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Controllo della mobilità umana e contraddizioni globali

Le difficoltà della migrazione e la sua trasformazione in prodotto di mercato vanno senza dubbio legate al controllo su scala globale della mobilità umana, al suo essere soggetta a politiche restrittive che la modellano e che nel modellarla incidono sulle vite e traiettorie di esseri umani che per i più svariati motivi, seguendo soprattutto quell’esigenza che ovunque e sempre li spinge all’emancipazione, al miglioramento cioè delle proprie condizioni di vita e a fuggire dalle condizioni di deprivazione, siano esse materiali o simboliche (Mezzadra e Petrilllo, 2000; Mezzadra, 2001), si muovono o desidererebbero farlo sulla superficie del pianeta.

Lo Stato, nonostante i proclami della sua prossima fine, continua a possedere un ruolo di primo piano nell’odierno ordine globale e si presenta come un attore decisivo dei processi di globalizzazione e in particolare per quel che riguarda la gestione delle mobilità umane (Mezzadra, 2004). Mentre capitali, merci, informazioni e idee si muovono liberamente, le persone non possono farlo, bloccate e lacerate dai confini degli stati nazione. Ad una

deregulation dei mercati internazionali fa da contraltare un governo statale delle migrazioni

che rende difficile il movimento e chiude le porte di ingresso a una moltitudine di esseri umani desiderosi di entrare all’interno del cosiddetto mondo sviluppato. Questa contraddizione sembra il prodotto di uno sfasamento tra politica ed economia, di una loro differenza: mentre la dimensione dell’economico è globale ed extraterritoriale, quella del politico è, al contrario, locale e territoriale. Contraddizione che diventa apparente, se si allarga lo sguardo, e si provano ad analizzare le caratteristiche e le logiche del nuovo ordine globale, di una nuova forma di sovranità che qualcuno ha chiamato Impero (Hardt e Negri, 2000, trad. it. 2007). Appaiono in questo caso le interconnessioni tra politica ed economia all’interno dell’ordine della globalizzazione (Mezzadra e Petrillo, 2000), un ordine capitalistico che è riuscito a fondere politica ed economia, a tutto vantaggio di chi seleziona e dirige gli investimenti, le manovre finanziarie e monetarie, di chi detiene il potere economico, cioè i dominanti globali, e che trae vantaggio dalle divisioni e dalle fratture politiche che dividono il mondo. I dominanti, che in molti identificano soprattutto con le corporation o multinazionali possono muovere i loro capitali nelle zone più favorevoli, più adatte allo scopo, cioè il profitto, il che significa forza lavoro a minor costo e minori limitazioni legislative sulle modalità della produzione, “il capitale avrebbe poche difficoltà a fare i bagagli e a cercare un ambiente più ospitale, o che non opponga resistenza, che sia malleabile, soffice” (Bauman,

attraverso la retorica dello sviluppo, come fa notare Miyoshi (1993), gli stessi governi del “Terzo Mondo” sono spesso favorevoli agli investimenti che provengono dall’esterno e che all’esterno producono i loro maggiori benefici. Gli effetti devastanti sull’ambiente sono dimenticati attraverso il sovvenzionamento della ricerca che dovrebbe rimediare ai danni di chi la sovvenziona (paradosso?). Numerosi autori sostengono che libertà del capitale e controllo delle persone non sia in realtà una contraddizione e un effetto indesiderato dell’ordine globale, ma piuttosto sia una caratteristica intrinseca alla stessa logica capitalistica che è in sé una logica della differenza e della disuguaglianza (Düvell, 2004) e che quindi le differenze salariali globali, l’indebitamento dei paesi in via di sviluppo più che falle del sistema appaiono sempre più conseguenze e caratteristiche funzionali dell’ordine globale stesso. Lo stesso discorso vale per il blocco della mobilità umana, della forza lavoro che deve essere imbrigliata (Moulier Boutang, 2000) e confinata alle zone dove il suo costo è minore. C’è un’intera storia dello sviluppo del capitalismo che si lega al controllo della forza lavoro, al suo sfruttamento (Losurdo, 2006) e che pur cambiando nelle forme caratterizza anche la contemporaneità (Viti, 2007 ). Alla luce di queste considerazioni la contraddizione tra politico ed economico diventa un’alleanza, a questo proposito Bauman scrive:

Il nuovo ordine mondiale, che troppo spesso appare piuttosto come un nuovo disordine mondiale, ha bisogno proprio di stati deboli per conservarsi e riprodursi. […] Non è difficile vedere perciò che la sostituzione di “stati deboli” territoriali con qualche autorità globale, legislativa e di polizia, sarebbe dannosa per gli interessi dei “mercati mondiali”. È perciò facile sospettare che, lungi dal rappresentare fenomeni opposti e in reciproco conflitto, la frammentazione politica e la globalizzazione economica sono alleate e cospirano agli stessi fini. (1998, trad. it. 2007: 77-78)

Eppure esistono organizzazioni sovranazionali e internazionali destinate alla governance globale, ma per lo più favoriscono le logiche dei dominanti globali. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), ad esempio, ha per ora spinto verso una de-regolazione universale dei mercati finanziari (Gallino, 2000). L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) è più attenta a fare gli interessi di governi ed economie forti, piuttosto che quelli dei migranti, ponendo, non a caso, tra i suoi primi obiettivi quello del controllo delle migrazioni (cfr. Düvell, 2004).

Se dall’analisi delle caratteristiche dall’ordine globale, nel quale sono immersi i cittadini degli stati, si passa a considerare i loro diritti, è facile trovarsi davanti a nuove contraddizioni. Universalismo e particolarismo entrano spesso in contraddizione e non hanno trovato il loro punto di equilibrio, se è vero che questa dialettica porta ad una disuguaglianza tra esseri

umani e tra i loro diritti. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Nazioni Unite, 1948) è rivolta all’essere umano in quanto tale, al di là delle differenze di appartenenza, e decreta i valori della libertà e dell’uguaglianza, salvo poi riconoscere il privilegio allo Stato nazione e ai diritti di cittadinanza dell’applicazione di tali valori. Come mette in luce Benhabib (2004, trad. it. 2006 e 2006 trad. it. 2008) per quel che riguarda la libertà di attraversare i confini, la contraddizione è insita negli stessi Diritti Umani, che riconoscono un diritto universale di emigrare ma non quello di immigrare che è affidato ai singoli stati (confronta articolo 13 e 14). Le migrazioni sono così limitate dalle particolari legislazioni nazionali e dagli accordi (che si usa definire) bilaterali tra stati. Le leggi riguardanti le migrazioni sono però sempre pensate seguendo le esigenze dei paesi riceventi (Sayad, 1999, trad. it. 2002), attraverso una logica che distingue emigrazione ed immigrazione, considerandoli come due fenomeni differenti, slegati e non come due dimensioni di un medesimo processo e quindi difendono esigenze, interessi e vantaggi unilaterali.

All’interno dell’ordine globale, l’essere umano, teoricamente uguale e libero, è ridotto al suo passaporto, alla sua appartenenza nazionale e questa appartenenza spesso lo costringe ad essere locale o a pagare per la sua mobilità un prezzo elevato. Nel mondo globalizzato, per gran parte della popolazione mondiale, i confini diventano così un ostacolo che anche quando si lasciano attraversare provocano fatiche e sofferenze. Per molti la mappa politica è il territorio. I differenti colori che indicano le entità statali hanno effetti reali sui cittadini. Uno di questo è la produzione del prezzo della mobilità legato alle gerarchie dei colori, che dipinge un mondo di disuguaglianze tra stati e cittadini. Ulteriore paradosso, a pagarne il prezzo maggiore sono per lo più i poveri o meglio coloro che appartengono alle parti povere del pianeta.