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PASOLINI, CEROLI E IL DEPOSITO D’ARTE PRESENTE

5.ANALISI DEGLI ALLESTIMENTI SCENOGRAFICI PER IL TEATRO, IL CINEMA E LA TELEVISIONE

PASOLINI, CEROLI E IL DEPOSITO D’ARTE PRESENTE

Riferendosi sempre al parallelepipedo costruito per Orgia, Ceroli afferma: «Doveva essere una cosa che si sentiva e non si sentiva, lì era piuttosto una scultura che rimaneva tale, perché non c’era movimento nella pièce»378. È lo stesso scultore a sottolineare una differenza importante tra quanto fatto per questo spettacolo e quello realizzato per gli allestimenti ronconiani: qui, infatti, i protagonisti non entrano in rapporto con la scena, anzi quest’ultima addirittura non subisce variazioni, non viene attraversata, modificata, vissuta come è accaduto invece in precedenza. Ma ciò è frutto dell’acuta analisi condotta da Pasolini sul ruolo della parola, dell’azione e della scenografia per il nuovo teatro: «Lo spazio, come elemento a sé stante – dice l’autore – non ha alcuna

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Piper è un’installazione del 1965 che, insieme ad altre opere dello stesso periodo, come La fila e La Cina, palesa quello che è il principale topos dell’immaginazione plastica ambientale scenica di Ceroli: la folla. In quest’opera, su una superficie di 4 mq, un intreccio di sagome lignee di figure umane profilate si dimena al ritmo di musica in quello che all’epoca era uno dei più eccitanti luoghi di svago notturno. L’impianto di questa installazione è costituito dall’addensarsi delle sagome pieghevoli in una condizione prossemica estrema. Il Piper si espande nell’ambiente dunque tramite una piuttosto compatta contiguità: da questo contrasto scaturisce l’ironia implicita nell’opera di Ceroli.

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Mario Ceroli, in Franco Quadri (a cura di), Questo è il teatro di Mario Ceroli, in Maurizio Calvesi, Ceroli, catalogo della mostra, Firenze, Forte del Belvedere, 14 luglio – 16 ottobre 1983, La Casa Usher, Firenze 1983, p. 97.

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Cfr. fig. 1.

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Arturo Carlo Quintavalle, nella sua monografia su Ceroli, segnala due Simboli fallici realizzati dall’artista per Orgia di Pasolini, rispettivamente di 30 x 21 cm. e 18 x 15 cm. Cfr. Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Ceroli, catalogo della mostra tenuta a Parma nel 1969, La Nazionale, Parma 1969, p. 150.

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In un’intervista Nelide Giammarco ricorda: «Insieme a Mario Ceroli, [Pasolini] fece fare delle enormi masche di legno e il calco, sempre in legno, del mio seno. Ma dopo le prove con Ceroli era impossibile recitare. Il teatro di parola che Pasolini aveva in mente si avvicinava alla tragedia greca, e voleva in qualche modo riprenderne i canoni, con i coturni, il peplo, ma era impossibile recitare con quegli arnesi addosso. Io avevo i seni, ma Luigi Mezzanotte aveva il membro! Forse solo adesso riesco a capire quello che lui voleva raggiungere con questi mascheramenti. Dunque Ceroli fu ‘bocciato’». Cfr. Fabio Acca (a cura di), “Un cubo che era una tomba”, conversazione con Nelide Giammarco, «Prove di drammaturgia», n° 1, luglio 2006, p.49.

378 Mario Ceroli, in Franco Quadri (a cura di), Questo è il teatro di Mario Ceroli, in Calvesi Maurizio (a cura di) Ceroli, catalogo della mostra

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importanza. Esso deve essere nella nostra testa. Quello che conta sono le parole portate alla loro massima espressione. L’azione, l’evento teatrale per me è costituito da due persone che parlano fra loro; questa è poesia teatrale e nei suoi versi si avverte solo un residuo di azione»379. Se poi si va a leggere il Manifesto per un nuovo teatro, si capisce come la critica di Pasolini al sistema teatrale sia radicale, in quanto ne mette in discussione non solo la messinscena, ma anche lo stesso edificio e il pubblico che è solito frequentarlo: «I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale, ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia»380 chiamati ad assistere alle rappresentazioni «nei luoghi (fabbriche, scuole, circoli culturali) dove i gruppi culturali avanzati, cui il teatro di parola si rivolge, hanno la loro sede»381. Come logica conseguenza, il progetto originario di Pasolini comprende tre diversi luoghi di rappresentazione di

Orgia a Torino, tutti estranei ai luoghi teatrali consueti: il Deposito D’Arte Presente (D.D.P.), dove è

avvenuto il debutto e dove ha avuto poi luogo lo spettacolo durante tutto l’arco di tempo in cui è rimasto in cartellone; la Promotrice, una galleria d’arte in una villa al Valentino; infine la Sala delle Colonne del Teatro Gobetti382.

Il D.D.P. nasce nel 1968 per iniziativa dell’industriale Marcello Levi che, coltivando la passione per l’arte contemporanea, convince il noto gallerista torinese Gian Enzo Sperone383 a partecipare all’iniziativa: lo scopo del Deposito D’arte Presente è quello di aiutare artisti, quelli dell’Arte Povera in particolare384, nonché musicisti, attori e cineasti nel loro lavoro, sia dal punto di vista economico che da quello logistico, dando la possibilità di poter utilizzare una superficie di ben 450 mq. a chi non possiede uno studio o uno spazio adeguato a sperimentare con nuovi materiali o installazioni particolarmente grandi. Levi sceglie un garage in disuso, in via San Fermo 3: non una via del centro ma di Crimea, il quartiere oltrepò all’altezza del Ponte Umberto I.

I recensori sottolineano la novità e l’anticonvenzionalità del luogo scelto da Pasolini per la rappresentazione dello spettacolo. Alla prima «molti si domandavano: ma perché non al Carignano o al Gobetti? Ignoravano il manifesto pasoliniano per un “teatro di parola” nel quale si chiedono nuove sale – via le polverose sovrastrutture dei teatri tradizionali! – per un nuovo pubblico. E infatti ieri sera gli spettatori hanno trovato un guardaroba, un bar, delle maschere, posti numerati, un palcoscenico sia pure di misure inconsuete, riflettori e così via. Ed erano gli stessi spettatori che, di solito, s’incontrano al Carignano, all’Alfieri, al Gobetti»385. Questo è il compromesso a cui deve scendere

379 S. Tropea, Pasolini parla di “Orgia”, «Avanti!», 14 novembre 1968. 380

Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, cit., p. 46. Poche righe più avanti si legge: «Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali “prime” di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente sconsigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro. O, se con la sua simbolica, patetica, pelliccia di visone, si presenterà, troverà all’ingresso un cartello su cui c’è scritto che le signore con la pelliccia di visone sono tenute a pagare il biglietto trenta volte più del suo costo normale».

381 Ibidem, p. 52. 382

Allo stesso modo, anche le prove dello spettacolo non hanno luogo in teatro, bensì, dopo inutili ricerche di un locale perfettamente silenzioso e capace di sopportare rumori inverosimili, nel salone della casa in via Montoro di Laura Betti, «tra false quinte e improvvisati lumi di scena, con i mobili accatastati e i gatti inselvatichiti dalla massiccia intrusione della compagnia». Cfr. Berenice, Settevilente, cit.

383 Ceroli aveva esposto alcune sue opere presso la galleria di Sperone all’inizio del 1968. 384

Solo per fare un esempio attinente al rapporto artisti-teatro, il D.D.P. offre a Pistoletto uno spazio per performance, incluse quelle del gruppo di teatro di strada, Lo Zoo, che l’artista contribuisce a creare nel 1968. La mostra di inaugurazione del Deposito si tiene nel giugno 1968. Il gruppo degli artisti in mostra include tutti quelli che Celant aveva riunito sotto l’etichetta di “Arte Povera” per alcune mostre tenutesi nel settembre del 1967 e nel febbraio del 1968, con la sola eccezione di Pino Pascali. Include inoltre un paio di artisti, Paolo Icaro e Ugo Nespolo, non selezionati da Celant per le mostre di Arte Povera. Si tratta, insomma, di una mostra di Arte Povera, ma senza l’etichetta di Celant. Il D.D.P., che chiude i battenti nell’aprile 1969, rimane a lungo uno spazio riservato agli artisti e agli appassionati d’arte contemporanea, lontano dagli interessi di un pubblico più vasto, malgrado la straordinaria qualità di quanto vi veniva prodotto e presentato. «Questo almeno fino all’arrivo di Pasolini a Torino. Era la fine del novembre 1968. Pasolini era stato invitato dal Teatro Stabile di Torino per la prima di Orgia. L’artista aveva accettato l’invito precisando però di voler rappresentare il proprio lavoro in uno spazio non tradizionalmente teatrale, in sintonia con lo Zeitgeist del 1968 e che già il Living Theatre, allora residente in Italia, aveva messo in pratica. Dopo una serie di negoziazioni, Pasolini si ritrovò libero di disporre del DDP».cfr. Lumley Robert, Arte Povera a Torino: l’intrigante caso del Deposito D’Arte Presente, in AA.VV., Marcello Levi: ritratto di un collezionista, dal Futurismo all'Arte Povera, Hopefulmonster, Torino 2005, pp. 19-38.

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Pasolini: per avere l’autorizzazione a mettere in scena lo spettacolo in uno spazio inconsueto, lo Stabile gli impone di riservare l’accesso a Orgia ai soli abbonati dello Stabile e quindi, con una contraddizione di fondo, proprio a quel pubblico contro cui il regista si è scagliato nel suo Manifesto. Ceroli, in ogni caso, è chiamato ad operare in un contesto extrateatrale, fattore a lui nuovo, e concepisce un allestimento scenico in linea con l’ideologia pasoliniana. Nei primi due episodi di Orgia «la violenza fisica si mostra appena, se ne coglie se mai l’eco nel terzo episodio in cui, placata la tempesta dei sensi (e in che modo!), i due coniugi si riaffacciano alla vita, rivanno al passato, si piegano sulle carni piagate e sugli oggetti – sulla realtà insomma – con incerti sentimenti di pentimento e di rimorso»386. Fin dalle battute iniziali le regole del gioco, di ciò che accadrà, sono già fissate. Gli attori, ancora vestiti - Laura Betti con un abito blu, Luigi Mezzanotte con uno grigio - si scambiano le prime promesse di tortura e le prime battute provocatorie. Il tono voluttuoso della protagonista scandisce il desiderio masochistico della sofferenza, insieme al timore forse di non subirla con tutta la crudeltà che s’aspetta dall’uomo. Quest’ultimo è al contrario volutamente incerto, temporeggiante, per prolungare l’attesa di ciò che rappresenterà la messa in atto dei suoi piaceri sadici. Nel terzo episodio gli spettatori possono assistere al rito che porterà all’epilogo del quarto quadro in cui Laura Betti uscirà di scena: la Donna, dopo essersi tolta gli abiti, si avvolge in una coperta, mentre Luigi Mezzanotte indossa il pigiama. Come riportato dalle recensioni, il terzo quadro mette fine alla prima parte dello spettacolo. Dopo la pausa si riprende con il quarto quadro: gli attori compaiono in scena con la Betti che indossa una camicia da notte bianca e con l’attore sempre in pigiama. In questo episodio, verso la fine, la protagonista si appresta a compiere il rito dionisiaco dell’assassinio dei propri figli, prima di cadere vittima volontaria del sadismo di colui che risulta essere suo marito, per poi uccidersi a sua volta per anomia. Con il quinto episodio entra in scena Nelide Giammarco nelle vesti di una giovane prostituta. Nel quinto e nel sesto episodio si scatenerà nuovamente la furia sadica del protagonista. Ma a questo punto i valori in campo sono largamente alterati. Non c’è più da parte dell’elemento femminile desiderio di suicidio e di annientamento, ma un rinnovato vitalismo popolareggiante su cui si abbatte con più cupa violenza la bestialità dell’Uomo. Se il primo episodio è centrato sulle provocazioni della Donna che, morbosamente, interroga il proprio marito sulle intenzioni nascoste che intende riservarle fra quelle mura, lontano da occhi indiscreti, qui la reazione è di sgomento, da parte di una professionista che, recatasi a casa di un uomo per fare l’amore, si trova a subire atti di inaudita violenza. Anche i costumi che ricoprono gli attori mutano foggia e colore per ornare l’atto estremo che chiude la tragedia: l’Uomo, abito blu senza cravatta; la Ragazza, cappottino rosa sotto cui sono ben visibili un vestitino di lana bianco e gli indumenti intimi. In questo episodio si scatena l’istinto omicida del protagonista: la prostituta è ripetutamente colpita con calci e pugni, legata nelle mani, battuta selvaggiamente sulla schiena e in altre parti del corpo; lamenta invano di essere stata in sanatorio, anzi, lungi dall’indurre l’Uomo a pietà, riesce solamente a renderne più cieco e barbaro l’istinto sanguinario. Il quadro finale può definirsi un monologo a cose fatte. L’attore parla per venti minuti interrotto, di tanto in tanto, solamente dal suono della tromba, divenuto «via via più agghiacciante e macabro»387. Fra confessione e compiacimento si compie il rito di protesta del diverso di colui che ha «lungamente masticato senza essere riuscito a ingoiare le carni della propria madre»388. La Ragazza è fuggita nuda, la sua biancheria e i suoi vestiti sono sparsi all’intorno. Molto lentamente l’Uomo, monologando,

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Alberto Blandi, Finalmente in scena “Orgia” di Pasolini, atto di protesta contro la “normalità”, «Stampa Sera», 28 novembre 1968.

387 Lido Gedda, La scena spogliata, scritti sul teatro italiano del riflusso, cit., p. 34. 388 Pier Paolo Pasolini, Porcile, Orgia, Bestie di stile, Garzanti, Milano 1979, p. 184.

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comincia a spogliarsi dei suoi abiti per indossare poi, altrettanto lentamente, quelli della prostituta; quindi prende la corda e si toglie la vita.

Il monologo finale permette di ricostruire un altro degli aspetti della tragedia: la recitazione degli attori. Roberto De Monticelli reputa «interessante il tentativo di Pasolini di fare adottare ai suoi interpreti […] una recitazione anodina, non tanto didascalica quanto oggettiva, quasi priva di intonazioni e di colori. Nella difficile impresa riesce meglio il giovane Luigi Mezzanotte»389, ma anche Laura Betti colpisce per bravura l’attenzione dei recensori. Anche per Augusto Romano l’impostazione recitativa degli attori balza in primo piano: Mezzanotte e Betti «dicono le loro parti un po’ come si cantano i “recitativi” nei lavori musicali del Settecento, con un che di distaccato, di rattenuto, ma anche di salmodiante che, nelle intenzioni di Pasolini, corrisponde presumibilmente all’idea che egli si fa dell’attore antiborghese, il quale deve presentare il testo all’intelligenza critica dello spettatore, senza tentare prevaricazioni»390.

L’ACCOGLIENZA CRITICA DELL’ALLESTIMENTO CEROLIANO

Già con quindici giorni di anticipo sul debutto, vari quotidiani riportano le dichiarazioni di Pasolini relative alla pièce che sta per andare in scena a Torino. A debutto avvenuto, poi, si scatena la gazzarra giornalistica, che riempie per più di un mese le pagine dei quotidiani. Immediatamente sono rilevabili gli opposti schieramenti: i nemici acerrimi da una parte, dall’altra gli amici o semplicemente gli ammiratori che compiono sforzi titanici per salvare qualcosa dello spettacolo. In ogni caso, i numerosi interventi critici si concentrano quasi esclusivamente sulle tematiche affrontate da Pasolini con questo testo teatrale: e se si considera che Pasolini ha anticipato temi che sono poi esplosi in tutta la loro attualità molti anni dopo, come ad esempio la presa di posizione contro l’aborto o problematiche di politica nazionale, si può capire come la lungimiranza di questo intellettuale abbia facilmente spiazzato critici e studiosi.

Per quanto riguarda più prettamente l’allestimento scenico, la maggior parte dei critici spende poche righe, se non addirittura solo qualche parola, per commentare il lavoro di Ceroli: sul «minuscolo palcoscenico»391 una «specie di scatola»392, «una piccola scatola bianca»393, «una stanza-scatola di un bianco accecante»394, «uno scatolone bianco […] col coperchio rivolto al pubblico e che viene tolto e rimesso ad ogni quadro»395, «una cassa»396 «essenziale al massimo»397, di una «elementarità […] che indica, forse, la clausrazione e la frustrazione piccolo borghese»398. Tutti sottolineano la semplicità e la sobrietà della scena costruita da Ceroli, alla quale qualche critico più acuto prova ad attribuire un significato: «Oltre alle nude pareti di questa tana, o bozzolo, pare», a giudizio di Blandi, «di udire il brusio di un’umanità ottusa e conformista e le voci di una natura - la luna, una campagna e un fiume lontani – indifferente e matrigna, contro le quali due “diversi” si ribellano»399. Guglielmino invece evidenzia la stretta correlazione tra concezione registica e allestimento scenico: «In quanto regista,

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Roberto De Monticelli, Nella scatola bianca un furore a tre voci, «Il Corriere della Sera», 28 novembre 1968.

390 Augusto Romano, Orgia, «L’Italia», 28 novembre 1968. 391

Gian Maria Guglielmino, Un’“Orgia” di simboli e parole nel teatro di Pasolini, «La gazzetta del popolo», 28 novembre 1968.

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Ettore Capriolo, Un’orgia di parole, «Vie nuove», 5 dicembre 1968.

393 Roberto De Monticelli, Nella scatola bianca un furore a tre voci, «Il Giorno», 28 novembre 1968; Franco Quadri, Orgia, cit. 394

Autore anonimo, Con “Orgia” Pasolini dà inizio al “teatro di parola”, cit.

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Massimo Dursi, “Orgia” di Pier Paolo Pasolini, «Il Resto del Carlino», 28 novembre 1968.

396 Antonio Stäuble, Orgia, un dramma di Pasolini, «Cooperazione», 8 marzo 1969. 397

Sante Pasca-Margutti, Orgia, «Il Veltro», cit.

398 Oddone Beltrami, Ipotesi teatrale in “Orgia” di Pasolini, «La voce repubblicana», 10 dicembre 1968. 399Alberto Blandi, Finalmente in scena “Orgia” di Pasolini, atto di protesta contro la “normalità”, cit.

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Pasolini ha avuto l’intelligenza e l’accortezza necessarie (oltreché una coerenza a certi suoi manifestati principi) per ridurre la rappresentazione a una semplice “lettura” del testo, nell’ambiente scenico più spoglio e povero immaginabile»400.

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ORIZZONTI DELLA SCIENZA E DELLA

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