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Necessità dell’aiuto, difficoltà dell’aiuto

Le politiche della migrazioni favoriscono la concentrazione, che poi tende a riprodursi attraverso i vantaggi che una migrazione strutturata offre a neo-migranti e migranti di lunga data. Il neo-migrante tende ad arrivare in città densamente popolate da propri connazionali. Si trova all’interno di relazioni che precedono il suo arrivo e in ambienti nei quali è facile incontrare e conoscere altri connazionali, far relazioni. La comunicazione con i propri connazionali è certamente più facile rispetto a quella con cittadini italiani e di altre nazionalità che in molti casi all’inizio del percorso migratorio è praticamente nulla. La necessità dell’aiuto in una situazione precaria e difficile spinge verso propri connazionali. Ma la ricerca dell’aiuto può anche risolversi in maniera negativa. Il rifiuto è sempre possibile e anzi anche quando si riceve un aiuto non è escluso, anzi è molto probabile, che sia stato preceduto da tutta una serie di rifiuti, che nei momenti di estrema difficoltà e necessità non possono far altro che produrre sentimenti negativi e ambivalenti nei confronti dei propri connazionali. La

concentrazione è un ambiente di legami fragili. La necessità dell’aiuto provoca situazioni di

potenziali malintesi e di potenziali conflitti, che possono mettere in pericolo i legami che si possedevano già prima dell’arrivo in Italia e che possono creare diffidenza verso tutti quei legami virtuali che la concentrazione mette a disposizione. Lo spazio sociale della concentrazione prodotto dalle condizioni oggettive (o strutturali) della migrazione risulta un ambiente di legami fragili e un ambiente dove la dialettica necessità dell’aiuto/difficoltà dell’aiuto è spesso causa di malintesi, divergenze e conflitti.

I migranti tendenzialmente arrivano in città in cui hanno una grande quantità di legami di parentela, poiché la migrazione ha luoghi di origini comuni e funziona attraverso le relazioni interpersonali tra migranti e non-migranti. In Sri Lanka la tendenza è quella di attribuire ai legami di parentela (anche quelli non prossimi) un elevato valore simbolico, accentuato anche dal valore attribuito allo “stesso sangue”, concetto che ho sentito più volte nelle discussioni dei migranti sulla parentela. Girando con ragazzi srilankesi in Italia è sempre possibile incontrare parenti, “lui mio parente, come cugino, ma non proprio cugino”. Il valore simbolico attribuito alla parentela fa si che anche i legami tra parenti che in Sri Lanka possono essere superficiali, cioè caratterizzati da pochi e rari incontri, in Italia diventino pretesto di contatto e di relazione. Ma questi possono diventare conflittuali perché nonostante il legame di parentela non sempre all’interno del legame circola anche l’aiuto. Nei casi di estrema difficoltà, dai legami di parentela ci si attende un aiuto. Il rifiuto di aiutare di una

Italia? Parenti serpenti. Non è sbagliato”, sostiene Maesh, dopo i suoi vent’anni d’Italia, mettendo in luce come le relazioni di parentela possano diventare conflittuali all’interno del contesto della migrazione.

Anche tutti quei legami che si creano attraverso incontri fortuiti e che hanno aiutato il percorso migratorio di Suranjan e Anil possono attivarsi in maniera diversa rispetto alla relazione di aiuto. La richiesta di aiuto verso i propri connazionali può scontrarsi con un rifiuto, legato all’impossibilità o alla mancanza di volontà di aiutare qualcuno per il semplice motivo che si tratta di un connazionale, o di una persona che in Sri Lanka abita nella stessa città.

Il caso di Rohan, a cui si è già fatto riferimento, risulta particolarmente indicativo per illustrare come l’ambiente della concentrazione possa essere un ambiente potenzialmente conflittuale e dominato da contraddizioni, tra vincoli di parentela e di amicizia, tra aspettative e delusioni.

Rohan (quarantaquattro anni) arriva in Italia nel novembre del 2007. Vivo nella stessa casa con lui da fine dicembre 2007 a metà febbraio 2008, quando Rohan decide di lasciare Verona. Questi mesi sono per Rohan mesi di estrema difficoltà, un periodo durante il quale sperimenta la malinconia per la lontananza da casa, da moglie e figlio (diciassette anni), l’ansia e il peso

del tempo: ogni giorno che passa, che trascorre senza lavoro, è un giorno in cui i debiti

contratti in Sri Lanka per poter partire salgono a causa degli interessi. Inoltre la vita in Italia costa, ci sono le spese per poter mangiare e quelle per poter comunicare a casa. Il flusso dei soldi tra Sri Lanka e Italia percorre la direzione opposta rispetto i desideri: dallo Sri Lanka familiari e amici gli inviano di tanto in tanto qualche centinaia di euro per le spese quotidiane. Rohan ritira questi soldi in uno dei tanti negozi dello Sri Lanka a Verona che offre il servizio del trasferimento (non ufficiale) di denaro.

Io e Rohan condividiamo un appartamento di un parente di Rohan che abita fuori Verona, nella casa in cui lavora come custode/domestico. Problematiche familiari pregresse rendono instabile la situazione. Rohan non paga l’affitto ma si sente un peso indesiderato. I ripetuti consigli di lasciare Verona, dove sarebbe impossibile trovare lavoro, infastidiscono Rohan e mettono chiaramente in luce gli intenti del parente di sbarazzarsi di lui, di allontanarlo. Ciò nonostante, oltre all’ospitalità, il parente gli passa, di tanto in tanto, qualche decina di euro per le spese, soldi che quasi sicuramente non verranno mai restituiti.

Il parente che lo ospita, non è l’unico contatto che Rohan possiede in Italia già prima dell’arrivo. Questi contatti non sono tutti a Verona, ma sparsi per l’Italia, nelle città ad altra concentrazione srilankese. Ogni tanto qualche suo amico in Italia gli manda dei soldi, piccoli aiuti che probabilmente non verranno mai ricambiati. Un amico di Firenze, ad esempio, gli ha mandato 50 euro attraverso un conoscente comune di Verona.

Nonostante gli aiuti che di tanto in tanto arrivano da connazionali, Rohan pensa di non poter far realmente affidamento su nessuno in Italia. Mi mostra spesso il block notes che ha portato con sé dallo Sri Lanka. Conta i numeri di telefono all’interno, arriva fino a diciotto. Diciotto tra parenti e amici sparsi per l’Italia, tutte persone che gli avrebbero promesso il loro aiuto se solo fosse riuscito ad arrivare in Italia, “if you are able to come to Italy, we will help you, they said”. Riconta i contatti, diciotto e nessuno, sostiene Rohan, lo chiama, nessuno ha veramente

intenzione di aiutarlo, nessuno si interessa alla sua situazione. Guardando sconfortato una bottiglia di whisky mi dice che adesso tiene più a quella bottiglia che a tutti quei diciotto contatti, a quei diciotto numeri di telefono. La solitudine e lo sconforto hanno portato spesso Rohan a bere durante quei primi periodi di Italia, ma mi spiega che non appena le cose andranno un po’ meglio smetterà con whisky e sigarette. “One day I will go up”. La convinzione verso un miglioramento futuro salva Rohan dallo sconforto totale, uno sconforto che di tanto in tanto riappare attraverso la volontà di mollare tutto e tornarsene in Sri Lanka, soluzione però impossibile dato che decreterebbe la rovina sua e della sua famiglia.

Ogni giorno Rohan esce di casa e se ne va a Porta Vescovo. In questa zona ci sono diversi negozi dello Sri Lanka ed è facile incontrare propri connazionali. Per trovare lavoro, su indicazione di qualche suo connazionale prova a rivolgersi a qualche gruppo di aiuto che soprattutto la Chiesa mette a disposizione di disoccupati e stranieri in difficoltà. La comunicazione però è difficile, Rohan ancora non parla italiano e non ottiene aiuti concreti. Rohan quando è a casa cerca di studiare il libro blu, un corso di italiano per srilankesi, ma una lingua non si impara velocemente e neppure sui libri. Così senza saper l’italiano, senza conoscere bene l’ambiente in cui si muove, le sue speranze per un lavoro sono per lo più legate all’aiuto di qualche connazionale. Nelle zone ad altra concentrazione di srilankesi, come Porta Vescovo, cerca quotidianamente di informarsi e spera di imbattersi in un incontro casuale e fortunato. La convinzione di Rohan, che ogni giorno di difficoltà e di immobilità nel tempo vuoto del non-lavoro rende più intensa, è quella che agli altri srilankesi (l’altro

generalizzato) in realtà non piaccia aiutare i propri connazionali. Agli altri srilankesi, così

pensa Rohan, non piace vedere un proprio connazionale emergere, “they don’t like if I go up”, perché hanno paura di essere superati. La sensazione è anzi quella che coloro che hanno raggiunto una certa stabilità piuttosto che aiutare, nel confronto con gli altri, vogliano sottolineare le differenze e mostrare la propria superiorità. Rohan li definisce big head (termine che significa “arrogante”) e li descrive come persone che gonfiano le spalle e che quando incontrano srilankesi per strada non salutano anche e nonostante che in Sri Lanka li conoscessero. Gente che invece di aiutare è sempre pronta a sparlare degli altri, inviando messaggi negativi in Sri Lanka. Questa sorta di sfiducia generalizzata aumenta quando Rohan riceve dallo Sri Lanka il suggerimento di cercare un certo Sugeeva, un signore in Italia da diversi anni, che è riuscito ad aprire una sua attività: è proprietario di un’impresa di pulizia. Questi potrebbe dargli un lavoro o sfruttando le sue conoscenze costruite nel lungo periodo di immigrazione, fornirgli qualche contatto con un datore di lavoro. La ricerca del numero di telefono risulta complicata. A Porta Vescovo incontra un dipendente di Sugeeva, che Rohan conosce superficialmente perché in Sri Lanka abitano nella stessa città. Questi però non gli fornisce il numero di telefono del suo datore di lavoro. Rohan continua la ricerca e alla fine riesce a trovare il numero di Sugeeva da qualche altro connazionale. Lo chiama. La prima volta Sugeeva risponde e poco dopo butta giù. Poi non risponde più.

È il 20 febbraio 2008 quando Rohan, con due valigie piene di vestiti e uno zainetto con all’interno tutti i preziosi – nel doppio senso di importanti e costosi – documenti che sanciscono la sua regolarità, decide di lasciare ogni speranza di trovare lavoro a Verona, (speranza persa con l’aiuto dei propri contatti). Rohan, dopo aver racimolato qualche centinaia di euro dai suoi contatti, decide di partire per Messina, dove vivono altri parenti. Rohan li ha sentiti prima di partire e questi gli hanno parlato di un possibile lavoro in una stalla di mucche e tori, che sembra attenderlo. Il giorno successivo alla sua partenza sento Rohan per telefono. Il lavoro non c’è più, lo hanno già dato a un marocchino. La permanenza a Messina non porta i vantaggi sperati. Ci rimane fino ai primi di aprile. Non trova lavoro, anche se lavora qualche giorno in un distributore di benzina per 20 euro a giornata. Questi soldi gli servono per arrivare a Reggio Emilia, dove il 9 aprile ha un appuntamento in questura per ritirare il permesso di soggiorno – quello vero, che la burocrazia italiana tarda a

consegnare nella sua forma ufficiale – dato che il datore di lavoro fittizio è di Reggio Emilia. Questo spostamento è il pretesto per un ulteriore movimento. Non tornerà più a Messina. L’“Italian tour”, così Rohan definisce i suoi spostamenti per l’Italia, lo porta da Messina a Napoli, via Reggio Emilia. Rohan ha altri parenti a Napoli. È qui che tenterà di realizzare i suoi obiettivi: trovare soldi, pareggiare i conti (cioè pagare tutti i debiti) e iniziare a guadagnare per migliorare il futuro suo e della sua famiglia, vero obiettivo della migrazione. (Note di campo, Verona, 01.08-04.08)

Il caso di Rohan mette in luce diverse caratteristiche delle pratiche dei migranti e delle dinamiche relazionali tra migranti. Fa emergere problemi e criticità presenti all’arrivo in Italia e mette in luce come nei momenti di difficoltà, i problemi possono diventare conflitti all’interno dell’ambiente della concentrazione. Il caso di Rohan non va pensato come un caso isolato. Seppur ogni storia migratoria possieda proprie caratteristiche, questo caso mette in evidenza difficoltà e contraddizioni/conflittualità comuni a più percorsi migratori e che spesso vengono raccontate, commentate ed interpretate attraverso modalità comuni, come se esistesse una lettura condivisa delle realtà della migrazione. Il caso di Rohan mette in luce, da una parte le contraddizioni e le conflittualità dell’ospitalità e la fragilità dei legami pregressi e dall’altra una certa diffidenza verso l’altro (connazionale) generalizzato.

L’ospitalità mostra tutte le sue contraddizioni quando invece di rendere più forte il legame lo rende più fragile. L’ospitalità può diventare un peso tanto per chi la offre, quanto per chi la riceve. Esistono diverse situazioni di potenziale conflittualità. Quando, come nel caso di Rohan e del parente che lo ospita, esistono problematiche pregresse, l’ospitalità è una forzatura legata ai vincoli di parentela e alle dinamiche della migrazione vincolata alle relazioni personali. Nel momento incerto dell’arrivo in Italia, molti possono essere i cambi di residenza del neo-migrante, continuamente in cerca della situazione migliore o meno conflittuale, poiché tutti gli attriti che caratterizzavano il legame precedentemente all’arrivo in Italia possono esplodere e intensificarsi all’interno di una relazione di aiuto e di dipendenza forzata. Quando ciò accade entrambe le parti tendono a preferire il distacco, mostrando tutte le contraddizioni del dare e ricevere aiuto. Il distacco crea tensioni e queste lasciano i segni negativi e duraturi sul legame. Un altro problema è quello del pagamento dell’ospitalità. Nial, ad esempio, sostiene che la divisione dell’affitto e delle spese per la casa e per il cibo sia giusta anche tra parenti, ma questo quando tutti lavorano. Diventa spiacevole, al contrario, quando l’equivalenza è ricercata anche nei momenti di crisi di una delle parti. Nial racconta che all’arrivo in Italia ha trascorso diversi mesi da disoccupato, con tutte le preoccupazioni per i debiti da ripagare in Sri Lanka. Lo zio da cui era ospite teneva però i conti di tutte le spese, scrivendo su un quadernino la quota dell’affitto che Nial avrebbe dovuto ri-pagare una

volta trovato un lavoro. Questa equivalenza, richiesta dallo zio, spiega Nial, è maggiormente spiacevole se si considera che la famiglia di Nial (i suoi genitori) hanno aiutato molto e in diverse circostanze lo zio, anche per raggiungere l’Italia. L’equivalenza calcolata e imposta all’interno di un legame tra prossimi, che generalmente segue altre logiche, lede la qualità del legame. Nonostante la valutazione negativa del comportamento dello zio, lo stesso Nial sostiene però che è sempre meglio pagare i parenti quando offrono un aiuto importante, questo per evitare che l’aiuto possa essere rinfacciato in seguito. Come l’equivalenza, anche le discussioni esplicite su credito e debito, il rinfacciare l’aiuto o il viverlo come un peso eccessivo, sono circostanze che invece di rafforzare la relazione la rendono problematica e fragile. Un’altra fonte di conflitto che si lega all’ospitalità è quella delle difficoltà della convivenza. Difficoltà nel calcolare le divisioni delle spese, difficoltà nel far combaciare gli orari e le differenti abitudini di vita sono tutti motivi di potenziale conflitto. Indika sostiene di aver preferito chiedere un posto in casa a Suranjan – al tempo tra i due il legame era superficiale – piuttosto che a parenti. “Io mangio in un certo modo, io lavoro di notte e torno sempre a mezzanotte. Non mi piace andare da parenti, magari succedono problemi”. È come se il legame tra prossimi non potesse reggere una situazione di eccessiva prossimità fisica o di eccessivo aiuto e dipendenza. Indika per evitare di portare conflittualità all’interno di famiglie legate da rapporti di parentela ha preferito non cercare neppure un posto in casa di parenti e richiedere aiuto ad un altro connazionale.

Il neo-migrante è ospitato da qualcuno e può contare su una serie di contatti che precedono il suo arrivo in Italia. In questo caso la disuguaglianza socio-economica inserita all’interno di un legame tra prossimi e di prossimità fisica crea aspettative di aiuto nei casi in cui una delle due parti si trova in situazioni di difficoltà. La sensazione che si origina in chi, in situazione di difficoltà estrema non viene aiutato e vede gli altri (parenti e amici) in una situazione di stabilità socio-economica, è che gli altri siano egoisti, che pensino esclusivamente al denaro e a loro stessi. Dall’altra parte però l’aiuto è un dispendio di tempo e di soldi. È un dare senza la sicurezza del ricevere, un rischio che in situazioni di difficoltà non sempre si è nelle condizioni e nella volontà di correre. Il percorso migratorio rimane sempre un percorso incerto, in cui non si può mai essere sicuri di aver raggiunto una stabilità definitiva, in cui le cadute sono sempre possibili. Le difficoltà di chi si trova in una situazione di vantaggio, raramente vengono considerate da chi si trova in condizioni di difficoltà maggiori e così la mancanza di aiuto può diventare percezione di egoismo. Non è neppure necessario che ci siano una richiesta di aiuto esplicita e un rifiuto esplicito per allontanare le persone, dato che

reticenza a dare (amicizia, la propria parola, il proprio aiuto), come sostiene Caillé (1998, trad. it. 1998), è sufficiente a far uscire le persone dal rapporto di fiducia e rendere instabile la relazione.