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Il “tacito consenso” dalla EU membership al Maastricht Treaty del

Gli spot del DF per le Parlamentari

9.1 Acclaim 9.2 Attack 9.3 Defend 9.4 Altro per elezione Totale spot

4.2.1 Il “tacito consenso” dalla EU membership al Maastricht Treaty del

La Francia è considerata il più europeista tra i sei Paesi fondatori, soprattutto in ragione dell’impegno costante dimostrato dalla sua classe politica nella definizione delle politiche comunitarie (Drake e Reynolds 2017). Gli esponenti politici francesi hanno dimostrato il loro pieno sostegno a quelle decisioni finalizzate all’aumento dell’integrazione, infatti la Francia aderisce all’accordo di Schengen nel 1995 ed entra nell’eurozona nel 1999, e le forze in opposizione all’Unione, seppur presenti, non sono riuscite ad influenzare le decisioni prese dalla politica mainstream. L’automatismo con cui la Francia ha sostenuto e approvato le decisioni comunitarie ha fatto in modo che la issue Europa non si inserisse all’interno del dibattito pubblico e politico francese (Moss 1998; Grunberg 2008; Liszczyk 2012), almeno fino al referendum sulla ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992.

Gli Ottanta sono stati anni di quello che è stato definito come “façade of acquiescence” (Percheron 1991), ossia un diffuso consenso verso l’Europa che, inoltre, potrebbe aver inciso sulla scelta di non prevedere una consultazione popolare nel corso delle varie fasi che hanno portato verso l’integrazione europea; l’unico referendum si è tenuto nel 1972 in merito all’allargamento della CEE e ha visto la partecipazione del 60,24% dei cittadini che hanno votato in favore (68,32%) dell’ingresso di Danimarca, Irlanda e Regno Unito. Così come accaduto per il referendum del 1972, anche per le elezioni europee del 1979 e del 1984, la competizione elettorale si è incentrata sulla domestic politics e sullo scontro tra i due maggiori partiti francesi, il Parti Socialiste (PS) a sinistra e il Rassemblement pour la République (RPR) a destra. I due partiti hanno dedicato poco spazio alla issue Europa, nelle elezioni europee e in quelle nazionali, se non in riferimento alle possibili ripercussioni sul contesto interno delle politiche europee (Flood 2005; Grunberg 2008). Il “tacito consenso” verso il progetto europeo, espresso dalla politica francese a partire dall’istituzione della EEC e mantenuto nel corso degli anni Ottanta, è in parte dovuto all’idea diffusa che l’Europa avrebbe portato verso un ammodernamento dell’economia e a un miglioramento dell’assetto sociale del Paese, in riferimento soprattutto al Single European Act (SEA) del 1986; inoltre, l’inclusione nel progetto sovranazionale avrebbe permesso alla Francia di non sentirsi esclusa e di riguadagnare un posto all’interno degli equilibri internazionali; una necessità derivante dalla volontà di togliersi di dosso quel pregiudizio di Paese “rivoluzionario” e incapace di inserirsi in un contesto “collaborativo” radicato nelle vicende storiche legate alla Rivoluzione francese (1789) e alle guerre napoleoniche (1803-1815) che portarono verso la rottura dell’equilibrio europeo – ripristinato successivamente con il sistema di principi e di equilibri alla base della restaurazione e definiti nel corso del Congresso di Vienna (1814-1815) (Milner 2000, 2004;

Drake 2005). A ciò si aggiunge il retaggio storico lasciato da grandi esponenti della politica francese che hanno affermato la loro autorità e leadership a livello europeo. Da una parte, i Presidenti della Quinta Repubblica, da Charles de Gaulle a Jacques Chirac, hanno avuto un importante ruolo all’interno del disegno comunitario facendo leva sulla loro grande personalità e sul loro carisma; mentre, dall’altra, figure come Jean Monnet, Jacques Delors e Valéry Giscard d’Estaing hanno investito sulle loro capacità visionaria e sulla fiducia nella possibilità di mettere a punto un sistema di interdipendenze (Bell 2002; Drake 2005). L’adesione della Francia all’Unione deriva da una sorta di imperativo, una mancanza di alternativa: l’opzione “comunitaria” sembrava essere l’unico sistema, sostenuto da un numero discreto di personalità politiche di rilievo a livello europeo, che avrebbe permesso di raggiungere il principale obiettivo di politica estera della Francia, ossia la sicurezza nazionale attraverso la riconciliazione con la Germania. Una volta che la Francia si è impegnata nella costruzione della Comunità Europea, i leader della Quinta Repubblica hanno finito per considerare l’Unione come un mezzo per ridefinire un ruolo di rilievo della Francia, attraverso il mantenimento di un “equilibrio” tra integrazione europea e sovranità nazionale (Parsons 2000, 2003; Moreau Defarges 2003; Flood 2005).

Nel corso del tempo, il graduale svilimento di un europeismo che potremmo definire ideologico, ossia legato alle posizioni delle grandi personalità politiche che hanno considerato il progetto europeo come “uno degli atti più creativi e saggi dello Stato” (Bell 2002, p. 226), ha lasciato il posto a un dibattito europeo sempre più legato alla domestic politics, e di conseguenza alla valutazione dei costi e dei benefici socio-economici derivanti dalla

membership e dall’integrazione europea (Milner 2000; Drake e Reynolds 2017). Inoltre, i

cittadini elettori, anche a causa dell’assenza di una competizione basata sulle questioni e sulle decisioni comunitarie, finiscono per esprimere il proprio voto tenendo conto dell’operato del partito al governo, snaturando di fatto le elezioni europee della loro portata sovranazionale (Milner 2000). Ciò ha portato verso il graduale affermarsi di posizioni critiche nei confronti dell’Europa all’interno degli stessi partiti e anche incentivato un dibattito più attento alle questioni comunitarie. Soprattutto i partiti mainstream, ossia quelli che in quegli anni costituivano il sistema bipartitico francese, il Parti Socialiste e il Rassemblement pour la

République, hanno dovuto mantenere un basso profilo in relazione agli affari europei per

evitare e/o limitare i probabili scontri interni (Drake 2005; Hainsworth, O’Brien e Mitchell 2004; Grunberg 2008). Un chiaro segnale di un sistema politico non capace di gestire le istanze euroscettiche e un eventuale “conflitto” con l’Unione Europea, soprattutto a causa dell’accettazione, spesso acritica, delle politiche comunitarie.

Il mantenimento di una posizione centrista e coerente nel campo degli affari europei è una condizione che la Francia è riuscita a mantenere dalle dimissioni di De Gaulle nel 1969 fino ai primi anni Novanta. L’alternanza al governo di tre partiti moderati, il partito gollista RPR,

il PS e l’UDF (Union pour la Démocratie Française), pur se appartenenti a fazioni diverse dello spettro politico, ha fatto in modo che si riuscisse a mantenere un certo sostegno al processo di integrazione (Grunberg 2008). Negli anni tra il 1986 e il 1988, durante un periodo di

cohabitation, il Presidente e leader del PS, Francçois Mitternad, e il Primo Ministro e leader di

RPR, Jacques Chirac, sono riusciti a collaborare nella gestione dei rapporti con l’UE, gettando le basi per il successivo allargamento dell’Unione, per la formazione del mercato unico e per la preparazione del Trattato di Maastricht, nonostante alcuni disaccordi e la presenza di fazioni fortemente anti-europeiste all’interno dei propri partiti di appartenenza. Per ragioni diverse, infatti, entrambi gli schieramenti hanno visto formarsi gruppi euroscettici: nel caso del RPR, l’opposizione era legata soprattutto all’idea del mantenimento e della salvaguardia della sovranità nazionale; mentre, nel caso del PS, questa si basava sul rifiuto della costruzione di un’Europa capitalista e di libero scambio che mettesse a rischio il welfare economico e sociale. A questi si aggiunge il Partito Comunista, che si opponeva alla maggiore integrazione per contrastare la formazione di una entità sovranazionale capitalista e sempre più vicina all’organizzazione degli Stati Uniti. Nonostante i partiti si caratterizzassero per la presenza di diverse motivazioni alla base delle istanze anti-europeiste, la issue Europa non era considerata così importante da rischiare di avviare uno scontro che avrebbe indebolito il proprio partito (Hainsworth, O’Brien e Mitchell 2004; Milner 2004; Grunberg 2008). Osservando quelle che sono le maggiori ragioni alla base dell’opposizione all’Unione da parte dei partiti politici francesi, tra le forze di destra e di sinistra emergono alcune importanti divergenze. Nei partiti di sinistra, nello specifico i due comunisti facenti parte della “Trotskyite”, la Lutte Ouvrière (LO) e la Ligue Communiste Révolutionnaire (LCR), l’euroscetticismo si basa su un duro attacco al liberalismo, al capitalismo e alla globalizzazione, considerate le cause dello sviluppo di una società e di un’economia disequilibrata e svantaggiosa non solo per i singoli Stati membri, ma per l’intero sistema sovranazionale. Le forze di sinistra sono fautrici, seguendo processi operativi differenti, di una politica di redistribuzione e di un’Europa sociale, che si impegni nello sviluppo dei servizi pubblici, nella tutela delle classi operaie, nell’assistenza sociale e nella salvaguardia dell’ambiente. Partendo dalla volontà di creare un’Europa “aperta”, le critiche mosse agli accordi di Schengen si fondano sulla necessità di definire delle norme che non sia particolarmente restrittive e discriminatorie nei confronti di immigrati e richiedenti asilo; inoltre, si registra un intenso sostegno per la creazione di una rete di cooperazione in materia di difesa e sicurezza (Milner 2004; Flood 2005). Le obiezioni dell’ala destra, nello specifico quella sovranista rappresentata dal Front National (FN), dal Mouvement pour la France (MPF) e dal Ressemblement pour la France (RPF), partono dal riconoscimento della centralità della sovranità e dell’identità nazionale, che devono essere salvaguardate e protette nel processo di integrazione tra gli Stati membri. Ampiamente criticata l’inefficacia degli accordi di

Schengen sia nella gestione dei flussi migratori sia nel mantenimento della sicurezza nazionale ed europea; la minaccia dei flussi è vista da questi partiti non solo in termini socio- economici e occupazionali, ma anche in riferimento al possibile affievolimento della cultura e delle tradizioni nazionali a causa di una difficile integrazione. Nonostante siano a favore di una politica di redistribuzione in alcuni settori, la destra si esprime in favore del libero mercato, pur sottolineando la necessità di definire dei criteri che rendano competitive le economie nazionali a livello europeo. Molte critiche sono mosse, invece, in relazione alla tassazione necessaria per la creazione di Fondi strutturali da destinarsi ai diversi Stati dell’Unione (Hainsworth, O’Brien e Mitchell 2004; Flood 2005).

Nonostante le molte e diverse posizioni di queste forze politiche in materia comunitaria, in realtà la issue Europa viene completamente “neutralizzata” dalla classe politica francese all’interno delle campagne elettorali, al punto che persino le elezioni europee si concentrano su temi di politica interna. Le argomentazioni più diffuse, infatti, pongono sempre l’attenzione al domestic contex, se si considera che esse riguardano: l’eccessiva centralizzazione dei poteri a livello comunitario, le conseguenze sociali ed economiche negative dovute all’introduzione della moneta unica, il deficit democratico che non include i cittadini nei processi alla base di un sistema democratico come quello europeo, l’inadeguatezza e la difficoltà nel tener fede agli accordi di Schengen in materia di asilo e immigrazione, i problemi economici, ma anche culturali, legati all’ingresso di Paesi “non occidentali” (Hainsworth, O’Brien e Mitchell 2004; Milner 2004; Flood 2005).