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entra a far parte dello statuto di Roma, e proprio questa è la vera novità rispetto ai greci, oltre al carattere di apertura e adattabilità delle proprie frontiere E proprio la

4. La civitas pellegrina

Abele, ucciso da Caino, diversamente dal proprio fratello non ha fondato nulla; rimane uno straniero in quanto cittadino del cielo, presente sulla terra soltanto in modo passeggero, ‹‹finché non giunga il tempo del suo regno››199

. La sua presenza sulla terra

195

Cfr. S. Cotta, L’esperienza politica nella riflessione agostiniana. Linee di un’interpretazione, in Op. cit. ,p. 343; p. 351. Sulla centralità e l’unità di comando del potere cfr. anche “Presentazione” di G. Marramao, in G. Marramao, M. Failla (a cura di), Civitas augescens. Includere e comparare nell’Europa di oggi, Olschki, Firenze, 2014, pp. I-X.

196

Cfr. De civitate Dei, XV, 1. 197

Ivi, IV, 3. In questo capitolo Agostino traccia un confronto fra due tipi di potere, di regno, assimilandoli a due uomini: ‹‹immaginiamo che uno sia povero, […] mentre l’altro molto ricco. Il ricco però è angosciato da paure, stretto da amarezze, brucia di passioni; non è mai sicuro, costantemente inquieto, affannato da continue tensioni con i suoi avversari […] L’uomo di modeste condizioni, invece, è pago del suo esiguo e limitato patrimonio, molto amato dai suoi, gode con i parenti, i vicini, gli amici di una pace piacevolissima, è devoto nella vita religiosa, di animo benevolo››.

198 Cfr. De civitate Dei, IX, 15. 199

47 costituisce un peregrinare continuo, caratterizzato dal tempo dell’attesa. Ma l’attesa si prepara nella “vita sociale” della città terrena, per mezzo della realizzazione della pace e in ‹‹tutto ciò che di buono si compie verso Dio e verso il prossimo››. La permanenza sulla terra si trasforma, così, in un continuo pellegrinaggio nel quale tutti i cittadini delle nazioni vengono chiamati a raccolta:

‹‹Senza badare a diversità di costumi, di leggi, di istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza eliminare o distruggere nessuna di esse, anzi accettando e seguendo tutto ciò che tende a un unico e medesimo fine della pace terrena, nonostante le diversità da nazione a nazione››200.

Tutti i cristiani dispersi sulla terra trovano nella comunità pellegrina il cammino che conduce a Dio e allo stesso tempo, a prescindere dall’origine etnica, la civitas peregrina si viene a costituire come una ‹‹comunità di mutuo soccorso››201

per tutti coloro che si riconoscono in essa.

Il tema dei “pellegrini” diviene una questione importante a partire dal basso impero; già nel concilio di Nicea si stabilisce che ogni città realizzi delle strutture preposte a ospitare gli stranieri itineranti, i viaggiatori. Il viaggio si configura, in tal modo, come elemento fondante dell’esistenza e della missione dei cristiani. Lo sradicamento da ogni realtà politica che ne consegue – fattore tipico del mondo ellenistico – assume le forme e i contorni di una comunità in cammino, la quale si identifica nella religione della salvezza. Lo stesso paradigma di peregrinus muta di significato intorno al IV secolo d. C. , passando da un’accezione prevalentemente giuridica a una configurazione di tipo sociale: quello che per il diritto classico rappresentava lo straniero alla città o all’impero diviene il viaggiatore, il residente occasionale202. Il cristianesimo e la civitas pellegrina che da questo promana rappresentano dei potenti strumenti di integrazione; nell’ambito dell’impero romano, le cui vicende si legano sempre più alla religione cristiana divenuta religione di Stato, si viene a creare così un ‹‹passaporto di cristianità››203 che determina un nuovo modello di estraneità. Stranieri, allora, saranno coloro che non parteciperanno alla civitas pellegrina cristiana.

Di ben diversa natura rispetto alla civitas pellegrina è la Chiesa cattolica, la quale, secondo la concezione di Agostino, è soltanto “di passaggio” nel saeculum. In realtà la Chiesa affonda le proprie radici nella realtà terrena, esige il comando derivante dalla

200

Ivi, XIX, 17. 201

Cfr. J. Kristeva, Stranieri a noi stessi, cit. p. 90.

202 Su questo passaggio cfr. J. Gaudemet, Les romans et les “autres”, cit. p. 13. 203

48 propria autorità spirituale. Essa non solo si confonde con la città terrena ma pretende di anteporre il proprio primato spirituale all’imperium; ma così facendo rischia di cadere nella trappola dei mali che hanno corrotto Roma e gli uomini.

Da ciò deriva la ‹‹natura vulnerata›› della condizione terrena, la quale riceve la critica spietata di Agostino, il quale denuncia la precarietà e debolezza del potere politico204; semmai possa esistere un potere questo è comunque diretta emanazione dell’unica vera

auctoritas, quella divina. Essa solo può governare gli uomini, al fine di ‹‹renderli

veramente felici, per condurre bene questa vita e poi godere quella eterna››205

. Il discorso di Agostino rivela l’incertezza e l’ambivalenza di questa doppia dimensione e sottolinea ancora una volta il cortocircuito che si produce fra la trascendenza del potere divino e la temporalità in cui si trova coinvolta ad operare la Chiesa, la quale dovrebbe assimilarsi il più possibile al modello ideale della città celeste mentre rimane continuamente sedotta dal potere terreno.

Questa “aporia” irrisolta e irrisolvibile si chiude soltanto con l’effettiva realizzazione del Giudizio di Dio; nel frattempo la dualità del potere persiste finché dura il saeculum. Potere terreno e potere spirituale si trovano allora a convivere in una concordia

oppositorum206 , entrambi assumono un carattere provvidenziale. La religione cristiana interviene nello spazio dell’Impero e si lega ad esso, perché ‹‹l’Impero e la sua legge cosmopolita appaiono provvidenzialmente compatibili con la religione cristiana››207

. Attraverso questo rapporto si snoda così l’intera vicenda del potere in Occidente e appare sempre più evidente come lo stesso discorso sulla cittadinanza si configuri, adesso, alla luce del mutamento delle “forme” del potere.