5.ANALISI DEGLI ALLESTIMENTI SCENOGRAFICI PER IL TEATRO, IL CINEMA E LA TELEVISIONE
L’ACCOGLIENZA CRITICA DELL’ALLESTIMENTO CEROLIANO
Dello spettacolo si parla e scrive molto, sebbene temporalmente venga portato in scena, dopo Torino, solo altre poche volte, al Quirino di Roma e al Metastasio di Prato, fino alla fine di marzo. La risposta del pubblico a un discorso unanimemente descritto come difficile si concretizza in una serie costante di esauriti. Del resto la critica, nella difformità dei giudizi e sotto un velo di generale diffidenza, segnala l’eccezionalità dello spettacolo289, la novità dell’interpretazione, il carattere di «avvenimento», «la vitalità di un teatro alla ricerca di forme nuove»; quando non addirittura «lo spettacolo che farà storia»290. La critica ufficiale è insospettita da troppe forzature, troppe contraddizioni, troppe scabrosità, troppe cose inusuali, troppe sgradevolezze. In ogni caso è difficile sintetizzare in un’idea unitaria l’accoglienza dello spettacolo. Poche volte si è dato il caso di una serie di recensioni ugualmente contraddittoria, sia nell’interpretare la messinscena che
286
Ibidem, p. 26.
287 Ceroli è un grande estimatore dell’arte rinascimentale, in particolare di Leonardo e di Luca Pacioli, i cui disegni sui solidi regolari
influenzano la sua prima produzione scultorea, come si può vedere nel caso di Squilibrio, traslata sul palco sotto forma di grande sfera durante il prologo.
288 Enrico Crispolti (a cura di), Ceroli, analisi di un linguaggio e di un percorso, Motta Editore, Milano 2003, p. 79. 289
« Il Riccardo III di Shakespeare messo in scena da Luca Ronconi per il Teatro Stabile all’Alfieri, protagonista Vittorio Gassman, è uno spettacolo del quale si parlerà al di là della sua durata, che sarà soltanto di un mese e mezzo, fra Torino, Roma e alcune repliche a Prato. Se ne parlerà in bene e in male, ma certo non passerà inosservato. È un tentativo notevole di moderna interpretazione scespiriana: da porsi accanto, pur nella sua incompiutezza, ad altri esperimenti del genere, compiuti in Italia: il remoto Riccardo II messo in scena da Strehler […] e il Troilo e Cressida, che realizzò a Genova Luigi Squarzina». Cfr. Roberto De Monticelli, titolo non pervenuto, «Il Giorno», 23 febbraio 1968. «Lo spettacolo susciterà molte discussioni e anche contrastanti pareri. Buon segno, poiché conferma la vitalità di un teatro alla ricerca di nuove e più soddisfacenti forme di espressione anche nella rilettura dei classici». Cfr. Alberto Blandi, Gassman forte protagonista del «Riccardo III» di Shakespeare, «La Stampa», 20 febbraio 1968.
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nell’apprezzamento dei risultati parziali, spesso di segno opposto per diverse scelte estetiche o semplici criteri di opportunità e di gusto.
Molto scettico si è rivelato ad esempio il critico di Roma – Napoli che, pur riconoscendo a Ronconi il merito di aver cercato di rinnovare il teatro italiano, afferma che «se è con questi moccoli che si intende dar luce al moderno teatro italiano, c’è da temere seriamente di dover, ancora per molto tempo, andare a letto al buio»291: definisce Ronconi, Ceroli e Job rispettivamente «un regista scatenato, […] uno scenografo e un costumista posseduti da un demone innovatore»292, e li critica perché hanno dato vita ad una manovra innovatrice troppo brusca e difficilmente comprensibile ai non iniziati.
Una critica simile è mossa da Oddone Beltrami, che accusa la messinscena di totale carenza di chiarezza: «il regista Ronconi e lo scenografo Mario Ceroli sono stati, forse per eccesso di inventiva e di disponibilità, i complici di questo guasto […]. Lo aver ideato quel macchinoso congegno tutto in legno a blocchi geometrici, con alte passerelle, gradoni e gradini che ingoiavano e poi rigettavano sulla scena gli attori […], hanno contribuito a spostare e a squilibrare la suggestione e le vicende del dramma, impaludando interlocutori e vittime in un congegno tutto estrinseco e superfluo»293. Tra tutte le scene ideate da Ceroli, quella maggiormente criticata da Beltrami è l’ultima, costituita dalle «gigantesche apparizioni finali di quei giganteschi profili di pupazzi di legno dove, tra le gambe di essi, va ad accasciarsi e morire Riccardo III, dissolvendo così, con un’imprevista distorsione, ogni valore di fatalità e di catarsi»294. Ma se da un lato c’è chi in modo lapidario stronca l’operato di Ceroli, che in due righe viene dubbiosamente e ironicamente descritto come «un’enorme cassa da imballaggio fatta di tavoloni d’abete (la scena?)»295, dall’altro c’è chi invece recensisce positivamente la scena come «estremamente funzionale, [perché] favorisce il rapido avvicendarsi dei fatti voluti dalla malvagità del protagonista»296. Lucia Sollazzo definisce «singolarissima la scenografia dello scultore Mario Ceroli [che] ha avuto modo, nella sua prima prova di scenografo, di applicarsi splendidamente in quello che resta il più aderente accordo con la interpretazione data dal regista Luca Ronconi al personaggio di Riccardo III. Così che l’intero spettacolo ci è giunto più che dalla recitazione e dai versi di Shakespeare nella nuova versione di J. Rodolfo Wilcock, visivamente da quelle scene di ferro e di legno, espressione di un universo elementare, primitivo, da quei costumi che Enrico Job ha reso a loro volta gabbie e strumenti di tortura, ieratici e gonfi, opulenti o funebri»297. E come Sollazzo, anche Franco Quadri sottolinea la perfetta comunione di spiriti tra Ronconi e Ceroli, in un articolo di cui si riporta, per la sua importanza e chiarezza, il pezzo centrale: «L’idea registica ha una perfetta corrispondenza nella scenografia costruita dallo scultore Mario Ceroli: un’enorme scatola-gabbia di legno grezzo, da cui meccanicamente scaturiscono altre scatole lignee concentriche e la grande scala del potere (ripresa da uno spettacolo di Leopoldo Jessner) sui cui gradini impervi sono costrette le immagini innaturali e frenetiche dei cortigiani nei costumi sontuosamente artificiali della moda elisabettiana. Ceroli ha anche contribuito in modo determinante a una delle più importanti idee della ricchissima e geniale messinscena di Luca Ronconi: il finale, in cui Riccardo III muore non ucciso da nessuno, in una battaglia che non ha luogo, travolto dall’apparire di enormi manichini di legno senza spessore, simbolo del Grande Meccanismo della
291 G.s., Riccardo III trionfa nonostante la regia, «Roma-Napoli», 11 marzo 1968. 292
Ibidem.
293
Oddone Beltrami, Macchinoso congegno scenico con Gassman in Riccardo III, «La voce repubblicana», 23 febbraio 1968.
294 Ibidem. 295
Alberto Perrini, Come Topo Gigio, «Specchio», 24 marzo 1968.
296 P. Per., Il mio regno per un cavallo!, «Stampa Sera», 20-21 febbraio 1968.
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storia»298. Franco Quadri evidenzia il carattere inconsueto della scenografia ceroliana, soffermandosi in particolare su due elementi: la grande scala del potere e l’apparizione dei manichini dell’ultima scena. E in effetti è proprio su questi due sculture che si catalizza l’attenzione dei critici: come succede sulle pagine di Sipario, dove si dice che la scala di Ceroli permette «qualche composizione assai suggestiva o sgraziata di indubbia comunicatività»299; o come fa Roberto De Monticelli, che non solo si sofferma a palesare il significato prima del rimpicciolimento e poi della scomparsa della scala su cui gli attori così faticosamente si inerpicano, ma che descrive la scena finale dello spettacolo come una di quelle che, per la sua potenza espressiva e per il felice connubio tra idea registica e scenografia, difficilmente si possono scordare300. Lo stesso fa anche Raul Radice, il quale di «questo singolarissimo spettacolo» loda la bellezza delle sagome lignee ceroliane dell’ultima scena, di cui dice che è «indubbio che al cortigiano Shakespeare e alla sua sovrana quella conclusione non sarebbe dispiaciuta»301. Pareri positivi sulla costruzione scenica di Ceroli provengono anche da parte di Alberto Blandi, che si sofferma a descrivere minuziosamente i vari cambiamenti di scena e il ben riuscito sodalizio tra scena e idea registica302, e di Orazio Napoli il quale, in un articolo ripercorrente le fasi iniziali dell’attività scultorea del maestro, sottolinea come in questo «allestimento scenico spettacolare impensato anche agli occhi di spettatori avveduti» Ceroli sia «riuscito ad aggiungere alla funzionalità dei pezzi trattati un’estensione spaziale»303. Del medesimo parere sono anche Poesio, che definisce gli elementi scenici di Mario Ceroli «potentissimi coadiuvatori della linea registica»304, e Marco Valsecchi, che li recensisce lapidariamente come «un fatto nuovo»305.
Giuseppe Bartolucci, nelle pagine del Quaderno di sala pubblicato dal Teatro Quirino di Roma in occasione della presentazione dello spettacolo nella capitale, dà una lettura esaustiva e profonda306 del Riccardo III di Ronconi-Ceroli-Job: un trio ormai inscindibile, tanto che è come se le tre persone ne costituissero una sola, fautrice di questo spettacolo così straordinario. Significativo è il fatto che il primo punto di questa lunga dissertazione prenda in considerazione l’allestimento scenico, che chiama «legno-struttura», e «il rapporto legno-attori»307: il legno di Ceroli attira e costringe, avvolge e compone i corpi degli attori con persuasiva astrazione, con violenza immobile. Sulla scala che campeggia al centro del palcoscenico «il saliscendi non è a questo punto una semplice costrizione di passi faticosi e inusuali drammaticamente, ma è una condizione drammatica tout court per la quale le costellazioni dei corpi degli attori si fanno significato ed immagine al tempo stesso, con novità stilistica sorprendente»308. Bartolucci cioè mette in evidenza come gli attori, che acquistano una poderosa fisicità sia a causa delle voci e dei gesti esasperati sia e perché avvolti nei «vestiti immaginosamente deformi» di Job, abbiano «un comportamento omogeneo e costante verso il legno-struttura», a cui «si richiamano […] con una obbligatorietà fiduciosa, come se fosse esso una prigione e una liberazione al tempo stesso, cioè il luogo di un esercizio di costrizione e di
298 Franco Quadri, Riccardo III, «Panorama», 29 febbraio 1968. Cfr. anche Franco Quadri, La Politica del regista, Il Formichiere, Milano 1980,
pp. 450-451.
299 Autore anonimo, Sulla scala del potere, «Sipario», n°263, marzo 1968. 300
«Il regista è riuscito a darci uno Shakespeare abbastanza nuovo per le scene italiane. […]. È uno spettacolo che testimonia come il teatro italiano sia ben vivo. L’ultima scena, della battaglia, con l’ingresso delle gigantesche sagome di legno, raffiguranti, anziché combattenti, figure umane che si tendono le mani a significare la fine della guerra sulla morte dello storpio infernale, non ce la dimenticheremo facilmente». Cfr. Roberto De Monticelli, cit.
301
Raul Radice, «Riccardo III» di Shakespeare con Gassman protagonista, «Corriere della Sera», 23 febbraio 1968.
302 Alberto Blandi, Gassman forte protagonista del «Riccardo III» di Shakespeare, cit. 303
Orazio Napoli, I giocattoli di Mario Ceroli, «Bellezza», maggio 1968.
304
Paolo Emilio Poesio, Mostro fra i mostri, «La Nazione», 29 marzo 1968.
305 Valsecchi Marco, Dall’alfabeto di legno al Riccardo III, «Il Giorno», 30 marzo 1968. 306
Giuseppe Bartolucci, Dieci punti di riferimento per una «lettura» del Riccardo III, cit.
307 Ibidem. 308 Ibidem.
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espressione»309. Sul legno-struttura Bartolucci aggiunge poi: «In effetti il legno-struttura distrugge ogni referenza scenografica, nel senso tradizionale di insediamento di materiale scenografico per se stesso e nel senso anche innovatore di astrazione o di deformazione dell’immagine scenografica contro ogni pittoricismo o sensibilità di gusto; ed esso si presenta infatti essenzialmente come un materiale “avvolgente”, in grado di specificarsi soltanto in termini di “legno”, su una nozione di “struttura”, appunto avvolgente. Ed è in questo materiale avvolgente, sia pure definito a più piani, a più sezioni, che la corporeità acquista un preciso spazio scenico, se la si considera in termini di costellazioni corporee: sia che queste si addossino sulla scala in un andirivieni complice e distinto, complicato e preciso; sia che si rinserrino alla base, in una dimensione costrittiva e quasi impossibile; sia che occupino più sezioni, e più piani contemporaneamente, in una corrispondenza materializzata diversificante»310.
Un dato rilevante che fa capire il valore innovativo apportato da Ceroli, scultore, nell’ambito della scenografia teatrale è la grande attenzione prestata alle scene del Riccardo III da parte di un numero cospicuo di critici d’arte. Importante, in questo senso, si rivela il già citato catalogo della mostra
monografica dell’artista tenutasi a Parma nel 1969. Se già nella prima parte del catalogo il curatore Arturo Carlo Quintavalle non tralascia di prendere in considerazione e sottolineare l’importanza del lavoro svolto da Ceroli in ambito teatrale, nella seconda parte un terzo dei testi che ne costituiscono l’antologia critica fanno proprio riferimento alla scenografia del Riccardo III di Torino.
In uno scritto del 1969, Pietro Bonfiglioli individua nell’allestimento scenico torinese un eclatante esempio della produzione ceroliana, e ne sintetizza il valore nella felice espressione «dalla sintassi alla semantica», in quanto «lo spazio non è più creato dalla relazione fra gli elementi, ma è dato, è una condizione di necessità, un codice prestabilito che dà un senso agli elementi stessi, i quali sono costretti a organizzarsi – secondo relazioni non più soltanto formali ma di significato – entro il rigido perimetro di un palcoscenico o nel freddo stanzone di una galleria». Proprio per questi motivi «né la scenografia può assumere una funzione decorativa o spettacolare, né la mostra può ridursi a una esposizione di pezzi. Il rapporto fra l’ambiente e i pezzi significanti diventa un rapporto semiotico: l’ambiente fissa le condizioni interpretative del messaggio. Perciò Ceroli non è un arredatore e nemmeno, in senso proprio, uno scenografo. Il suo problema è quello di tentare la libertà di una comunicazione integralmente umana
all’interno di una necessità rigidamente condizionante: una prova di grande forza»311.
Bonfiglioli sottolinea quindi come l’ambiente stimoli in modo nuovo Ceroli e vede
nell’allestimento scenico per Torino, che definisce un «racconto autobiografico»312 dello
scultore, la manifestazione del nuovo modo dell’artista di concepire le opere con lo spazio.
Cesare Brandi è forse il più entusiasta recensore della realizzazione scenica di Ceroli, che definisce «eccezionale»313, «originalissima, solida e aerea allo stesso tempo»314. Per la bellezza e l’importanza dell’articolo, se ne riportano i passi più significativi: «Ceroli è riuscito a dare unità visiva e occasioni sceniche sempre nuove a questo tumultuoso succedersi di assurdi quadri tragici: non ha fatto dei fondali, ha creato il vero protagonista di tutto il dramma, a cui Gassman ha offerto una voce soffocata e le donne tanti gridi come di terribili uccelli. La scenografia come protagonista, e non
309 Ibidem. 310
Ibidem.
311
Pietro Bonfiglioli, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Ceroli, cit., p. 44.
312 Ibidem. 313
Cesare Brandi, Il meglio nelle scene, «La fiera letteraria», anno XLII, n°12, 21 marzo 1968, riportato in Quintavalle Arturo Carlo (a cura di), Ceroli, cit., pp. 46-48.
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come spazio illusivo: la scenografia come concezione spaziale unitaria che ingloba lo spazio, il tempo, il colore, il suono e soprattutto l’azione. Basterebbe notare, a questo scopo, la voluta difficoltà di quella scala dai gradini altissimi e precipiti, sulla quale gli attori e soprattutto le attrici si arrampicano penosamente, arrancano come in un sesto grado. Orbene, codesta pena fisica non è certo richiesta dalla lettura del testo, ma aiuta a captarne lo spirito, questa orrenda ossessione della tirannide, questa inutile, vana fuga dal delitto, quando il delitto assume le dimensioni di una diabolica provvidenza. Quindi è simbolica e non è simbolica, in quanto che, quella dimensione abnorme dei gradini finisce per pesare materialmente sullo spettatore, accrescendo gradatamente ma inflessibilmente il senso di incubo, di orrore, di fato esecrato che da tutto il dramma promana. […] A ruota è venuta questa scenografia, che più che scenografia è architettura, nel senso che non vi si crea spazio illusivo, ma una spazialità tutta propria, dilatata, raccorciata, schiacciata, verticalizzata. […] I risultati sono nuovissimi e assolutamente positivi. Si pensi ad una tarsia di Lendinara, a questi boccascena con le valve mezzo aperte, in fondo alle quali si vede nell’ossessivo rigore prospettico, un mazzocchio o un astrolabio. Ebbene, qualcosa del genere è l’inattesa, travolgente apertura del primo atto. […] Tutto il seguito della scenografia è una serie ininterrotta di trovate […] e tutte queste macchine sceniche in vista, senza cambiamenti prestigiosi di palcoscenici rotanti, danno una forza, una schiettezza impagabile allo spettacolo. […] Forza e catarsi. E senza giochi di luci, in una solarità fissa e astratta»315.
Anche Germano Celant non resta indifferente al fascino della realizzazione scenica di Ceroli per il
Riccardo III, di cui dice che già dall’apertura del sipario «sconcerta»316. Sconcerta perché, sin dalle prime battute del prologo pronunciate davanti alla grande sfera, il parallelismo visivo è immediato, l’omologazione immagine-personaggio è ampiamente sottolineata. Celant riflette sulla nuova lettura dell’opera shakespeariana data da Ronconi e su come la scenografia aiuti a renderla più immediata. Afferma che la «“povertà” scenica del complesso di Ceroli» offre «una stimolazione strutturale e non rappresentativa dello spazio»317. Sottolinea la rapidità dei gesti e delle azioni: «il ritmo, quasi cinematografico, dei cambi di scena e di quadro sottolinea i tempi contratti, le voci rotte e violente, le maniere massicce, la brutale semplificazione del comportamento degli attori agenti in uno spazio estremamente crudo e “povero”, strutturalmente essenziale, rimandano al vero codice dell’opera, il linguaggio teatrale»318. A seguito dell’analisi del percorso artistico di Ceroli, che si è sempre confrontato con lo spazio e in cui riconosce un preciso processo di estrinsecazione spettacolare, e a seguito dello sconcertante risultato ottenuto con la scenografia del Riccardo III, Celant giunge alla coniazione di un nuovo termine per definire l’operato dello scultore: «scenoscultura»319. Il processo di estrinsecazione spettacolare iniziato nel 1963 si è ampliato e modificato fino a inglobare in un tutt’uno opera e spazio, e con la scenoscultura ceroliana, palesatasi proprio sul palcoscenico torinese, «il pubblico partecipa così nuovamente al rituale del teatro, riprova emotivamente i fatti e “reagisce” fisicamente. Il teatro inteso come “ciò che avviene tra spettatore ed attore” (Grotowsky) si afferma, non più attraverso il lavoro “critico e filologico” sulla trama ma mediante la riflessione ritmica delle immagini e dei segni gestici»320.
Anche Gualtiero Schönenberger, analizzando temporalmente la produzione artistica di Ceroli, afferma che «il passaggio dell’artista alla scenografia si è fatto quindi naturalmente e con esiti
315 Ibidem. 316
Germano Celant, La scenoscultura di Ceroli, «Casabella», giugno 1968, riportato in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Ceroli, cit., pp. 54-56. 317 Ibidem. 318 Ibidem. 319 Ibidem. 320 Ibidem.
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sorprendenti. Nella scenografia per il Riccardo III di Shakespeare […] si assisteva a un preciso commento della vicenda ottenuto mediante il progressivo restringimento dello spazio […] e l’abbassarsi di scale, il muoversi di strutture lignee, il colpo di scena della foresta di giganteschi personaggi tutti uguali che racchiudevano il protagonista dopo la disfatta di Bosworth»321.
Tommaso Trini ritiene che «la sfera, le scale, i cavalli e i guerrieri partecipavano all’azione al pari degli attori, tanto da soffocare il fatidico “il mio regno per un cavallo” in una selva di sagomoni trascinati su rotelle alla carica. L’azione drammatica era costretta su e giù per l’obliquo della scalinata, sullo sfondo di un legno grezzo che sotto i parchi lampada rivelava preziosità pittoriche»322.
Marco Valsecchi, in un articolo del 1968, definisce la scenografia del Riccardo III «un fatto nuovo. L’environment che trova la sua destinazione specifica in uno spettacolo, com’è più giusto»323.
Per completezza d’informazione, si riporta in succinto l’atteggiamento della critica teatrale nei confronti dei costumi di Job e della recitazione degli attori. Per quanto riguarda i primi, dalla lettura degli articoli si giunge alla stessa conclusione fatta per la messinscena ceroliana: pareri contrastanti e altalenanti, pro o contro l’uso violentemente visivo e tattile dei costumi di corda, metallo, pelli, cuoio, tanto pesanti e ingombranti da ostacolare rendere goffi i movimenti degli attori324, ma mai pareri indifferenti325. Per quanto riguarda invece la recitazione, i critici sottolineano tutti l’intervento innovativo e irruente di Ronconi, consistente nell’imposizione a tutti i 47 attori di «una recitazione urlata»326, cioè caratterizzata da un’innaturale esasperazione dei livelli tonali in grado di accompagnare l’eccesso dei versi: una recitazione grezza e violenta insomma. In linea generale si può affermare che la critica mostra pareri più o meno positivi nei confronti di tutti gli attori, in particolare di Mario Carotenuto, Maria Fabbri, Marisa Fabbri, Edmonda Aldini, Edda Albertini e Franco Giacobini. Lodata unanimemente l’interpretazione di Gassman, che con il Riccardo III si riconferma, dopo un lustro di assenza dal palcoscenico, un grande attore e interprete di straordinario vigore e realismo teatrale.
Per concludere, si riporta un estratto dell’importante saggio scritto da Giuseppe Bartolucci per il
Quaderno di sala del Teatro Quirino di Roma. Al decimo punto della sua dissertazione,
significativamente intitolata Per un senso dello spettacolo, il critico teatrale avvalora la tesi che