano fra surreale e domestico, il disorientamento sale al massimo senza che si riesca a ricavare nemmeno il senso di un non- senso»786. Girotondo per la critica resta insomma «un lavoro inespresso, crudo, che non sa rompere quel coriaceo scudo della quarta parete allargando il suo indiscutibile contagio problematico sul pubblico. Ne consegue che, tanto l’attore e regista come Carla Gravina e gli altri interpreti muti, assumono via via solo i tratti afoni e perdenti di una ciurma di condannati “fin de siècle”»787.

780

Renzo Tian, È mezzanotte, dottor Freud, cit.

781 Tommaso Chiaretti, Nero, come un incubo viennese, cit. 782

Gianpaolo Pioli, Un Freud avido e contorto tradisce Volontè a teatro, cit.

783

Ugo Ronfani, Volontè, fermiamo questo Girotondo!, cit.

784 Paolo Lucchesini, L’inconscio? È un girotondo, «La nazione», 27 febbraio 1982. 785

Ugo Ronfani, Volontè, fermiamo questo Girotondo!, cit.

786 Renzo Tian, È mezzanotte, dottor Freud, cit.

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