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Il contesto elettorale

A quattro anni dalle precedenti elezioni, il 15 settembre l’87,79% dei cittadini danesi (un dato che permette alla Danimarca di mantenere il primato in Europa in merito alla partecipazione elettorale) si reca alle urne per eleggere i propri 175 rappresenti del Folketing, anche se la campagna elettorale sembra iniziare già prima dell’ufficiale indizione da parte del Primo Ministro Lars Løkke Rasmussen, avvenuta il 26 agosto, in seguito allo scioglimento della Camera parlamentare dovuto alla difficoltà nell’approvare una strategia comune nella gestione del Paese da parte delle diverse forze politiche. Lo scontro sorto nella definizione di questo economic plan, ha avviato un intenso dibattito già a partire dall’inizio dell’anno, che ha assunto i caratteri di una vera e propria campagna soprattutto se si guarda alla narrazione mediale della vicenda (Kosiara-Pedersen 2012; Stubager 2012).

Alle elezioni si presentano due diverse coalizioni: quella di centro-destra, formata dai partiti della coalizione di governo, il liberale Venstre (V) e il conservatore Det Konservative Folkeparti (KF), supportati dal partito di destra Danks Folkeparti (DF); quella di centro- sinistra, costituita dai socialdemocratici (SD) e dal partito social-liberale (RV), con il sostegno del partito popolare socialista (SF). Nonostante il partito del Primo Ministro abbia registrato il maggior numero di voti (26,7%), è la coalizione di sinistra a conquistare il maggiore consenso (50,4%). Dopo dieci anni, caratterizzati dalla presenza di governi di centro-destra, le forze di centro-sinistra ottengono la maggioranza in Parlamento e la leader dei socialdemocratici Helle Thorning-Schmidt diviene Primo Ministro. La svolta a sinistra porterà verso la diffusione di alcuni pregiudizi circa la presenza di un governo composto da esponenti giovani e inesperti. La vittoria della sinistra deve essere letta anche tenendo conto

della presenza del Partito Popolare Socialista all’interno della coalizione, dal momento che è proprio il successo e la popolarità di questa forza politica ad arginare la perdita di consenso registrata per i socialdemocratici e i socialisti liberali rispetto alle precedenti elezioni (Kosiara-Pedersen 2012; Bille 2012). Il lento declino della formazione di centro-destra sembra avere una connessione con la perdita di centralità di temi come l’immigrazione e la sicurezza, entrambi key issues di tali partiti, in favore di una dimensione più economica che conquista rilevanza in seguito alla decrescita economica e all’aumento della disoccupazione come effetti della crisi economico-finanziaria del 2008. A ciò, si aggiunge la graduale perdita di rilevanza del Partito Popolare Danese che, proprio sui temi in declino basava la sua popolarità, anche sul declino sembra influire il sostegno espresso per il piano economico presentato dal governo liberal-conservatore (Kosiara-Pedersen 2012).

In un primo momento, la campagna si incentra su quelli che sono i due economic plans, ossia i pacchetti di riforme volte a risollevare la situazione del Paese delineati dai due grandi schieramenti al governo: da un lato, il piano della coalizione di centro-destra al governo “Denmark 2020 – knowledge, growth, prosperity, welfare”, dall’altro, quello dell’opposizione di centro-sinistra “A Fair Solution”. La scelta elettorale sembra basarsi proprio sulla valutazione di tali misure, pertanto la copertura mediale sarà quasi esclusivamente incentrata sulla “lettura” dei due piani economici, all’interno dei quali è la riforma pensionistica a far emergere le maggiori frizioni. Gli stessi partiti sono chiamati a chiarire i dubbi per dimostrare non solo la sostenibilità del proprio pacchetto di riforme, ma anche per dimostrare la capacità di attuare politiche migliori rispetto alla parte avversaria (Bille 2011; Stubager 2012). In questo senso, i partiti incumbent si trovano ad occupare una posizione sfavorevole, dal momento che uno degli argomenti delle forze di centro-sinistra sarà proprio il fallimento delle politiche attuate dal governo, rintracciabile nell’aumento della disoccupazione che passa dal 4,4% al 7,4% solo nei primi mesi del 2009 (Goul Andersen 2010). A partire da tale polarizzazione, la campagna elettorale finisce per concentrarsi quasi esclusivamente su quelli che sono gli effetti della crisi economica, la quale sembra essere una scelta “vincente” anche tenendo conto dei sondaggi sull’opinione pubblica condotti in concomitanza con l’avvio del periodo di campagna: il 79% dei cittadini indica l’economia come la prima issue in termini di rilevanza, mentre la disoccupazione è indicata dal 62% del campione; solo per il 24% dei soggetti coinvolti nell’indagine l’immigrazione risulta essere un tema centrale (Stubager 2012).

Differentemente da quanto accaduto per le precedenti elezioni del 2007, le agende politica, mediale e pubblica delle parlamentari del 2011 sono dominate dal topic della crisi economica, che trascina con sé la lenta recessione e l’aumento della disoccupazione, ma non scompaiono altri temi, come l’immigrazione e le politiche di integrazione, la salute e l’istruzione, che sono però trattati in misura minore e ottengono una copertura rilevante solo nella seconda parte

della campagna elettorale. Lo scontro politico si verifica in relazione alle accuse di incapacità che la formazione di centro-sinistra rivolge alle forze di governo, e che trovano terreno fertile all’interno della narrazione mediale, dove ai partiti incumbent viene addebitato il costante aumento della disoccupazione e le difficoltà incontrate nel far ripartire la crescita (ibidem). A ciò si aggiunge la necessità di una “visione comune” e di una cooperazione all’interno del Folketing per garantire la rapida e ottimale risoluzione delle problematiche; una richiesta che sembra giungere dagli stessi cittadini-elettori, come dimostra il calo dei consensi registrati da quelle forze estremiste che si oppongono a un qualsiasi tipo di negoziato e compromesso (Marini 2011; Bille 2012; Kosiara-Pedersen 2012).