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CEROLI, SCULTORE TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

3. MARIO CEROLI: UNO SCULTORE DALL’ANIMA SCENOGRAFICA

3.2 CEROLI, SCULTORE TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE

A partire dagli anni Sessanta, fin dalle sue prime esposizioni personali e collettive, Ceroli è stato subito definito uno scultore nuovo. Per sostenere questa tesi l’attenzione è stata puntata principalmente sulle tematiche affrontate dall’artista, fra tipologia di immagini di origine massmediatica159 o di citazione storica160 e moti di appropriazione e riproposizione ammiccante e ironica di queste, oppure sulle sue scelte materiche. Pochi sono stati i critici che hanno puntato l’attenzione sulle effettive novità di linguaggio del suo lavoro, come invece sarebbe dovuto accadere. Ceroli infatti ha configurato strutturalmente e proposto l’immagine in modo tale da formulare un possibile modo nuovo d’essere della scultura, non rinunciando a componenti d’identità storica di questa e tuttavia sottoponendola ad una sostanziale, innovativa trasformazione. Ceroli ha elaborato un linguaggio plastico che «della scultura tradizionale scarta sia la continuità strutturale rappresentativa […], sia la conseguente ponderalità e avvolgente unicità d’evento spazialmente situato. E ciò esattamente introducendo un principio analiticamente decostruttivo, che permette di essenzializzare il processo di formulazione strutturale della presenza plastica, che nel suo lavoro è infatti estremamente semplificata in una riduzione a sagoma, posta quale consistenza costruttiva di base. D’altra parte, tale principio permette di essenzializzare la capacità virtuale di presenza iconica della sagoma attraverso la sua configurazione in profilo. L’evidenza iconica, e insomma la “figura”, da rappresentativamente proposta come era per tradizione in scultura, nel suo lavoro risulta invece soltanto emblematicamente evocata entro un circoscritto repertorio comunicativo corrente»161. La sagoma è quindi per Ceroli il punto di partenza attraverso cui la sua scultura si costituisce nello spazio: ad un materiale primario come il legno, l’artista applica un gesto anch’esso primario, consistente nel tracciare e nel ritagliare una sagoma-ombra proiettata da un raggio di luce su una tavola di legno bidimensionale162. La scultura di Ceroli nasce così, fin dall’inizio, dall’inserto spaziale di composizioni di sagome e, soprattutto dagli anni ’80, quando Ceroli conquista una dimensione di costruzione plastica in termini di tuttotondo, dalla sovrapposizione di sagome, che vanno a formare uno spessore nuovo. Costruendo presenze plastiche attraverso sagome, cioè elementi piani, sfuggenti a priori ad ogni possibile rotondità e corposità dell’evento proposto, Ceroli si libera con un gesto di freschezza immaginativa da ogni obbligazione della scultura, sia nella sua tradizionale complessità classica o barocca, sia anche nella riforma strutturale operata dall’inizio del XX secolo dalla tradizione moderna. Attraverso l’evidenza costruttiva essenzializzata e bidimensionale della sagoma, Ceroli azzera istintivamente la problematica strutturale della scultura. Quest’ultima non rifiuta l’inserimento nello spazio, ma vi si inserisce, con una preminenza di frontalità, diagonalità o ortogonalità, in modo innovativo ed alternativo, con l’agilità e la semplicità proprie di una soluzione apparentemente piana. «Operando costruttivamente attraverso la sagoma, Ceroli si sottrae all’avviluppante e invasivo condizionamento di una spazialità totale, avvolgente; la azzera per ricomporla secondo un principio di semplificazione e schematizzazione prospettica, scenicamente gestito, indotto dalla sagoma stessa. Se la spazialità totale adombra la condizione spaziale empirica, del vissuto, sottraendovisi Ceroli è in grado di contrapporvi una spazialità ricostruita,

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Cfr. ad esempio Stella (1964), Pantera (1964), Eurovision (1964), Il mister (1964), Arco di trionfo (1965).

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Cfr. ad esempio Uomo di Leonardo (1964), Adamo ed Eva (1964), Goldfinger (1965), Mobili nella valle (1956), Battaglia (1978).

161 Enrico Crispolti (a cura di), Ceroli. Analisi di un linguaggio e di un percorso, catalogo della mostra, Bari, Castello Svevo, 13 settembre-30

novembre 2003, Federico Motta Editore, Milano 2003, p. 14.

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I critici d’arte che hanno seguito Ceroli nel suo percorso artistico individuano in questo modus operandi la sua classicità: Calvesi lo paragona alla favola di Dibutade, cioè all’origine della pittura, che, secondo gli antichi nacque perché la figlia del vasaio Dibutade, per fermare il suo amato in procinto di partire, ne aveva scontornato l’ombra su un muro; Ficacci, invece, definisce le sagome su tavole di Ceroli come «la scultura più classica di tutta la scultura classica dei decenni precedenti, come la più classica del passato». Cfr. Mario Ceroli, dvd, cit.

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emblematicamente convenzionale, realizzata attraverso le sue costruzioni strutturali in sagome. Esattamente costituisce costruzioni strutturali di autonoma capacità spaziale scenica, alternative perché innaturali rispetto alla spazialità corrente, praticabili quale altra realtà»163. Ceroli, cioè, qualifica le proprie costruzioni plastiche nello spazio costituendole quali eventi scenici ambientali sostanzialmente autonomi, contigui, connessi, quando non esplicitamente contrapposti, rispetto alla indifferenziata continuità spaziale circostante, e dunque rispetto a questa alternativi.

Al primum strutturale sagoma corrisponde un primum iconico, quale risulta essere il profilo. Seguendo lo stesso radicale procedimento sottrattivo attuato per la sagoma, la conseguente riduzione della presenza iconica della figura a semplice profilo ha permesso a Ceroli uno scarto radicale rispetto a ogni obbligazione o tentazione di rappresentazione descritta o descrittiva. Il profilo è infatti pura convenzione iconica e risulta facilmente motivabile attraverso un’attribuzione emblematica.

Il legno è per Ceroli il primum materico. Quando si parla dell’artista, non si può non parlare di questo materiale. È infatti con il legno che ha cominciato a lavorare nel 1958, riscontrandovi subito una possibilità d’immediatezza del tutto diversa rispetto al lavoro in ceramica degli anni precedenti. Anche in questo caso la pratica assunta da Ceroli ha seguito un processo decostruttivo, nel senso che ha riportato il legno a una primarietà materiale, in una eco della radicalità dell’esperienza materiale del primo Burri. Che, se risponde all’essenzialità strutturalmente elementare della sagoma, tuttavia si porta dietro anche una valenza d’immediata allusività primaria di natura, di autonoma naturalezza. Ceroli si avvale di legno povero, in preferenza il pino di Russia, e di legno in assi, che tuttavia riconosce come un materiale operativamente “trascinatore”, nella sua disponibilità e duttilità. Semplice legno, per immagini semplici, povero per immagini “povere” nella loro immediatezza iconica di profili di figure umane. D’altra parte, sia tattilmente nell’implicita valenza materica della sagoma lignea, sia percettivamente nel ritaglio del relativo profilo, si annida anche un’insinuazione di animismo, che sembra giocare nella sua immaginazione un ruolo progettualmente stimolatorio e suggestivamente sollecitante, orientando per esempio i riutilizzi a distanza di ritagli lignei di precedenti sagome, tanto più se segnati dal tempo.

Negli anni Sessanta e Settanta l’uso semplice del legno, utilizzato in tavole, e dunque trattato in sagome e profili, gli ha permesso di aggirare il consueto pacchetto di condizioni d’identità problematica della scultura anche d’avanguardia, come ad esempio l’accentramento volumetrico, dotandosi di uno strumento elementare di libera manifestazione progettuale di immagini, di figure e di oggetti e, attraverso la loro combinazione, di una possibilità nuova di ambientazione spaziale scenica.

L’impegno operativo attraverso il legno lo pone originalmente a confronto con una disparata tradizione moderna di ricorso al legno in scultura: tradizione episodica in alcuni casi, più ricorrente in altri. Ricorrente, quasi come propria materia d’elezione, nel caso della severa sintesi espressionista di Ernst Barlach, e altrimenti del brutalismo espressivo negroide di Ernst Ludwig Kirchner, negli anni Dieci del XX secolo. Episodica invece certamente per Constantin Brancuşi, che nei secondi anni Dieci ne ha fatto la materia attraverso cui sviluppare un circostanziato dialogo ravvicinato con la tradizione contadina rumena di manufatti artigiani.

Ma episodica anche in Arturo Martini, che indubbiamente impiega occasionalmente il legno, soprattutto nell’accezione di epica espressività materica, come si può notare in Maternità del 1930 o in San Giacomo Maggiore del 1940.

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Meno episodica nel caso di Henry Moore, che negli anni Trenta se ne serve in una politezza ebanistica corrispondente a una volontà di evidenza di assolutezza formale, strutturale e plastica. Il ricorso al legno risulta più frequente in Marino Marini, sia negli anni Trenta che fra Quaranta e Cinquanta, in una sapientissima gestione di sintesi plastica e di raffinatezze di superfici, fra abrasioni, segni e intromissioni anche pittoriche.

Altrimenti, assai frequente negli anni Trenta è l’uso del legno da parte, per esempio, di Pericle Fazzini, che lo utilizza in una dimensione di ruvidezza espressiva povera deliberatamente antinovecentesca.

Nell’ambito della scultura informale europea, fra secondi anni Quaranta e Cinquanta, hanno lavorato matericamente di preferenza in legno, in termini di immaginazione organicistica, in Francia sia Étienne-Martin sia François Stahly, e in Danimarca Erik Thommesen, gravitante nel gruppo Cobra, che si è servito del legno in forti proposizioni di presenza totemico-animistica.

Fra i coetanei di Ceroli, vale a dire entro la generazione che si è affermata sulla scena artistica internazionale negli anni Sessanta, cioè dopo l’Informale, l’inglese Joe Tilson ha usato il legno, dapprima piuttosto grezzo entro composizioni pittorico-oggettuali, poi vistosamente colorato a supporto di evidenze di immagini di origine massmediale, all’interno delle proprie proposte chiaramente d’impianto pop esposte nel Padiglione inglese nella Biennale di Venezia del 1964. Il suo ricorso al legno risulta quindi operato rispetto a una materia di cui è sostanzialmente accentuata la virtuale ricchezza. Ciò si verifica anche nelle differenti proposizioni di forte impressività totemica assemblagistica della venezuelana Marisol Escobar, ingaggiata dall’inizio degli anni Sessanta in una figurazione grottesca di accentuata critica sociologica, o anche nelle figure quotidiane, criticamente grottesche, proposte dagli anni Sessanta dall’australiano Rod Dudley. Oppure nel lavoro dell’argentina Gloria Argelés, dapprima, negli anni Sessanta-Settanta, fortemente impressivo in una vivida rappresentatività realista di esplicita critica sociale, e poi impegnato, fra anni Ottanta e Novanta, in complesse decostruzioni strutturali di figure tipiche del quotidiano.

Questi sono esempi di operatività diverse nelle quali il legno è valorizzato quale possibile ulteriore materia tradizionalmente “nobile” di scultura, mentre Ceroli vi ricorre azzerandolo a mezzo povero ma rendendolo, conseguentemente, il più duttile, libero e incondizionato, e stimolante. E il suo, al confronto, rimane infine un uso assai anomalo e certamente personalissimo, provocatoriamente innovativo nei fatti, proprio perché nella leggerezza della sua inventività immaginativa prescinde dal peso di una specifica tradizione di scultura lignea. Anomalo anche quando, come in un ciclo di “quadri” a rilievo realizzati nel 1999, utilizza il legno bruciato, che diviene altra materia, più misteriosa, ma naturale, non necessariamente drammatica come potevano invece subito apparire le

combustioni di Burri, fra secondi anni Cinquanta e primi Sessanta.

Ricavando, da un punto di vista tecnico, dal pino di Russia sagome, profili di figure e di oggetti, ed attingendo, da un punto di vista iconografico, a capolavori del passato o attuali con un felice risultato di racconto immediatamente recepibile e di astrazione metafisica delle forme, Ceroli si muove quindi tra tradizione ed innovazione164.

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3.3 LA SCULTURA DI CEROLI TRA ARTE E SPETTACOLO

Accanto al fiorire delle figure e delle realtà analizzate nel secondo capitolo che, pur nelle naturali diversità di impegno e di modi espressivi, contribuiscono al rinnovamento del teatro e alla riqualificazione della scenografia da un’area specificamente teatrale, si consolida un altro fenomeno legato per origine alle arti figurative e alle gallerie ma per altri aspetti riconducibile nell’ambito dello spettacolo. Infatti, mentre si manifesta un crescente interesse da parte degli uomini di teatro per la pittura e la scultura, una spinta analoga anche se di segno opposto porta gli operatori artistici a orientarsi verso forme espressive proprie del teatro, rendendo sempre più evanescenti i confini tra spettacolo e arti visive.

In linea con il principio di continuità propugnato dalle avanguardie, il concetto di arte intesa come azione e spettacolo e il desiderio di passare dall’arte-oggetto all’arte-evento presente fin dai provocatori interventi dada e surrealisti, in tempi più vicini hanno avuto un seguito nei colori schizzati o spennellati con violenza dall’action painting, negli happenings americani, nelle azioni europee, nelle performance165. Questo nuovo orientamento che porta gli artisti a essere i protagonisti di uno spettacolo, ha indotto a concludere frettolosamente «che la pittura e la scultura hanno perso la loro posizione e stanno per svanire nella produzione teatrale»166. Mentre ci si impegna a sostituire l’oggetto artistico duraturo con un oggetto-non oggetto, senza durata, da realizzare attraverso il “gesto” dell’artista, pittura e scultura per una sorta di simbiosi sembrano slittare verso il teatro proprio mentre l’orizzonte del teatro, estremamente mutevole, si schiude invece a una convergenza tra arti visive, figurazione, musica e sperimentazione di spazio. E così, in un rapporto continuamente aggiornato e aperto ai contributi delle varie correnti – dal neo-dada alla pop

art, dalla minimal art all’arte povera, dalla body art alla land art, dall’arte concettuale al comportament –, si tende a considerare l’azione teatrale come scrittura scenica e a superare anche

qui il concetto di prodotto.

In questo clima, nel settore delle arti ricerche e tentativi danno vita ad alcune mostre-spettacolo, a cui significativamente partecipa anche Mario Ceroli. Tra di esse, la più importante è quella intitolata, non a caso, Il teatro delle mostre167: la galleria romana La Tartaruga di Plinio De Martiis, «‘regista’ o ‘artista’ egli stesso, assai più che mercante»168, promuove un incontro denso di significati, invitando dal 6 al 31 maggio 1968 un gruppo di 20 operatori culturali tra pittori, poeti, scrittori e musicisti, a realizzare per un giorno ciascuno un qualcosa che fosse in qualche maniera spettacolo. In questa mostra, come ben evidenzia Calvesi, «l’idea di “teatro” è legata non tanto alla spettacolarità delle opere, quanto al loro carattere preminente di azioni, nonché alla trovata della “successione scenica”, per così dire, degli artisti-attori»169. Alla mostra partecipano Franco Angeli con La stanza ossessiva; Nanni Balestrini con I muri della Sorbona; Alighiero Boetti con Cielo; Sylvano Bussotti con La più

rararara170; Pier Paolo Calzolari con Un volume da riempire in mezz’ora; Enrico Castellani con Il muro

165 Il caso più estremo a cui gli artisti giungono è quello del cosiddetto teatro d’artista, ossia dell’artista che si assume tutta la paternità

della messinscena teatrale, frutto, secondo Lista, della crisi della performance e della sua incapacità di rinnovarsi. Fautori del teatro d’artista in Italia sono: Alberto Savinio con l’allestimento dell’Oedipus Rex già nel 1948; Michelangelo Pistoletto con Lo Zoo, Jannis Kounellis e Luigi Ontani tra gli anni ’60 e ’70; Giulio Paolini, Gianfranco Baruchello e Aldo Spoldi negli anni ’80. Per un approfondimento della tematica, molto interessante ma esule dall’argomento preso in considerazione in questa tesi, si rimanda a Le Théâtre d’artiste, in Giovanni Lista, La scène moderne, cit., pp. 441-455.

166 Harold Rosemberg, in Franco Mancini, L’illusione alternativa, lo spazio scenico dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1980, p. 205. 167

Maurizio Calvesi, Arte e tempo, in Achille Bonito Oliva (a cura di), Il teatro delle mostre, catalogo della mostra, Roma, Galleria La Tartaruga, 6-31 maggio 1968, Lerici Editore, Roma 1968.

168 Maurizio Calvesi, in Maurizio Calvesi (a cura di), Ceroli: Firenze, 14 luglio-16 ottobre 1983, cit., p. 14. 169

Maurizio Calvesi, Rosella Siligato (a cura di), Roma anni ’60, cit., p. 31.

170 Nella sua “mostra”, Bussotti pone al centro della stanza una «cassa magica» lignea da cui provengono suoni e musica: la musica è la

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del tempo; Ciro Ciriacono con Medium; Giosetta Fioroni con La spia ottica; Laura Grisi con Vento di sud-est velocità 40 nodi; Ettore Innocente con Camera fiorita; Renato Mambor con Come imballare un uomo; Gino Marotta con Una foresta di menta; Fabio Mauri con Luna; Giulio Paolini con Autoritratto; Emilio Prini e Paolo Icaro con Due oggetti di rimbalzo e due pomeriggi in tre o quattro;

Paolo Scheggi con Interfiore; Loreto Soro con Fili armonici; Cesare Tacchi con Cancellazione d’artista; Goffredo Parise con Conversazione su nastro. E, ovviamente, anche Mario Ceroli che, il 17 maggio, nel decimo giorno del Teatro delle Mostre, presenta la performance intitolata Dal caldo al freddo (figg. 1, 2): tutto inizia da una ostentata inibizione a entrare, poiché una porta di legno sbarra la possibile entrata. Poi spingendo questa cede. Si entra e ci si trova davanti a uno stesso impedimento: un’altra porta. Il margine d’azione è limitato dalla presenza di uno steccato ai lati, che preclude allo spettatore la possibilità di sconfinare fuori dal percorso. Il cammino prosegue trasgredendo altre forze, che si susseguono con diverse aperture. La diversità sembra il sintomo di uno sviamento. Ma lo spettatore trova il passaggio e si inoltra ancora. Dietro l’ultima porta si staglia una parete di blocchi di ghiaccio: un’accoglienza fredda dopo la tensione del percorso, che si propone come scacco finale al percorso stesso171. Con questa performance Ceroli punta l’attenzione sulle materie, il legno ed il ghiaccio, e li oggettiva «in un persistente protagonismo della struttura, per quanto effimera, trovando così, proprio nell’abbinamento tra struttura e azione, la via non tanto dell’happening o della performance quanto del teatro»172. La vitalità e il carattere fortemente innovativo dell’esperienza proposta da De Martiis è stata sottolineata da più critici d’arte, da Achille Bonito Oliva173 a Maurizio Calvesi; quest’ultimo, in particolare, ha evidenziato il rapporto a doppio scambio intercorrente tra arte e teatro alla fine degli anni Sessanta, affermando che questa «idea geniale e nuovissima di Plinio de Martiis […] riportava così il teatro in galleria, dopo che Ceroli aveva portato in teatro la galleria di Plinio», alludendo «all’opera ambientale della Cina, già realizzata appunto ne La Tartaruga, prototipo dei soldati allineati in più file del Riccardo III»174.

Analoga potenzialità si coglie nell’azione svolta da Ceroli al XII Festival dei Due Mondi di Spoleto nell’estate del 1969175, dal titolo Io, piramide di ghiaccio (figg. 3, 4, 5): sotto la cupola in struttura tubolare di Buckminster Fuller crea una piramide di ghiaccio alta cinque metri, sopra la quale fa

“fascista!”, mentre la cassa, che «diventa un involucro, una cassa armonica», è di Mario Ceroli. Cfr. Achille Bonito Oliva, Il Teatro delle mostre, «Sipario», luglio 1968, n°267, pp. 5-10.

171 Achille Bonito Oliva, Ceroli, in Arturo Carlo Quintavalle, Ceroli, catalogo della mostra, Parma, Salone delle Scuderie della Pilotta, febbraio

1969, Tipografia La Nazionale, Parma 1969, pp. 69-71.

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Maurizio Calvesi (a cura di), Ceroli: Firenze, 14 luglio-16 ottobre 1983, cit., p. 14.

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«Tutto parte dalla mentalità giustamente contestativa della definizione canonica di mostra, soprattutto di quella realizzata in galleria poiché, in una società in cui l’unico discriminante è il criterio economico, la mostra serve soltanto a produrre una esibizione dell’oggetto artistico in vista di un possibile mercato. L’opera d’arte perde di conseguenza tutto il suo valore iniziale e si carica solo di valore commerciale. L’unica possibilità per sfuggire al pericolo è quella di realizzare un oggetto che non sia più un oggetto, cioè non più duraturo. Strategicamente l’artista si identifica ora con quello che fa, fino a incorporarsi fisicamente nell’opera. Poi realizza, invece che delle forme quiete, dei gesti che hanno una durata brevissima, tale da impedire l’attenzione del mercato. I gesti naturalmente sono realizzati con procedimenti certi e obiettivi, e coinvolgono teatralmente una quantità di elementi tale da non permettere più la delimitazione e la localizzazione, possibile per il comune oggetto estetico. I gesti realizzati sembrano radicati al suolo dove si svolgono, tanto che non possono essere spostati e conservati. L’artista ora tende a portare la propria attenzione dall’oggetto all’effetto, che in quanto tale ha la caratteristica dell’effimero. Un effimero che non è possibile tesaurizzare in alcun modo, se non come esperienza. E l’esperienza è finalmente libera, in quanto al di fuori dei circuiti economici. L’artista allora la compie con maggiore intenzione. Aumenta così la dimensione del gioco, perché si pongono in essere dei procedimenti e delle situazioni che propongono una oggettiva modificazione di regole e di comportamento. […]. La costante di questi gesti, anche di quelli posti in essere alla Tartaruga, rispondono al criterio di restituire dentro di sé, anche la cifra dell’uomo. nel procedimento certo della situazione effimera realizzata si rivendica giustamente lo spazio per l’uomo. un uomo però liberato dalle leggi economiche che lo governano. La prima trasgressione, sia per l’artista che per lo spettatore, è quella di presenziare in una situazione che non ha attitudini mercificanti ma solo estetiche. Nello stesso tempo si ristabilisce un criterio di

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