• Non ci sono risultati.

La propaganda dei partiti euroscettici in Danimarca, Francia, Italia e Polonia

4.1.1 Dare voce al popolo: i referendum sull’Europa

La Danimarca aderisce all’Unione Europea a partire dal 1° gennaio del 1973, in quello che è il primo allargamento comunitario del quale saranno protagoniste anche l’Irlanda e il Regno Unito. Il 25 marzo del 2001, la Danimarca accoglie con favore l’idea della libera circolazione dei cittadini europei sul territorio, divenendo dunque membro dello spazio Schengen; mentre nel corso dei negoziati sull’introduzione della moneta unica pattuisce una clausola di esenzione dall’UEM, grazie alla quale non è obbligata a introdurre l’euro pur partecipando agli Accordi Europei di Cambio (AEC)1.

Il rapporto tra la Danimarca e l’Europa assume un carattere di generale ambivalenza e ambiguità, spesso considerato sinonimo di un diffuso scetticismo nei confronti dell’Unione. Si tratta di una condizione che sembra interessare alcuni dei maggiori Paesi della macroregione settentrionale, nello specifico Danimarca, Finlandia, Svezia e Regno Unito, e che quindi ha incentivato l’idea di trovarsi davanti a un’area fortemente euroscettiche (Archer 2000; Lauring Knudsen 2008; Polgár 2014). Tale considerazione fa leva sulle rilevazioni Eurobarometro, che registrano un diffuso scetticismo dei cittadini danesi e svedesi in relazione a specifici aspetti dell’integrazione, soprattutto in ambito economico (mercato unico ed eurozona), rispetto alla media europea (Polgár 2014); ma anche sull’esito negativo di quei referendum legati alla issue Europa che sono stati indetti in alcuni Paesi della regione settentrionale – la maggioranza degli elettori danesi ha rifiutato il Trattato di Maastricht nel 1992 e l’introduzione dell’euro nel 2000, i cittadini svedesi hanno optato per

1Gli Accordi Europei di Cambio rappresentano un sistema introdotto dall’UE allo scopo di diminuire le variazioni del tasso di cambio tra le valute dei diversi Stati membri, il che avrebbe permesso di mantenere una certa stabilità monetaria. I negoziati iniziano nel 1979 e terminano il 31 dicembre 1998. Nel 1999 vengono introdotte nuove regole in materia e l’AEC II sostituisce gli accordi precedenti. Tutti gli Stati che decidono di fare ingresso nell’Unione Europea sono obbligati a rispettare tali accordi per almeno due anni per poter essere ammessi all’eurozona. La Danimarca è stata dal 2004 al 2015 l’unico Paese partecipante all’AEC II, mentre il Regno Unito non ha mai aderito a tali accordi. Non fanno ancora parte di questo sistema le valute svedese, polacca, ceca, ungherese, rumena e croata, mentre la Bulgaria ha annunciato l’adesione agli accordi a partire dal luglio del 2019.

l’uscita dalla zona euro nel 2003, mentre nel Regno Unito i cittadini esprimono nel 2016 il loro sostegno all’uscita dall’Unione Europa.

In Danimarca, il referendum diviene un vero e proprio strumento di “democrazia diretta” e quindi di espressione della sovranità popolare, che permette ai cittadini non solo di manifestare la propria posizione in merito a questioni che incidono sulla sovranità nazionale, ma di gravare in modo “reale” sull’attività politica del Paese. L’art. 20 della Costituzione danese (1953) stabilisce, infatti, che i poteri conferiti alle autorità nazionali possono essere delegati ad autorità sovranazionali istituite in collaborazione con altri Stati per la promozione della cooperazione internazionale. Si tratterebbe di una vera e propria “perdita” della sovranità nazionale in specifici ambiti, e pertanto tale decisione deve necessariamente essere approvata con una maggioranza dei 5/6 al Folketing, ossia da almeno 150 membri sui 179 che costituiscono il Parlamento danese. Nel caso in cui la maggioranza richiesta per questa tipologia di disegni di legge non fosse raggiunta, allora la decisione passerebbe al vaglio della cittadinanza mediante l’indizione di un referendum consultivo (Petersen 1999; De Vreese e Semetko 2004; Lauring Knudsen 2008). Rientrano in tale fattispecie le decisioni che riguardano l’assetto comunitario, in relazione alle quali i rappresentanti politici danesi hanno scelto di utilizzare lo strumento referendario in misura maggiore rispetto a quanto richiesto dalla Costituzione nazionale (solo in occasione della ratifica del Trattato di Nizza nel 2001 le forze politiche al Folketing hanno deciso di non sottoporre il trattato a referendum). Inoltre, la classe politica ha riconosciuto a questi referendum un valore giuridico, nonostante essi fossero chiaramente di natura consultiva. La scelta dell’élite politica può essere ricondotta a due ragioni: la prima risiede nella volontà di garantire una legittimità politica alle decisioni; la seconda, di tipo strategico, riguarda la volontà delle forze politiche, da sempre confuse e poco chiare in tema di integrazione europea, di trasferire all’elettorato la responsabilità delle decisioni (Svensson 1996; Larsen 1999; Qvortrup 2001; Svensson 2002; Buch e Hansen 2002; De Vreese e Semetko 2004; Green-Pedersen 2012).

A partire dal 1972, i cittadini danesi sono stati chiamati ad esprimersi sui processi di integrazione europea in sette diversi referendum; solo in tre occasioni si è registrata una maggioranza del No, che ha quindi effettivamente portato al rifiuto di alcune decisioni comunitarie da parte del Parlamento danese. I referendum del 1972, del 1986 e del 1993 non si configurano come obblighi costituzionali, ma la scelta di “dare voce” ai cittadini danesi, e quindi di indire una consultazione popolare, viene presa prima che fossero realmente chiare ed evidenti le posizioni delle diverse forze politiche al Folketing. Va sottolineato, inoltre, che il voto espresso dai cittadini differisce dalla volontà della maggioranza parlamentare in tre dei sette referendum, ossia quelli del 1986, del 1992 e del 2000; il fatto che l’elettorato non abbia seguito le raccomandazioni dei loro rappresentanti in merito agli affari europei,

potrebbe suggerire una presenza del sentimento euroscettico maggiore tra i cittadini che tra le élite politiche (Archer 2000).

Tabella 3 – Referendum sull’Unione Europea in Danimarca in prospettiva storica con indicazioni su affluenza e risultati (Fonte: rielaborazione dell’autore).

Data Referendum No (%) Sì (%) Affluenza (%)

1972 ottobre EEC membership 36,6 63,4 90,1

1986 febbraio Atto Unico Europeo 43,8 56,2 75,4 1992 giugno Trattato di Maastricht 50,7 49,3 83,1 1993 maggio Accordo di Edimburgo 43,3 56,7 86,5 1998 maggio Trattato di Amsterdam 44,9 55,1 74,8

2000 settembre Moneta unica 53,1 46,9 87,5

2015 dicembre Opt-out Giustizia e Affari interni 53,1 46,9 72

Il referendum sulla membership del 1972

La classe politica danese sceglie di indire un referendum popolare sull’adesione della Danimarca alla Comunità Economica Europea molto prima rispetto all’effettiva conoscenza delle posizioni sul tema all’interno del Parlamento, allo scopo di dare ai cittadini la possibilità di decidere sul futuro della propria nazione. Si registra una grande affluenza (90,1%) con una percentuale di voti a favore molto maggiore (63,4%) rispetto a quelli contrari (36,6%). I partiti

mainstream dello scenario politico nazionale – in primis il governo socialdemocratico, ma

anche le forze conservatrici e liberali –, i grandi gruppi economici di interesse e i sindacati si dichiarano tutti sostenitori dell’ingresso nella EEC, soprattutto perché certi dei benefici e dello sviluppo economico che l’appartenenza a questa entità sovranazionale avrebbe portato al Paese. Le esportazioni agricole saranno uno dei temi chiave del fronte del Sì, in ragione dei molteplici legami commerciali con la Germania, uno dei Paesi fondatori della EEC, e il Regno Unito, che proprio in quello stesso periodo aveva avviato i negoziati per la membership (Larsen 1999; Archer 2000; Svensson 2002). Il fronte del No era costituito da forze minori provenienti dalla sinistra radicale e dall’estrema destra, come il Partito Comunista Danese e il Partito della Giustizia, insieme al Movimento Popolare contro la EC.

Il referendum sul SEA del 1986

L’Atto Unico Europeo (Single Eruopean Act - SEA), avviato a partire dai Trattati di Roma del 1957, è un accordo sottoscritto a Bruxelles nel 1986 con cui i Paesi membri si impegnavano a completare la realizzazione di un mercato unico europeo e un’unione di tipo politico. L’aumento della centralità e dell’importanza delle istituzioni comunitarie, che di

conseguenza avrebbe limitato la sovranità nazionale, spinge le forze politiche – anche quelle che si erano espresse a favore dell’ingresso, quali socialisti, liberali e socialdemocratici – ad opporsi alla ratifica di tale atto nel Folketing (Larsen 1999; Archer 2000; Svensson 2002; Torben 1987). Nonostante le posizioni espresse dalle forze parlamentari, gli elettori sembrano non seguire le indicazioni dei partiti politici; infatti, il 56,2% dei danesi si esprimerà a favore della ratifica del SEA. Il referendum del 1986 è una chiara testimonianza dell’ambiguità del rapporto della Danimarca con il progetto europeo sia in termini di sostegno dell’élite politica sia in riferimento al supporto rilevato nell’opinione pubblica.

Il referendum sul Trattato di Maastricht del 1992

In occasione del Trattato di Maastricht, il governo, favorevole alla ratifica del trattato, non riesce ad ottenere al Folketing la maggioranza necessaria affinché la decisione non fosse sottoposta alla consultazione popolare. La campagna referendaria si caratterizza nuovamente per la netta contrapposizione tra i partiti mainstream per il fronte del Sì, tra tutti il partito socialdemocratico e quello liberale, e quelli di minoranza per il fronte del No, ovvero il Partito del Progresso e il Partito Popolare Cristiano. Pur non dovendo affrontare delle divisioni interne, il partito socialdemocratico sembra non riuscire a veicolare un messaggio chiaro ai propri sostenitori circa la propria posizione (Svensson 2002); una ragione di tale difficoltà è rintracciabile nel cambio della leadership, che sembra aver ritardato e indebolito la campagna referendaria del partito, ma anche nella mancanza di un chiaro appello a favore del Trattato (Nielsen 1993; Siune e Svensson 1993; Svensson 1994). Con un’affluenza dell’83,1%, i criteri di Maastricht vengono rifiutati dal 50,7% dell’elettorato; un esito in contrasto con quanto si era registrato in occasione della votazione parlamentare, che vedeva una maggioranza di 130 parlamentari esprimersi in favore del Trattato. Ciò che emerge dal dibattito sorto in occasione del referendum su Maastricht del 1992 è la duplice visione del ruolo della Danimarca all’interno del progetto europeo, ossia un chiaro sostegno all’Unione attraverso la cooperazione in diversi settori, ma allo stesso tempo l’opposizione verso una possibile e completa integrazione (Larsen 1999).

Il referendum sull’Accordo di Edimburgo del 1993

In seguito all’esito negativo del referendum del 1992, che di fatto avrebbe voluto la Danimarca fuori dall’ulteriore processo di integrazione dettato dal Trattato di Maastricht, le forze politiche presenti in Parlamento – ad eccezione del Progress Party – decidono di avviare un negoziato con l’Unione nel dicembre dello stesso anno per ottenere un “National Compromise”, il quale avrebbe permesso al Paese di ottenere quattro opt-outs (Svensson 2002). I rappresentanti al Consiglio Europeo si videro “costretti” ad accettare tale proposta di negoziazione, poiché il Trattato di Maastricht non sarebbe potuto entrare in vigore senza la

ratifica di tutti gli Stati membri. Dopo il voto favorevole, ma non sufficiente, dei membri del

Folketing, anche per gli opt-outs viene indetto un referendum. Si tratta di una sfida importante

per la classe politica, che avrebbe dovuto ripensare il ruolo della Danimarca nello spazio europeo nel caso in cui i danesi avessero rifiutato anche gli accordi stipulati al summit di Edimburgo (Svensson 1994; Siune, Svensson e Tonsgaard 1994; Franklin, van der Eijk e Marsh 1995). Il 56,7% dei cittadini-elettori esprime il proprio consenso, e pertanto la minaccia di esclusione della Danimarca dall’UE sembra allontanarsi, anche se in realtà la nazione ha di fatti avviato una “presa di distanza” dal processo di integrazione europea con la richiesta di mantenere la sovranità nazionale su alcuni punti del Trattato di Maastricht. In particolare, l’Accordo di Edimburgo prevede quattro deroghe per la Danimarca in tema di cittadinanza europea, di unione economica e monetaria (infatti la Danimarca non entrerà nella zona euro), di cooperazione nei settori della difesa, della giustizia e degli affari interni. Proprio in occasione delle trattative sull’Accordo di Edimburgo emerge la complessità del rapporto tra la Danimarca e l’Europa: in seguito all’esito referendario, infatti, si verificano violente proteste e disordini nella città di Copenaghen da parte di gruppi fortemente avversi al processo di integrazione (De Vreese e Tobiasen 2007).

Il referendum sul Trattato di Amsterdam del 1998

Con il Trattato di Amsterdam, che rappresenta un ulteriore tentativo di rafforzare l’unione politica degli Stati membri, gli opt-outs negoziati a Edimburgo mantengono la loro validità, ma la politica danese guarda con favore ad alcune innovazioni in materia di sussidiarietà, occupazione e ambiente. La campagna referendaria non è incentrata su quelli che sono effettivamente i punti del trattato di modifica dell’Unione Europea, ma i partiti si limitano a dar forma a un dibattito sulla natura generale del processo di integrazione e sull’importanza di non essere esclusi (Svensson 2002). La vittoria del Sì con una percentuale di voto pari al 55,1% va rapportata all’affluenza registrata (74,8%), molto minore rispetto a quella rilevata per i precedenti referendum sull’Europa – unica eccezione quella del referendum sul SEA del 1986, dove si registra un’affluenza del 75,4%. Nel complesso, la maggioranza dei partiti politici di rappresentanza al Folketing si è espressa a favore della ratifica del trattato, anche se ottengono una certa visibilità nel corso della campagna quelle forze politiche avverse al processo di integrazione, tra tutti il Partito Popolare Danese, il Partito Popolare Socialista, il Partito del Progresso e la Lista dell’Unità (Buch e Hansen 2002; Petersen 1999).

Il referendum sulla moneta unica del 2000

Quello sull’introduzione della moneta unica è un referendum cruciale per la Danimarca, poiché avrebbero portato verso un aumento dell’integrazione a livello economico a cui le élite politiche danesi hanno da sempre guardato con favore (Downs 2001; Qvortrup 2001). La

presenza degli opt-outs di Maastricht, uno dei quali proprio in riferimento all’adesione all’eurozona, rende il referendum necessario dal punto di vista politico. In generale, il governo liberale si dichiara a favore della moneta unica, insieme ai socialdemocratici, ai conservatori, alle organizzazioni di imprenditori e ai sindacati, considerandola un modo per migliorare ancora di più l’economia e l’occupazione a livello nazionale. Pur sostenendo il Sì, le motivazioni che spingono tali forze politiche verso l’adesione all’eurozona sono così diversi da creare una certa confusione all’interno del discorso politico di campagna (Skjalm 2000; Downs 2001; De Vreese e Semetko 2004). Il fonte del No può contare sul Partito Popolare Danese, sul Partito Popolare Socialista, sui cristiani e sui movimenti anti-europeisti che, pur essendo forze minori, riescono a realizzare un discorso incentrato sulla preoccupazione e sull’incertezza degli scenari economici possibili in seguito all’introduzione dell’euro (De Vreese e Semetko 2004). Il 53,1% dei cittadini-elettori si esprime a sfavore dell’introduzione della moneta unica, non accogliendo le raccomandazioni delle élite politiche ed economiche del Paese. Il fronte del No ha potuto contare sia sulla buona condizione economica nazionale, che quindi non ha per nulla sostenuto l’idea del cambiamento, sia sul declino del leader di governo a causa di una serie di politiche in tema di pensioni che non hanno ottenuto il favore popolare (De Vreese e Semetko 2004). Il referedum sull’euro è quello che ha avviato una profonda rottura tra l’Unione Europea e la Danimarca, soprattutto a causa di un più chiaro sentimento euroscettico diffuso tra la cittadinanza e tra alcune forze politiche (Archer 2000).

Il referendum sull’opt-out in materia di Giustizia e Affari interni del 2015

Nel 2015 i cittadini danesi sono chiamati a esprimersi sulla possibilità di mantenere o meno la deroga ottenuta con l’Accordo di Edimburgo in merito alla clausola di non collaborazione della Danimarca nei settori della giustizia e degli affari interni con l’Unione Europea (CNS 2017/0803). Il fonte del Sì, dichiaratosi a favore dell’eliminazione di alcuni opt-outs, è guidato dal partito liberale al governo; il fronte del No è sostenuto principalmente dal Partito Popolare Danese, che, pur appoggiando il governo di centrodestra, sceglie di opporsi alla possibile eliminazione delle clausole in materia di giustizia e affari interni con la conseguente conversione dell’attuale clausola di non partecipazione con una più flessibile di “partecipazione selettiva” simile a quella istituita in Irlanda e Gran Bretagna. Con un voto contrario del 53,1% su un’affluenza del 72%, i cittadini danesi decidono di non modificare gli

out-puts negoziati a Edimburgo. La gravità di tale esito è testimoniata dalla successiva

realizzazione di discussioni informali tra le autorità danesi e le istituzioni europee al fine di permettere alla Danimarca di mantenere una collaborazione con l’Europol2 per evitare di

2L’Europol (European Police Office), divenuta operativa a partire dal 1° luglio 1999, è un’agenzia che ha lo scopo di aiutare le autorità dei singoli Stati membri a contrastare le forme gravi di criminalità

ottenere dei “vuoti operativi” in un momento di crisi. L’accordo sulla cooperazione operativa e strategica tra il Regno di Danimarca ed Europol viene approvato con una grande maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 2017, al fine di includere la Danimarca nel gruppo di Paesi terzi con cui l’Europol ha la possibilità di instaurare accordi di cooperazione internazionale (CNS 2017/0803). Pur mantenendo fede agli esiti referendari del 1993 prima e del 2015 poi, quindi non accogliendo la possibile flessibilità degli opt-outs negoziati a Edimburgo, la Danimarca sceglie di cooperare in materia di giustizia e affari interni mantenendo un contatto con l’Europol.