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LA RIUSCITA COLLABORAZIONE TRA PATRONI GRIFFI, CEROLI E PESCUCC

CONFESSIONE SCANDALOSA

LA RIUSCITA COLLABORAZIONE TRA PATRONI GRIFFI, CEROLI E PESCUCC

Prima della messinscena fiorentina, The abdication è stato portato solo una volta sul palcoscenico, dalla Old Vic Bristol Company a Londra nel 1971, e due volte sullo schermo con molte concessioni alle leggi del mercato hollywoodiano: dapprima da Greta Garbo, nel 1933 col film La regina Cristina per la regia di Rouben Mamoulian, e poi da Liv Ulman e Peter Finch, nel 1974 col film The abdication per la regia di Anthony Harvey.

Patroni Griffi ha quindi campo pressoché sgombro per dar vita alla propria chiave di interpretazione del dramma americano. Il Progetto artistico dello spettacolo evidenzia che il regista e il Gruppo Arte Drammatica hanno interpretato il dramma della Wolff secondo tre «piani di lettura»: «quello politico», con lo scontro tra la cultura protestante sassone e quella cattolica vaticana, in un momento di egemonia politica e culturale della Chiesa in Italia, con la quale Cristina fa fatica a rapportarsi; «quello dell’amore», dal momento che Cristina, attraverso la confessione a cui si è riottosamente sottoposta, scopre di essersi per la prima volta confidata ad un uomo, si sente per la prima volta donna e da donna ha la rivelazione dell’amore; infine «quello psicanalitico», sviscerato attraverso il sacramento della confessione a cui Cristina deve sottoporsi per essere degna della presenza pontificia, e durante il quale si rivelano al pubblico le personalità intime dei personaggi, fino alla sfrontata omosessualità di Cristina e alla sanguigna passionalità di Azzolino, disperatamente repressa per aver diritto al Soglio. Inoltre si legge che «la straordinaria modernità del dialogo, mordente, spiritoso, scandaloso, a volte fortemente femminilista, altrove obiettivamente comprensivo dell’aspirazione al potere di Azzolino, come ambiziosa realizzazione di sé stesso, rendono Confessione

scandalosa […] di Ruth Wolff una commedia degna di essere presentata al pubblico italiano perché

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scopra così una nuova dimensione della dialettica della vita»533. Per Patroni Griffi tutto il dramma ruota quindi attorno al tema del potere ed alla parola, che gli servono per attualizzare la vicenda storica. In un’intervista antecedente l’anteprima nazionale, il regista afferma di aver «trovato il testo di The abdication molto interessante […] non perché sia una biografia […] ma perché è un testo essenzialmente poetico. C’è poi un tema abbastanza stimolante e attuale […]. Cristina ha rinunciato al potere anche se questo le rimane addosso; per contro il cardinale Azzolino […] non ha il potere ma sta per succedere al papa morente. Quando saprà di essere il nuovo papa, dimentica le promesse fatte alla regina. Ebbene, questo scontro di caratteri e di interessi mi è sembrato molto attuale»534. Con la messinscena di Confessione scandalosa Patroni Griffi vuole concedere valore predominante alla parola, intenzione definita dalla critica «lodevole e coraggiosa […] vista la crescente analfabetizzazione da cui è affetto il nostro teatro»535. «Tuttavia il testo», continua il regista, «è affidato essenzialmente all’immagine. Ho cercato di filtrare la materia, la storia personale di Cristina, dall’infanzia alla maturità, attraverso vari stadi. Il presente e il passato si alternano dando corposità al dramma»536.

Parola e immagine. Parola che vive attraverso l’immagine. Per raggiungere questo obiettivo, Patroni Griffi affida innanzitutto la traduzione e l’adattamento di The abdication a Duilio Del Prete che, in questo suo risultato tanto apprezzato sia dalla critica sia dalla stessa Wolff giunta a Firenze per assistere alla Prima Nazionale dello spettacolo, ha «conservato tutte le scene-ricordo e mantenuto il più possibile contemporaneamente in scena le tre Cristine»537. La parola a questo punto si lega all’immagine, alla messinscena teatrale, di cui le recensioni evidenziano «le congiunte risultanze felici della regia e delle scene, dei costumi e delle musiche»538. Se per le scene si rimanda al paragrafo successivo, per quanto riguarda «i preziosi costumi di Gabriella Pescucci»539, «dal fantasioso e coerente tocco»540, bisogna spendere qualche riga. Assecondando il parere del diarista romano Giacinto Gigli che nel 1655 definì la sovrana di Svezia «sbozzata dalla natura per uomo e poi finita per femmina»541, la regina Cristina che appare sulla scena è mascolina nell’abbigliamento, con stivali neri fin sopra il ginocchio e cappello nero alla moschettiera, mentre in seguito è femminile nell’abito altrettanto luttuoso con esibizione a tutto tondo a sommo del petto. Il nero è il colore che Pescucci sceglie non solo per conferire virilità alla regina, ma anche per contrapporre tra loro i personaggi che appartengono al presente, che vivono ed agiscono nell’anticamera papale – Cristina, Azzolino, Brigido e Domenico – e quelli che provengono dai ricordi del passato di Cristina, vestiti invece tutti con abiti bianchi, «il bianco abbagliante delle evocazioni»542 - Cristina bambina, Cristina adolescente, Ebba, Oxenstierna, Karl, Gabriele Magnus . Grazie al contrasto cromatico dei vestiti, passato e presente possono convivere sulla scena, pur rimanendo chiaro allo spettatore che appartengono a mondi diversi. Allo stesso modo, sulla linea del contrasto cromatico-luministico gioca anche la scena di Ceroli, come riscontrato nel precedente paragrafo. Dallo scontro di poteri tra il passato e il presente della regina, palesemente visualizzato sulla scena, si passa a livello di parola allo scontro di poteri tra la stessa e Azzolino. Immagine e parola coincidono. Siro Ferrone sulle pagine dell’Unità commenta:

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Gruppo Arte Drammatica, Confessione scandalosa, progetto artistico, conservato presso l’Archivio Stagioni della Biblioteca Spadoni del Teatro della Pergola di Firenze.

534

Mara Novelli, Scandalosa confessione di regina, «Paese Sera», 5 ottobre 1977.

535

Siro Ferrone, Cristina, regina di Svezia, tra confessione e psicanalisi, «L’Unità», 8 ottobre 1977.

536 Mara Novelli, Scandalosa confessione di regina, cit. 537

Duilio Del prete, L’adattamento italiano, in Confessione Scandalosa, programma di sala del Teatro Quirino di Roma, pp. non numerate.

538

Giancarlo Vigorelli, Gli scandali di Cristina sul letto del prof Freud, «Il Giorno», 12 gennaio 1978.

539 Paolo Emilio Poesio , Una donna senza corona, «La Nazione», 8 ottobre 1977. 540

Carlo Maria Pensa, Confessione scandalosa, cit.

541 Giacinto Gigli, Cronache del tempo, in Confessione Scandalosa, programma di sala del Teatro Quirino di Roma, pp. non numerate. 542 Paolo Emilio Poesio, Una donna senza corona, cit.

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«Gli inserti di memoria che si accavallano, si sovrappongono e si sdoppiano rispetto al presente rappresentativo, sono svolti con una sintassi scenica di prim’ordine. Lo spettacolo è fatto anche di queste cose e fa piacere notarle in un panorama contemporaneo troppo spesso approssimativo e incolto. Gli [a Patroni Griffi] hanno certo giovato le eleganze e il nitore delle scene di Mario Ceroli, le musiche di Nicola Piovani e i costumi di Gabriella Pescucci»543.

L’ACCOGLIENZA CRITICA DELL’ALLESTIMENTO CEROLIANO

L’analisi delle recensioni critiche dello spettacolo deve partire necessariamente da un fattore che tutti i critici sottolineano: la stroncatura a priori del dramma della Wolff. La commediografa americana viene fortemente accusata non solo di aver utilizzato le vicende storiche della regina Cristina di Svezia unicamente come pretesto per affrontare argomenti attuali, per giunta trattati con troppa disinvoltura544, ma anche di aver creato un testo «tutto prolungato […] su una confessione da lettino di Freud e corto di azioni e risoluzioni teatrali»545. The abdication «è un pezzo di teatro irritante e provocatorio, perfino fastidioso per la strafottente abilità con cui è condotto. Forse, però, meno geniale e meno aggressivo di quanto lo rendano sia la traduzione e l’adattamento di Duilio Del Prete, sia la regia preziosa di Patroni Griffi»546. Con la messinscena di Confessione scandalosa, il regista ed accanto a lui lo scenografo sanno fare il miracolo: «per questo testo non alato, Patroni Griffi e Mario Ceroli hanno montato uno spettacolo di grande bellezza»547. A parere della critica, non solo l’abile regia ma anche le scene di Ceroli contribuiscono a risollevare le sorti dello spettacolo, apprezzato e applaudito per tutto il tempo della sua tournée: «Bisogna subito aggiungere che la regia di Giuseppe Patroni Griffi ha fatto più di un regalo al testo della Wolff […] asciugandolo per quanto era possibile dalle sue ridondanze e traducendolo in immagini sceniche molto nitide e spolverate da un velo di crudeltà, che si appoggiavano ai bei costumi di Gabriella Pescucci […] e a una bellissima scena di Mario Ceroli»548. Se alcuni recensori si limitano ad esprimere il loro apprezzamento per l’allestimento ideato da Ceroli utilizzando espressioni quali «suggestiva scena»549 o «bellissima scena»550, altri si soffermano maggiormente sulla sua descrizione ed altri ancora ne individuano il senso e lo stretto rapporto con l’idea registica. Poesio ad esempio scrive: «Il testo possiede certo un’accattivante teatralità che la regia mossa, musicale, calibratissima di Giuseppe Patroni Griffi ha messo in luce e esaltato. In un rapporto anche visivo, nella splendida scena di Mario Ceroli, ora severa e compatta, ora aperta su scintillanti immagini nordiche (una delle creazioni più affascinanti di questo scultore-scenografo che dà al legno una vita prodigiosa), lo spettacolo […] procede con un ritmo serrato, sicuro, grazie al quale si fa impalpabile il confine tra realtà e sogno»551. Vigorelli invece scrive che «se il dramma della Wolff non è per niente un bel testo, […] lo spettacolo tuttavia merita d’esser veduto per non poche ragioni. Anzitutto per l’interpretazione di Edmonda Aldini […]. Lo spettacolo poi ha una sua suggestione maggiore per la solida quanto vibrante scena a spazi interposti

543 Siro Ferrone, Cristina, regina di Svezia, tra confessione e psicanalisi, cit. 544

Cfr. Cesare Orselli, Confessione Scandalosa, «Sipario», n°378, novembre 1977, p. 15; Paolo Emilio Poesio , Una donna senza corona, cit.; Roberto De Monticelli, Psicanalisi in Vaticano, cit.; Sergio Colomba, Cristina regina e donna, cit.

545 Giancarlo Vigorelli, Gli scandali di Cristina sul letto del prof Freud, cit. 546

Carlo Maria Pensa, Confessione scandalosa, cit.

547

Cesare Orselli, Confessione Scandalosa, cit.

548 Renzo Tian, Romantica confessione tra regina e cardinale, cit. 549

R. P., La regina va dal cardinal Freud, cit.

550 Sergio Colomba, Cristina regina e donna, cit. 551 Paolo Emilio Poesio , Una donna senza corona, cit.

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di Mario Ceroli, forse la sua più bella scenografia»552. Per Kotnik la scena di Ceroli è «un assolo figurativo»553 che secondo De Monticelli, per la sua qualità, «si meriterebbe di far da contenitore a ben altro testo»554. Addirittura la stessa Edmonda Aldini, che con Ceroli aveva già collaborato nel 1968 per il Riccardo III di Ronconi interpretando il ruolo di Lady Anna, riconosce il significato della scenografia dello scultore, che definisce «uno scenografo di prim’ordine»555. Infine Lombardi afferma che le «belle scene» di Ceroli sono «un supporto di grande suggestione» alla parabola di avvenimenti narrati e ai ruoli magistralmente interpretati sia dalla Aldini, «una Cristina di altissimo livello e di piena rispondenza»556, sia da Del Prete, protagonista maschile del dramma, sia di tutti gli altri attori che hanno dato voce e corpo ai personaggi secondari.

552

Giancarlo Vigorelli, Gli scandali di Cristina sul letto del prof Freud, cit.

553 Giorgio Prosperi, Confessione scandalosa di una regina vergine, «Il Tempo», 18 novembre 1977. 554

Roberto De Monticelli, Psicanalisi in Vaticano, cit.

555 Dara Kotnik, La regina fa i gestacci? Peggio: pensa, «Il Giorno», 10 gennaio 1978. 556 Giovanni Lombardi, Il potere dà scacco alla regina, «Paese Sera», 8 ottobre 1977.

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AIDA

Opera in quattro atti di Antonio Ghislanzoni, musica di Giuseppe Verdi. Venezia, Teatro La Fenice, 26 gennaio 1978

Regia di Mauro Bolognini

Maestro concertatore e direttore: Giuseppe Sinopoli Scene di Mario Ceroli

Costumi di Aldo Buti Maestro del coro: Aldo Danieli Coreografia di Geoffrey Cauley

Interpreti e personaggi: Carlo Del Bosco - Il Re Bruna Baglioni - Amneris, sua figlia Maria Parazzini - Aida, schiava etiope Carlo Bergonzi - Radames, capitano delle guardie

Giancarlo Luccardi - Ramfis, capo dei sacerdoti Garbis Boyagian - Amonasro, re d’Etiopia e padre d’Aida

Ottorino Begali - un messaggero Maria Gabriella Onesti - una sacerdotessa Orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro La Fenice

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A sei anni di distanza dalla Norma scaligera557, Mario Ceroli e Mauro Bolognini collaborano ancora insieme per un nuovo allestimento dell’Aida di Giuseppe Verdi, presentato al Teatro La Fenice di Venezia il 26 gennaio 1978558 (fig. 1).

Con questa messinscena il regista, con i contributi del direttore d’orchestra Giuseppe Sinopoli, del costumista Aldo Buti e di Ceroli, intende rovesciare la visione «stile Arena»559 divenuta ormai quasi obbligatoria per tutti – caratterizzata da enormi spazi, da turbe di personaggi e da grandi masse sfilanti – e darne, anche in ragione dell’esiguità offerta dal palcoscenico veneziano, una nuova, maggiormente «intimistica»560, che metta in evidenza più il dramma dei protagonisti dell’opera che la faraonica ma spesso vuota grandiosità dell’ambiente. L’obiettivo di Bolognini è quindi sì arduo ma non gratuito poiché l’Aida, scritta nel 1870 come opera celebrativa dell’Egitto aperto alla modernità dal Canale di Suez561, ha in realtà due volti: quello fastoso ed esteriore delle marce trionfali e quello della tragedia intima dei personaggi, vittime o prigionieri del potere. Significativa è la dichiarazione rilasciata dallo stesso regista prima della messinscena dello spettacolo:

«Perché mi sono lasciato convincere per Aida? Non avrei mai accettato una regia per quest’opera in un teatro all’aperto. Mi ha entusiasmato, invece, l’idea di un’Aida al chiuso del teatro La Fenice; un’Aida, cioè, al servizio della musica, in cui affiori il dramma dei personaggi, senza comparse e senza cammelli, senza vessilli e senza tutte le brutte impostazioni viste nel passato»562.

Altrettanto significativa è la dichiarazione di Bolognini pubblicata sul programma di sala del Teatro Regio di Parma, dove lo spettacolo è stato ripreso nel 1988:

«Io amo Aida. Per molti registi, come per me, quest’opera è densa di ispirazioni; in più ha il fascino di sottili pericoli. Aida è un’opera doppia. C’è l’Aida col trionfo, le danze, l’esotismo, […], e c’è l’altra, quella scaturita dall’anima più autentica di Verdi, che ci parla d’amore, di solitudine, di personaggi prigionieri di regole, doveri, leggi, divieti, dai quali si libereranno solo con la morte. Non è facile far prevalere l’umanità e i sentimenti dei personaggi in un’opera dove il fasto più retorico degli anni trenta e

557

Cfr. cap. 5.7.

558

L’Aida viene messa in scena nelle giornate del 26 e 29 gennaio e del 1, 4, 5, 7, 8, 10 febbraio 1978. Oltre l’Aida, nel calendario della stagione Opera Balletto 1977-1978 compaiono: Giselle (7 gennaio 1978), Manon Lescaut (18 febbraio 1978), Le nozze di Figaro (14 marzo 1978), Bergkristall (26 aprile 1978), I dodici (26 aprile 1978), Les martyrs (18 giugno 1978), Carmen (18 luglio 1978). L’Aida fu rappresentata, dopo la prima del 26 gennaio 1978, altre sette volte: 29 gennaio e 1,4,5,7,8,10 febbraio 1978. Cfr.

http://www.archiviostoricolafenice.org, data ultima consultazione 5 maggio 2012.

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Mauro Bolognini in Rubens Tedeschi, Un’Aida anticonformista, «L’Unità», 28 gennaio 1978.

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Questo aggettivo compare molto frequentemente nella rassegna stampa del tempo, rimbalzando e ritornando da un articolo all’altro, anche in quelli pubblicati anteriormente alla prima dell’opera. Cfr. Mario Messinis, L’Aida del debuttante, «Il gazzettino del lunedì», 23 gennaio 1978; Paolo Rizzi, “Aida” col batticuore, «Il Gazzettino», 26 gennaio 1978; autore anonimo, Prima di “Aida” alla Fenice di Venezia, «Gazzetta di Parma», 27 gennaio 1978; Rubens Tedeschi, Un’Aida anticonformista, cit.; Mario Pasi, Bergonzi sbaglia ma Venezia l’applaude, «Corriere della sera», 28 gennaio 1978; Mario Messinis, Febbrile intimità di Aida, «Il gazzettino», 28 gennaio 1978.

561

La prima assoluta dell’Aida, tragedia lirica in quattro atti, fu presentata al Teatro dell’Opera del Cairo il 24 dicembre 1871, due anni più tardi rispetto all’inaugurazione del Canale di Suez; in realtà, il proposito del Kedivé d’Egitto Ismail Pascià d’invitare un importante compositore europeo a scrivere un’opera ambientata nell’antico Egitto risale proprio ai festeggiamenti del novembre 1869, in cui avvenne l’inaugurazione del Canale. Verdi rifiutò più volte l’offerta, fino al momento in cui si trovò di fronte alla lettura, nel maggio 1870, dello “scenario” di Auguste Mariette, che considerò «ben fatto, […] splendido di mise en scene e [con] due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto belle». Da quel momento in poi, Verdi dedicò la propria anima a mettere in musica il libretto. Per quanto riguarda quest’ultimo, la paternità viene solitamente attribuita ad Antonio Ghislanzoni: in realtà, egli fu chiamato solo ed esclusivamente a mettere in versi ciò che era stato precedentemente scritto nel succitato scenario. La prima rappresentazione europea dell’opera risale invece all’8 febbraio 1872, alla Scala di Milano. Cfr. Conati Marcello, Un’opera da Grande Boutique, in Aida: opera in quattro atti di Antonio Ghislanzoni / musica di Giuseppe Verdi, Venezia, Teatro La Fenice 1998, pp. 55-77.

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quaranta, o le rappresentazioni “spray-oro” degli anni sessanta, sono rimaste incollate arrivando fino a noi.

Spesso nelle rappresentazioni più grossolane, accade che il pubblico, dopo la scena del “trionfo” se ne vada, proprio nel momento in cui, terzo e quarto atto, l’opera torna a vibrare regalandoci i momenti più intimi, più belli, più struggenti dell’arte verdiana. Come cancellare allora questa insulsa tradizione, che purtroppo il pubblico aspetta, fatta di cavalli, elefanti, carri impennacchiati, clamori e statue d’oro? Ma

Aida è più forte del suo luogo comune. Così, quando mi fu offerto di occuparmi di

questa regia, mi rivolsi a Ceroli, cioè ad un vero artista, perché inventasse, per Aida, uno spazio nuovo, una visione diversa da sempre, dove tutto fosse essenziale e significativo, dove non ci fossero concessioni al superfluo o alla distrazione presuntuosa. Ceroli accettò, portando nello spettacolo tutto il suo limpido e delirante mondo poetico. Il risultato? Un successo»563.

Già nei giorni precedenti il debutto dell’Aida, l’attenzione dei critici teatrali si concentra sulla «ardita visione rinnovatrice»564 di Ceroli, di cui ci si chiede se sarà in grado di svecchiare le trite consuetudini degli allestimenti lirici così come aveva fatto con le scene per la Norma scaligera, quest’ultima ancora capace di far parlare positivamente di sé in occasione della ripresa milanese nel 1977565. Dal canto suo Ceroli, interrogato sulla sua concezione scenografica, dichiara di non poter «scinderla dalla mia stessa concezione estetica. Ho inteso inserire nello spazio di Aida tutto quello che appartiene al mio lavoro di scultore: cioè i miei fantasmi plastici. Spero che leghino con Verdi»566.

La ricostruzione di questo allestimento scenografico è stata resa possibile grazie allo studio della ricca documentazione consultata personalmente presso l’Archivio Storico del Teatro La Fenice di Venezia: i bozzetti dell’artista per le scene e gli atti dell’Aida, i programmi di sala, la rassegna stampa e le fotografie di scena sia della messinscena del 1978 sia delle riprese veneziane del 1984 e del 1998. Fondamentali, inoltre, si sono rivelate le dichiarazioni rilasciate da Ceroli in varie interviste pubblicate su riviste e volumi specialistici del settore teatrale ed artistico, nonché la visione, presso la BibliotecaMediateca Casa della Musica di Parma, della videoregistrazione dell’Aida di Bolognini nella ripresa parmigiana del 1988567.

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